Filacciano, Gerano, Marano Equo, Marcellina, Mentana, Montecelio Guidonia, Monteflavio


FILACCIANO

Le origini
Un Fundus Flacianus è all'origine dell'abitato e si sa che fu donato da un tale Zaro all'Abbazia di Farfa nel 779. Ai primi dell'800 il fondo aveva un casale presso il quale sorse poi la chiesa di S. Egidio Abate della fine del secolo X. Anche il toponimo Faliscianum potrebbe essere all'origine del nome o essersi fuso con il successivo Flaccianus; resterebbe da verificare se il territorio dei Falisci si estendesse sino a qui. Da escludere una parentela con il nome dell'imperatore Feliciano semplicemente perché un imperatore con un simile nome non è mai esistito. Tra le varie vicende e passaggi di proprietà del feudo vale la pena di notare che nel 1100 circa apparteneva ai Crescenzi, famiglia ostile al Papato e quindi vicina politicamente agli Abati di Farfa che erano, allora, di nomina e parte imperiale; nel 1344 è già documentata l'appartenenza agli Orsini, che successivamente fecero un patto con gli Abati di San Paolo per unire i loro possedimenti con quelli di Nazzano e Civitella San Paolo, uno scambio di feudi, insomma, nel reciproco interesse. La posizione del paese non era essenziale da un punto di vista militare ma consolidò per un certo periodo di tempo, la posizione degli Abati di Farfa come i feudatari più potenti della zona, almeno finché i Papi non cominciarono a favorire i monaci di San Paolo Fuori le Mura che fecero centro, appunto, a Civitella San Paolo. Più tardi il feudo passò attraverso il dominio di varie famiglie romane tra le quali vale la pena di ricordare gli Orsini nel Cinquecento ed i Savelli nel Seicento.

Il paese
L'abitato è, sotto taluni aspetti particolari, il più conosciuto della zona, infatti è studiato e ammirato soprattutto dagli architetti perché, anche se assai piccolo, ha una struttura urbanistica del tutto originale.
La vecchia porta d'ingresso sembra medioevale, di quelle che nei secoli sono state lentamente trasformate in abitazioni, dopo aver perso le proprie caratteristiche militari, ma, se così fosse veramente, la costruzione sarebbe assai meno regolare. Assai regolari anche i due archi all'interno del portale, che incorporano anche due sedili in muratura, fatto più raro ancora. Il segreto si svela appena si oltrepassa questo ingresso e ci si trova nella Piazza Umberto I: tutti gli edifici sono bassi, a due piani, tutti costruiti con un medesimo stile, severo ma non pesante, tutti di un medesimo colore, giallo ocra, con le cornici di porte e finestre di stile classico e bianche, anche i finestrini delle scale o degli ambienti più piccoli sono tutti di un medesimo ovale. Il contrasto dei colori evidenzia la struttura dei muri, razionale senza essere fredda, e questa diviene, automaticamente, per chi arriva, la struttura stessa dell'ambiente, che viene così "posseduto" interiormente nella sua totalità e che, perciò, è stato definito come una grande sala all'aperto. L'epoca è documentata nel 1614, e lo stile tardo manierista delle decorazioni lo conferma. Nello stesso periodo, a Roma, si è affermata un'urbanistica funzionale e decorosa con la realizzazione del famoso tridente.

I due borghi
Sullo sfondo un'altra sorpresa, l'ingresso del paese non è più quello appena passato ma si trova incorporato nel palazzo-castello dei del Drago. È preferibile chiamare la costruzione palazzo piuttosto che castello perché questa è la sua funzione urbanistica; i ricordi militareschi sono limitati alla torre dell'orologio e al torrione mozzato all'estrema sinistra della facciata. Notevole la pavimentazione della strada, ancora originaria e in perfetto stato di conservazione.
Nel borgo non esistono vicoli o strade laterali e tutto l'antico abitato si allunga, quasi in rettilineo, su questa strada. Dopo pochi passi si trova la chiesa parrocchiale, una volta annessa al castello, con un soffitto a cassettoni della stessa epoca della ristrutturazione urbanistica di buona fattura coevo alla copertura lignea del fonte battesimale che è a forma di tempio classico, sovrastata da un San Giovanni Battista di scuola romana del secolo scorso. Le due statue laterali del Sacro Cuore e dell'Addolorata sono circondate da cornici in muratura del tardo Settecento o dei primi dell'Ottocento, epoca dell'Assunta sull'Altar Maggiore, quadro di fattura più che dignitosa se non buona.
Gli edifici hanno spesso basi in muratura assai antiche, spesso anteriori al XIII secolo, riconoscibili dall'irregolarità della muratura e dall'uso di pietre utilizzate senza scalpellature di adattamento. Fuori del borgo si trova l'Asilo Infantile Sebastiani, del 1904, anch'esso assai ben tenuto, un buon esempio di Liberty.
Il Borgo di Sotto nacque in tempi antichi a ridosso delle mura di difesa ancora intuibili anche se trasformate. La merlatura di un arco testimonia come la strada principale di accesso fosse originariamente quella che saliva dal fiume. Tra i resti romani inseriti nei muri in uno è scritto Quintus Moratius Flaccus, della famiglia proprietaria dell'antico fondo.
Lungo la strada che sale si trova la chiesa di Sant'Egidio, sorta forse prima ancora del paese. Il Romitorio del IX secolo ad essa annessa è oggi incorporato nell'ossario del cimitero. L'ultimo eremita è registrato nel 1796 e dopo la rivoluzione francese non ce ne furono più. Nella chiesa sono stati riportati alla luce nel 1969 gli affreschi originari. La decorazione ripete schemi molto antichi, bizantini, ed è notare che l'imprimitura (il disegno delle stoffe lavorate) delle vesti delle Sante ai lati della vergine imita quella degli antichi mosaici e non, come spesso accade, le stoffe orientali che venivano importate nel Medioevo. Per tale ragione è probabile che nel 1228 il maestro che le eseguì abbia in parte ricalcato esempi anteriori, anche se non necessariamente preesistenti in loco.

Il folklore
Le feste in onore di S. Egidio si svolgono alla fine di agosto, con processioni e sfilate delle confraternite in costume; più caratteristica la sagra delle fave con il Pecorino, che ovviamente è a maggio. Non manca, come in molti paesi della zona, la tradizionale Infiorata per il Corpus Domini.

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GERANO

Il paese della Gentilezza.

Le origini
Trae le origini dal municipium romano di Trebula Suffenas del II secolo a. C.
La Gerano attuale sorge nel Medioevo con il ritorno degli abitanti del Lazio a luoghi più fortificati e più sicuri, in particolare durante la risistemazione del territorio nel periodo carolingio furono "travasati" gli abitanti del vicus Trellanum sul vicino mons Giranum.
Fuori del paese la chiesetta di S. Anatolia attesta l'antichità dell'insediamento conservando ancora la forma di una Curtis Dominica. (il cortile principale di un'abitazione signorile).
Per un paio di centinaia di anni almeno il castello fu conteso tra gli abati di Subiaco e i Vescovi di Tivoli. La conseguenza fu un succedersi di continue guerre locali, tanto che papa Gregorio VII, non potendo risolvere la questione di diritto, dovette stabilire che Gerano fosse diviso in due castellanie cui ambedue i prelati, quello nominato dagli abati di Subiaco e quello dei vescovi di Tivoli, potevano accedere. Un paese con due castellani è un fatto più unico che raro!
Tra un abate da una parte ed un vescovo dall'altra, i Geranesi si diedero da fare e riuscirono ad emanciparsi prima di molti altri dallo stato di servi della gleba ottenendo la libera conduzione dei terreni.

Il paese
Il paese ha la struttura tipica di quelli della zona, con un castello nella parte più alta ed un borgo che si arrampica sul monte dalla parte più scoscesa. Sotto il castello, dove c'è un pò di piano, la piazza del mercato, dal 1918 Piazza della Vittoria. Prima di arrivare a questa piazza si incontra la chiesa di San Lorenzo Martire, costruita su progetto di Giuseppe Camporese nel 1786. Quasi dinanzi alla chiesa si trova l'antico ingresso all'abitato, che è così bene inserito nel palazzo soprastante da poterne sembrare l'ingresso settecentesco, ma basta entrare nel vicolo coperto che si è formato nei secoli per ritrovare, dall'altra parte, l'arcata originaria, rinforzata più volte, il cui aspetto attuale è duecentesco e la cui origine, di conseguenza, deve essere notevolmente anteriore. Notevole è la torre dell'abate Giovanni, che risale quindi ai primi anni dell'XI secolo; la torre e il muro fortificato sottostante, come dice il nome, appartenevono alla gerano dei monaci.
Si può ipotizzare che uno dei due castellani risiedesse quì e l'altro nella parte più alta; così le due parrocchie di San Lorenzo e di Santa Maria Assunta corrisponderebbero ai due prelati-castellani che avevano la giurisdizione sul paese.
Più in alto sta la parrocchiale dell'Assunta, certamente, nelle sue parti più antiche, risalente anch'essa all'Alto Medioevo. L'interno è assai più recente, e ristrutturato più volte dal '500 in poi, ma la collocazione della facciata stessa, quasi chiusa in un vicolo, mentre sulla piazza si trova il fianco, testimonia di un'epoca in cui contava di più essere vicini e difendersi che passeggiare la sera.

La Madonna del Cuore
All'interno si trovano un discreto quadro d'accademia della Madonna del Rosario e la Madonna del Cuore, il fulcro della devozione dei Geranesi alla Vergine. L'immagine fu lasciata nel 1729 da due missionari gesuiti venuti a predicare e che non riuscirono ad allontanarsi prima di averla donata al paese. Infatti, ogni volta che tentarono di partire portandola con se tuoni, fulmini ed acqua a dirotto li costringevano a desistere. La leggenda è simile a molte altre raccontate nel Lazio e riutilizzata inconsciamente anche in questa occasione; testimonia bene della fede e della devozione del popolo di questo paese.

Una tradizione gentile
Alla Madonna del Cuore è connessa la tradizione dell'infiorata, dell'abitudine, cioè , di fare delle composizioni di fiori, veri e propri quadri, in onore della Vergine che viene fatta passare su questo insolito e bel tappeto. È dal 1770 che esiste quest'uso confermando che Gerano è il paese in cui è più antico, visto che a Roma da tempo non si fa più
Una volta nella piazza esisteva una parte non pavimentata proprio per permettere di fare meglio le composizioni di fiori che devono seguire una serie di operazioni abbastanza complesse; attualmente tutto la superficie è stata asfaltata e le cose sono un poco più complesse, anche se fondamentalmente invariate.
Ricordiamo ancora la fiera di s. Anatolia, patrona di del paese e a novembre la sagra delle zazzicchie e verole, che sono le salciccie locali con castagne arrosto.
Piatto tipico sono gli strozzapreti, pasta fatta di farina di grano e di granturco, che nella variante locale si condiscono con una salsa al pomodoro.

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MARANO EQUO

Si tratta di un abitato molto antico, probabilmente risalente al tempo degli Equi che, abbandonato al tempo delle invasioni barbariche, riprese vita dopo la restauratio imperii di Carlo Magno. L'origine del nome può essere attribuita ad un Fundus Marianus ricordato nel luogo; meno probabilmente all'esistenza di qualche piccolo corso d'acqua o "marana" dei dintorni. L'appellativo "equo" fu aggiunto dopo l'unità d'Italia per distinguere il paese dagli altri otto con lo stesso nome esistenti.
Marano Equo fu conteso per secoli tra gli abati di Subiaco ed i vescovi di Tivoli rimanendo spesso nelle mani di qualche potente famiglia romana che profittava di questa contesa. Tra gli altri padroni del paese ricordiamo il console Cesario, uno di quei duchi della città che si erano resi relativamente indipendenti dai papi e la famiglia dei Crescenzi. Verso la metà del XII secolo il castello era abbastanza forte che il suo signore potè permettersi di ribellarsi agli abati che, pare, dovettero faticare non poco per sottometterlo. Nel 1474 Rodrigo Borgia, abate di Subiaco, si fece dare il castello dal monastero come compenso per l'incarico ricevuto dal papa di amministrare l'abazia ed il paese rimase in questa condizione sino al Settecento, anno in cui passò all'amministrazione diretta di Roma. Il territorio, nel frattempo, ebbe altri padroni, anche in questo caso le solite potenti famigli romane: i Colonna, i Caffarelli, i Borghese.
Sappiamo dalle cronache che anche quì la peste che a metà del Seicento devastò l'Europa fece strage, riducendo la popolazione a metà, meglio, comunque, di altri centri dei dintorni che praticamente scomparvero.

Il Paese
Il centro del paese ha mantenuto ancora il suo aspetto medioevale anche se del vecchio castello rimangono solo poche tracce, tra cui quelle di un antico torrione. Sempre sui ruderi della rocca è costruita la Chiesa parrocchiale di San Biagio, il patrono del paese.
L'altro importante centro religioso dei maranesi è il Santuario di Santa Maria della Quercia, distante circa un chilometro, annesso ad un convento prima benedettino e poi francescano. Il santuario conserva una serie di affreschi del Quattrocento sulla parete interna della facciata ed una rappresentazione della miracolosa apparizione della Vergine tra i rami di una quercia ad un contadino che bestemmiava. In questo affresco, di Francesco Cozza, è perfettamente rappresentato, tra l'altro, il paese quale era alla metà circa del secolo, con la cinta delle mura del borgo ancora tutta intatta e perfettamente regolare; il paesaggio è descritto evidentemente con una buona dose di fedeltà, visto che si vede benissimo la discesa che dal paese porta al monte del santuario ed un bivio, tuttora esistente, con una costruzione, ancora oggi in piedi, in cui si trova proprio una raffigurazione della madonna della quercia.
Vista la ricchezza di particolari saremmo anche propensi a credere che le case ed i tetti del paese siano stati rappresentati con una certa precisione, cosa alla quale, come si può facilmente comprendere, gli abitanti certamente tenevano.
Tra le altre costruzioni si distingue il castello, di cui sono rimaste poche tracce, compresa la torre cilindrica all'angolo, anche se ribassata, di cui parlavamo prima, e che è stata quasi del tutto inglobata in altre abitazioni.
Si vede una chiesa; crediamo che si tratti, piuttosto che dell'attuale parrocchiale, di quella dell'Addolorata, che si trova nel borgo e che era la vera chiesa della comunità; questa, da qualche tempo, dopo i restauri della sopraintendenza, è stata riaperta al culto.
Infatti San Biagio era l'antica cappella gentilizia, visto che si affaccia, come la sede del comune, su quella che era la corte del castello e quindi, essendo all'interno, non avrebbe potuto essere rappresentata nel dipinto.
A occhio e croce uno dei lati del borgo medioevale, quale è rappresentato nel dipinto, non doveva essere molto superiore ai 150 metri, due ettari di paese o poco più, nei quali, agli inizi dell'Ottocento, stavano compressi 1065 abitanti, più o meno quanti erano due secoli prima.
Il paese presto non ebbe più vincoli feudali e questo probabilmente spiega il rapido scomparire delle mura e di buona parte del castello.

Il folklore
Ai due centri religiosi principali sono connesse le due principali feste di Marano Equo: la festa di San Biagio, protettore contro il mal di gola, si celebra il 3 febbraio con una processione durante la quale si fa volare un pallone aerostatico. La festa della Madonna della Quercia si celebra il 5 agosto, mese nel quale si tiene anche una sagra della bruschetta il 15 ed una del fagiolo l'ultima domenica.

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MARCELLINA

Le origini
L'attuale abitato non corrisponde a quello dell'originario Castrum De Marcellinis ma al borgo che sorgeva in prossimità del Monastero Benedettino di Santa Maria in Monte Dominici, anzi, con i De Marcellinis i monaci erano in perenne contrasto e un antico documento si preoccupa di stabilire che il monastero rimanesse "libero e immune da tutte le condizioni e servitù da parte dei figli di Gregorio De Marcellinis". Il Castrum Marcellini è probabilmente da identificare con la località Castelluccio in cui sorgevano i ruderi di un antico castello e che si trova esattamente in mezzo al triangolo formato da Montecelio, Palombara e l'attuale Marcellina. Un terzo insediamento contribuì alla nascita di Marcellina, il castello di Turrita, del quale si trovano ancora i ruderi a poco più di due chilometri dal centro.
Il controllo delle strade che portavano a Roma era essenziale nel Medioevo soprattutto per gli imperatori, che cercarono sempre di mantenere un controllo sulla capitale che non fosse solamente formale. I contrasti tra i Marcellini ed i monaci ne sono testimonianza; lo stemma di questa famiglia, che è oggi quello di Marcellina, porta un'aquila a due teste, simbolo dell'impero ed indice che la loro nomina era da parte imperiale e non del papa. Per questa ragione i papi sottrassero il monastero di Santa Maria in Monte Dominici ai Vescovi di Tivoli e lo attribuirono, come altri paesi della zona, ai monaci di San Paolo Fuori le Mura. Le terre, o parte di esse, furono però date ai Marcellini che continuavano a vantare i loro diritti sino a quando Bonifacio VIII fece signori gli Orsini. Questa notizia si trae da un atto di concordia del 1229 in cui ritroviamo i Marcellini ed i Monaci di San Paolo fuori le mura. In conseguenza di alcuni contrasti i "pacifici" monaci distrussero il castello dei Marcellini incendiandolo e ne deportarono la popolazione a San Polo e presso il Monastero di Santa Maria in Monte Dominici, tanto che, quando furono costretti dal Card. Stefano a ricostruire il castello come era, dovettero impegnarsi a restituire gli abitanti, anche cacciandoli se necessario.
Nel 1558 Paolo Giordano Orsini vendette questo ed altri feudi al Card. Federico Cesi, che migliorò l'economia dei luoghi in modo notevole. Ultimi feudatari furono, nel Settecento, i Borghese.

L'abitato
L'abitato della Marcellina odierna ha poche tracce dell'antico passato medioevale rispetto ad altri paesi della zona, il fatto di trovarsi direttamente sulla direttrice che da Tivoli portava fino alla Flaminia passando per Palombara, Moricone e Farfa e per di più al bivio per San Polo, ha fatto probabilmente sì che ci sia stato un continuo rimescolamento edilizio. Gloria e vanto di Marcellina è dunque, e giustamente, la Chiesa di Santa Maria delle Grazie in Monte Dominici. Ottimamente restaurata e mantenuta sia all'interno che all'esterno.
Tra i lavori recenti un nuovo portale in legno opera di A. Galante, scultore siciliano che ha saputo coniugare uno stile moderno con le esigenze di un figurativo che doveva farsi carico di significati tradizionali non modificabili e di particolare contenuto storico per la comunità di Marcellinese.
In chiesa si possono ammirare i resti degli affreschi antichi, del XII/XIII secolo di scuola romana. La nudità e il chiarore delle pareti sottolineano quanto rimane di colore e malgrado il passare dei secoli ancora si possono ammirare sfumature ed espressioni dei volti. Lo stile originario si è mantenuto malgrado le rodipinture e mostra di essere opera di un maestro capace ed autonomo rispetto alle altre botteghe romane. Si possono osservare, ad esempio, tutti i diversi volti degli angeli nei vari riquadri a proposito dei quali va notato che sono divisi da colonne e pilastri e non da cornici, con accenni di prospettiva, fatto unico in quest'epoca e riscontrabile solo molto più tardi, che colloca questo pittore in una netta avanguardia rispetto ai contemporanei. Avanzando nella chiesa ci si accorge ad un tratto di essere passati sotto un arco trionfale riccamente decorato, questo perché in tempi più antichi l'ingresso principale era dall'interno del monastero e l'attuale facciata era l'abside. Questa inversione fu fatta nel XVII secolo, epoca dei due affreschi laterali, dei quali la Crocefissione combina anche pittura e scultura assieme, e degli archi a sesto ribassato della facciata, forse dopo l'abbandono del monastero da parte dei Serviti che erano succeduti ai Benedettini.
Una parola a parte merita l'immagine bizantina della Madonna con Bambino sopra l'altare, risalente certamente alle origini della chiesa ed anteriore a tutti gli altri affreschi. Indicata come una copia dell'immagine di Santa Maria in Trastevere, con questa non ha a che fare ed è certamente anteriore di un secolo almeno. Non solo viene dall'oriente ma si può rilevare che regge in mano una spada, cosa che non è in nessuna immagine sacra romana, e che il Bambino Gesù, fatto unico in Italia, è negro. Non per scurimento del colore, ma con le caratteristiche somatiche proprie di quelle razze (forse il corno d'Africa?). Avanziamo l'ipotesi che la provenienza fosse dall'impero bizantino, verso l'alto corso del Nilo. Giusta invece l'ipotesi che sia stata importata dai monaci di San Silvestro in Capite, di regola orientale, che pare abbiano anchessi tenuto per qualche tempo questo monastero. All'esterno della chiesa si mantiene ancora bene il bel campanile romanico.

Il folklore
Un'antica leggenda è riportata su di uno dei sei riquadri della porta di S. Maria in monte Dominici, quello in alto a destra che rappresenta un episodio miracoloso avvenuto nel 1515 e attestato nel regesto di Tivoli: ad una donna di nome Giovanna apparve la Madonna, in piedi su un noce, per invitare il popolo di San Polo alla penitenza. La storia racconta che poi il noce fiorì a Ginestra, fatto che sottolineò il miracolo. Ogni anno una processione da San Polo a Marcellina ricordò il fatto e un pezzo del noce è ancora visibile all'interno.
Delle antiche feste e processioni sopravvivono quella del Corpus Domini, con la tradizionale infiorata, quella del Venerdì Santo e la benedizione del bestiame davanti alla parrocchiale a Sant'Antonio Abate. A maggio è la festa della Madonna delle Ginestre, curata dalla Confraternita dei Butteri che invoca la fecondità degli armenti.

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MENTANA

Le origini
Il nome Mentana deriva da quello dell'antica Nomentum, cittadina posta sulla strada che collegava la Salaria con la Tiburtina quando si era ormai ad una sola giornata da Roma. La città era più antica dell'Urbe anche se non è determinato se si trattasse originariamente di una colonia Sabina o Latina, secondo la provenienza degli abitanti dalla direttrice della Salaria o della Tiburtina. I dati storici la danno prima per sabina, quando partecipò alla guerra contro i Romani dopo il ratto delle Sabine, e poi per latina quando partecipò alla lega latina che i Romani sconfissero al lago Regillo (496 a.C.). Ricordiamo che Roma stesa era in pratica metà latina e metà sabina.
Mentana nell'antichità era uno dei luoghi preferiti dai ricchi per costruire le loro ville, insieme luoghi di villeggiatura e tenute agricole, e doveva essere centro di una vita raffinata ed elegante. Tra i più famosi proprietari e frequentatori ricordiamo Attico, l'amico di Cicerone, Ovidio, Marziale, Seneca.
Un problema degli archeologi è stabilire dove si trovasse realmente questo centro abitato che doveva essere vicino ma non coincidente con l'attuale.
L'occupazione militare di Liutprando, re dei Longobardi, nel 741 fu forse la fine di quello che rimaneva della città antica.
Dopo la discesa di Carlo Magno i papi rafforzarono le difese attorno a Roma e divennero i veri signori feudali del Lazio. Cardine di queste difese era l'attuale Mentana e non la romana Nomentum che, come centro abitato, era andata da tempo distrutta già nel corso della guerra greco-gotica. Nella storia d'Italia Mentana viene spesso nominata a proposito di combattimenti e battaglie volte ad aprirsi la via per la città eterna; da Mentana si può interdire il passaggio sia dalla parte del Tevere, sulla Salaria, che da quella dell'Aniene, sulla Tiburtina Valeria, visto che entrambe queste due vie di comunicazione sono raggiungibili, a piedi, in un tempo variabile da una a tre ore secondo i casi e con manovre facilmente programmabili, il tutto ancora ad una giornata da Roma.
Mentana assunse proprio dopo l'incontro tra Papa Leone III e Carlo Magno, per fermare un'eventuale discesa dei duchi di Benevento dall'Abruzzo o una scorreria dei Saraceni che avevano preso dei castelli nell'entroterra.
Citiamo un episodio scritto in una lapide sul pavimento del coro della basilica di Santa Sabina a Roma; l'iscrizione è in versi leonini, che riportiamo nella traduzione del p. Darsy:
"QUANDO EUGENIO OCCUPAVA IL TRONO PAPALE
PER OPERA SUA, IL CORPO DI ALESSANDRO, ILLUSTRE PRESULE
E DI TEODULO E ANCHE IL TUO, O MARTIRE EVEZIO
ACCANTO A SABINA E ALLA PIA SERAPIA
FU DA LUI DEPOSTO IN QUEL LUOGO, DOVUTO AL PRETE PIETRO
AL TEMPO DI CELESTINO, IL TUO PONTEFICE, O ROMA
PER LORO E PER TUTTI I PURIFICATI DAL BATTESIMO
PREGATE IL SIGNORE DI ESSERE PROPIZIO".
Come si vede al tempo di papa Eugenio II (824 - 827) Nomentum non esisteva più tanto da rendere opportuno il trasferimento a Roma dei suoi martiri più illustri dal cimitero al settimo miglio della via Nomentana, fatto che segnava anche l'incorporazione definitiva della sede vescovile. Poiché Nomentum si trovava al 14º miglio della Nomentana se ne può dedurre che questo Coemeterium si trovava presso a poco a metà strada da Roma e che i confini dell'antica diocesi si estendessero certamente almeno sino a quel punto che non coincide esattamente, comunque, con l'attuale metà della strada che porta a Mentana, anzi al castello di Mentana.
Infatti l'antica strada passava fuori dell'abitato, se ne hanno le traccie, e l'attuale centro non coincide quasi con l'antico proprio perché si è sviluppato, a partire dall'epoca dello storico incontro tra Leone III e Carlo Magno, attorno al castello.
Successivamente Mentana entrò a far parte dei domini dei Crescenzi, permettendo il collegamento tra i loro castelli sabini e quelli ciociari e per questo fu presa e distrutta dai Normanni, che sostenevano il papato, nel 1081. L'abitato fu distrutto ma doveva essere già assai piccolo se circa cento anni prima la sede vescovile era stata fusa, con altre, a quella di Foronovo ( oggi Vecovìo) per costituire la diocesi di Sabina. Dopo la presa normanna i papi ne attribuirono il possesso agli abati di San Paolo, possesso confermato da diversi imperatori contro i tentativi di usurpazione.
In quest'epoca Mentana è citata come Civitas Nomentana (Città sulla Nomentana), da cui poi La(civita)mentana e Mentana, a rafforzare la tesi che il nome derivi da quello dalla strada e non dall'antico Nomentum.
Tra i padroni successivi di Mentana particolare importanza assume Camillo Orsini che dopo aver tenuto la rocca durante il sacco di Roma del 1527 concesse il primo statuto alla città nel 1552 da lui ingrandita tanto che gli aveva donato un'ospedale. Successivi padroni furono i Peretti ed i Borghese, che si liberarono di ogni dovere feudale cedendo parte delle terre ai contadini ma rimanendo padroni, nel senso capitalistico moderno, della maggior parte del territorio coltivabile.
A parte va citata la battaglia del 3 novembre tra i volontari garibaldini che tentavano di far insorgere Roma ed i Francesi, tutto era già deciso perché i Francesi avevano avuto modo di aggirare le posizioni garibaldine. Dal punto di vista militare non si trattò di uno scontro sanguinosissimo perché Garibaldi decise per tempo di consegnarsi ai Piemontesi a Passo Corese ma il numero delle perdite insica la disparità degli armamenti: tra morti e feriti 370 uomini per i Garibaldini e 68 per i Franco-pontifici.

L'abitato
Il piccolo borgo mantiene ancora le sue caratteristiche medioevali e si appoggia al palazzo degli Orsini ed ancora si possono vedere i resti del castello distrutto nel '400 quando Virgilio Orsini si ribellò al papa. Sull'antico portale si trova lo stemma di Felice Peretti, che fu poi papa col nome di Sisto V, mentre nelle case della piazza sono murati resti marmorei più antichi tra i quali, curiosamente uno nel quale sono incise le lettere che furono incise alla rovescia e si leggono [LAT]INI VRSINI, evidentemente opera di uno scalpellino analfabeta; dubitiamo che siano mai state poste sulla facciata.
Sulla stessa piazza la chiesa di San Nicola, con un bel campanile del Duecento ed un affresco cinquecentesco del santo inserito su di un ovale sopra il portone. Vicino si trova il palazzetto Santucci, dove si trova un busto romano togato sull'arco che immette alla via del Castello, la strada che passava attorno al sitema difensivo e lungo la quale si riconoscono ancora torri e mura. Su questa stessa strada il palazzo dei Crescenzi, le cui origini risalgono al IX secolo.
Gli innumerevoli reperti antichi, anche assai pregevoli, sono distribuiti tra l'Antiquarium comunale e molte collezioni private tra le quali merita menzione quella di Federico Zeri.
Tra i monumenti più recenti è doveroso citare l'Ara ai Caduti del 1867 che ne raccoglie le spoglie e che oggi costituisce il simbolo della cittadina.

Il folklore
Tra settembre ed ottobre si svolge la Sagra dell'Uva ed il 17 gennaio la festa di S. Antonio Abate, quando vengono distribuite le ciammelle a cancellu; a parte bisogna ricordare le commemorazioni, con cortei e rievocazioni storiche, della battaglia di Mentana.

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GUIDONIA MONTECELIO

La storia
La storia di questo comune, formato da due abitati distinti e di pari dignità, è antica quanto il più antico dei due, Montecelio.
Tra i vari feudatari si possono cosò ricordare gli Abati di San Paolo fuori le mura, gli Orsini e i Cesi. In particolar modo, quando appartennero a San Paolo, i loro castelli chiudevano, a Sud, i possedimenti dell'imperiale Abbazia di Farfa.
Appena arrivati al paese ci si trova sulla Via Santa Maria, un tempo la principale strada di accesso all'abitato; prima di passare la porta che dà direttamente sulla piazza principale conviene scendere un momento a vedere la settecentesca facciata della Chiesa di Santa Maria Nuova, che attende quel buon restauro che è stato previsto. Intanto è in corso il consolidamento della Porta Santa Maria ed è stato già provveduto alla ripulitura della facciata della Parrocchiale di San Giovanni, sulla piazza omonima, e dell'ingresso del castello.
La piazza principale è dominata dalla facciata di San Giovanni, la parrocchiale, chiesa della quale il visitatore può avere con precisione notizie dettagliate perché una comoda tabella, all'interno, ne riporta storia e arte con l'aiuto di una pianta dell'edificio in cui si paragona la costruzione medioevale, che risale al mille, all'attuale. Si viene cosò a sapere che dopo il crollo del campanile a causa di un fulmine nel 1667, dopo soli sette anni dalla costruzione, fu deciso di dare l'incarico all'architetto F. Leti di ricostruirla del tutto, visto che ripararla sarebbe costato di più . Nel 1704 il Vescovo di Tivoli la interdisse, parola che non ha sempre nel linguaggio del diritto canonico un significato negativo ma vuol dire semplicemente che la sconsacrò proibendone l'uso per impedire incidenti e nel 1705 iniziarono i lavori. Nel 1707 la costruzione era già voltata e doveva essere solamente rifinita, se si pensa che i lavori comprendettero l'abbattimento della vecchia chiesa, il consolidamento del terreno e la costruzione della nuova, del fatto, ancora, che col cattivo tempo e in inverno allora era ancora più difficile lavorare che oggi... beh, due anni sono pochi, meno di quanto durino spesso dei semplici lavori di manutenzione.
L'inaugurazione fu, però , rimandata sino al 1710 perchÈ il popolo volle che alla "sua" chiesa fossero aggiunti i due campanili. Per capire il perchÈ di questa richiesta ci viene in aiuto un dato storico: proprio a San Giovanni si riunivano i Consigli Generali di Montecelio "in ragione di una persona per foco", praticamente tutti i capifamiglia. Nella stessa chiesa si svolgevano tutte le più importanti cerimonie della vita collettiva; forse nel settecento questi usi si erano già attenuati, ma certo non erano ancora scomparsi anche se la burocrazia dello stato pontificio, che acquistava una nuova e più moderna funzione, aveva certamente esautorato i poteri locali.
Belli, all'interno della chiesa, i quadri accademizzanti dello Stern e più che dignitosi gli affreschi di Cianti da Montecelio, che hanno ricoperto quelli del più famoso Muratori, pittore accademico bolognese vissuto a cavallo tra il '600 e il '700. Il perchÈ di questa operazione non si conosce. " anche interessante notare che nella chiesa sono stati portati due quadri che si trovavano in Santa Maria Nuova, di più che buona fattura, del Cades e che si spera possano presto tornare nel loro ambiente originario.
Dalla piazza della Chiesa si può passare a quella del belvedere, da dove lo sguardo spazia da Tivoli a Marcellina e Palombara e di lò cominciare a salire lungo la costa del monte, verso il castello; è vero che la via più breve sarebbe salire direttamente da Piazza San Giovanni, ma di qua si godono panorami bellissimi e si entra nell'antico borgo dalla porta originaria, anzi, da una porticina aperta di lato e che sembra quasi un ingresso privato ma immete in un vicolo completamente coperto, molto suggestivo. Prima di entrare non si può fare a meno di ammirare a sinistra la strada che costeggia le antiche mura, con numerose torri che, anche se trasformate in abitazioni, non hanno perduto affatto l'antica poderosità . Subito dopo questo vicolo coperto un altro vicolo, intatto dal '200, finisce con una di quelle strettoie che allora separavano un edificio dall'altro e che ancora oggi mantiene in parte l'uso originario, essendo piena di detriti; obiettivamente la pulizia deve essere assai difficoltosa per la natura stessa del luogo mentre il paese, anche questa parte più antica, è pulito e ben tenuto.
Si gira, salendo e scendendo, tra case medioevali costruite sulla roccia viva, chiedendosi spesso se si stia entrando in una casa privata o in una strettissima scalinata pubblica che, a sorpresa, può portare in una piazzetta o su un terrazzo fiorito. In alcuni casi ci sono dei vicoli coperti che salgono a spirale tra, o meglio, sotto le case quando non si trasformano in scalette a chiocciola. Malgrado la faticosità del tessuto urbano, specie per le persone anziane, questa parte del paese è ancora abitata, anzi, non sono pochi i forestieri che ci risiedono, specialmente l'estate. Questa vitalità a prima vista sorprende se si pensa che il centro economico è in pianura, a Guidonia, ma non è poi tanto strana guardando all'amenità del posto, alla sua storia, al fatto, insomma, che Montecelio ha una sua identità ben distinta e vitale; si consideri solo il fatto che i ritrovamenti più antichi sono di un abitato dell'età del ferro e che probabilmente è esatta l'identificazione con l'antica Corniculum, che al tempo di Tarquinio Prisco muoveva guerra, anche se non da sola, a Roma. Qualcuno rimpiange ancora il nome che il paese aveva fino al 1970, Monticelli, che è attestato sino dal duecento e, in fondo, era anche grazioso. L'importanza di Montecelio era tale che il titolo nobiliare annesso era quello di marchese, il più alto, tra quelli dei vassalli, che non implicavasse responsabilità di governo per il detentore; sopra c'erano solo i principati.
Girando tra vicoli stretti e suggestive scalette si possono ritrovare testimonianze molto suggestive, come una graziosa Madonna dipinta da attribuire almeno al XIV secolo e una Madonna tra Santi, sotto un arco, che ha la stessa curiosa impostazione di alcuni quadri del Quattrocento marchigiano da un lato e del più probabile Antoniazzo Romano dall'altro, sempre che non si tratti di qualche imitatore locale più tardo; il dipinto meriterebbe uno studio più approfondito perchÈ la qualità , sotto le ridipinture, pare buona.

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MONTEFLAVIO

Le origini
Uno dei casi in cui si conoscono le origini di un paese, con tanto di documentazione, è Monteflavio. Il nome stesso indica il fondatore, il cardinal Flavio Orsini. Questi, con l'evidente scopo di rendere i propri feudi produttivi, stipulò un contratto con il fratello Virginio e, contestualmente, gli abitanti di Marcetelli perché questi si trasferissero nel nuovo abitato. Flavio Orsini fu fatto cardinale nel 1565, gli atti del consiglio di Monteflavio iniziano nel 1587 quando ormai tutto era stato costruito, ma già nel 1574 era stata inaugurata la chiesa di San Martino, presente la popolazione. Nel XVI secolo i tempi erano ormai cambiati, l'umanesimo dava un diverso valore alla personalità umana e le famiglie feudatarie di questi luoghi, i Savelli, gli Orsini, i Borghese ne furono, a Roma e nel Lazio, i promotori.
Nella zona, a circa un chilometro di distanza, si trovano i ruderi del castello di Montefalco, all'apparenza ristrutturato nel Duecento, che comprendeva al proprio interno un nucleo abitato. Posto in una posizione strategiacamente più forte questo castello era abitato ancora nel 1363, come può essere dedotto dal fatto che pagava regolarmente le imposte, ma nel 1422 era già annoverato tra i luoghi disabitati. La chiesa arcipresbiteriale di Montefalco era la pieve di San martino, a sud-ovest di Monteflavio ed il fatto che la chiesa del paese fosse dedicata allo stesso santo indica che il nuovo abitato ne prese il posto e ne fu considerato la continuazione.
Qualcuno dei primitivi abitanti doveva certamente essere rimasto, se nel documento 1587 i nuovi abitanti avevano il compito di raccogliere i vecchi e di espellere eventuali indesiderabili regolando l'immigrazione che certamente doveva esserci, visti gli sgravi fiscali notevole.
A Taddeo Barberini, nel 1644, fu rivenduto il paese con i relativi diritti, perché, non dimentichiamolo, il feudalesimo negli stati della Chiesa finì solo con l'arrivo di Napoleone e non tutti i paesi ebbero sempre padroni aperti e lungimiranti come furono Flavio Orsini anche se in questo caso particolare la comunità locale godeava di particolari autonomie.

Il Paese
La struttura più antica è costituita da una serie di strade, cinque per l'esattezza, che salgono dalla parte più bassa del paese sino alla piazza, non perfettamente diritte ma adattandosi un poco alla natura del terreno, secondo quelli che erano i canoni urbanistici dell'epoca a Roma; alle spalle della parrocchiale le abitazioni sono più piccole ed ammassate, tanto che la zona si chiama "capanne" e probabilmente corrisponde al primo insediamento che fu fatto di baracche in legno in attesa che si costruissero le case in muratura o in pietra. Un piano urbanistico semplice e razionale, quindi, che non prevedeva fortificazioni di sorta. Le piccole case sono state abitate per secoli senza che ci fossero significative espansioni della popolazione, sempre inferiore ai mille abitanti; oggi sarebbero appena bastanti per una sola persona e chi arriva vede un certo numero di costruzioni nuove o rinnovate oltre il centro storico, dalla parte del monte.
In una piazza chiusa si trova la chiesa parrocchiale di S. Maria Assunta, totalmente ricostruita nel 1961 e che della vecchia chiesa conserva il portale. Il tabernacolo trecentesco proviene da Santa Maria Maggiore in Roma e fu donato da Taddeo Barberini nel 1649. La fontana della piazza è di poco anteriore, del 1626, e reca ancora lo stemma degli antichi padroni, gli Orsini.
Nella parrocchiale si trova un tabernacolo quattrocentesco (ma è solo un'ipotesi) portato da Roma a pezzi e rimontato in loco. La storia del trasporto è documentata anche nei particolari più curiosi ed è estremamente significativa dei modi e delle usanze dell'epoca.
Il paese è meta di villeggiatura estiva sin dall'Ottocento, quando anche gli abitanti di paesi vicini si trasferivano in luoghi più salubri per sfuggire alla malaria.
Caratteristica dei tempi passati era la raccolta estiva della neve che veniva portata a Roma per conservare cibi e confezionare sorbetti; una tradizione antica romana che si era mantenuta nel corso del Medioevo.

Il folklore
La festa del patrono non si svolge nè il giorno dell'Assunta nè in quello di San Martino ma il 16 agosto, San Rocco, quando assieme ai festeggiamenti si tiene anche una fiera.