Nella Pala dell'Altare Maggiore della Chiesa romana di S. Eustachio
è rappresentato il momento in cui per convincere il Santo
e sua moglie ad abiurare i suoi due figli vengono fatti bruciare
all'interno di un grande toro di bronzo. Ricordiamo che Eustachio,
uno dei santi più venerati nell'Alto Medioevo, era un tribuno
romano convertitosi dopo aver inseguito, mentre andava a caccia,
un cervo che aveva una Croce d'Oro tra le corna. Nel Medioevo
Eustachio divenne il prototipo di un nobile cavaliere cristiano
visto che dopo la caduta dell'Impero Romano solo i nobili potevano
combattere, un santo, quindi particolarmente venerato dalla classe
al potere..
Questa grande tela è di Francesco Ferdinandi, detto l'Imperiali,
testimonia la capacità anche di artisti oggi considerati
"secondari" di raggiungere livelli qualitativi buoni
se non eccellenti, come in questo caso.
Quando la chiesa di Sant'Eustachio fu ristrutturata, ormai tre
secoli fa, la pittura italiana ancora faceva scuola nel mondo
e la professionalità, se non l'arte in senso stretto, era
sempre molto elevata.
Il Ferdinandi evidentemente appartiene a quella schiera di pittori
che, senza grandi idee innovatrici, era però in grado di
soddisfare pienamente ogni aspettativa del committente.
La tela, delle stesse dimensioni di quelle del transetto, fu certamente
dipinta in studio e poi collocata in sede.
La Parrocchia di Sant'Eustachio, una delle più antiche
dell'Urbe, certamente a corto di denaro come tutte le parrocchie
romane in ogni epoca e senza grandi ordini religiosi che sostenessero
le spese di restauro, procedette lentamente nell'ordinare i dipinti
indispensabili, allora molto più che oggi, per educare
ed indottrinare i fedeli, con particolare riguardo a quelli, allora
numerosissimi, analfabeti.
L'Imperiali si trovò di fronte a due problemi, misurarsi
artisticamente con gli affreschi manieristi di Federico Zuccari
che sulla facciata del palazzetto antistante la chiesa illustravano
la leggenda di Sant'Eustachio ed evitare che la propria composizione
fosse solamente uno sfondo lontano dietro il ricco altare.
Lo scopo fu ottenuto con uno schema compositivo ampiamente collaudato
sin dai primi anni del Seicento nell'Accademia dei Carracci: qualche
parte di uno dei personaggi in primo piano tocca o sporge dal
piano di affioramento, la superficie teorica che separa lo spazio
immaginario del quadro dallo spazio reale dello spettatore; questo
personaggio ne indica un secondo in qualche modo o ad esso rimanda
e questi a sua volta rinvia sempre più all'interno del
quadro fino al più importante.
Così chi guardava veniva "introdotto" nella scena
e quasi invitato a parteciparvi come spettatore attivo.
In questo secolo ci si è abituati a forme di comunicazione
per immagine sempre più veloci, ma all'epoca in una chiesa
si sostava sempre abbastanza a lungo da poter esaminare un dipinto
con comodo ed acquisirne i significati; ci si possono così
spiegare quei dipinti tanto scuri da richiedere alcuni minuti
per recepirne i particolari.
Nel caso specifico l'autore preferì colori abbastanza chiari
da rendere ben visibile tutta la scena; il luminismo caravaggesco
era passato di moda perché "funzionava" bene
con pochi personaggi, ma era del tutto disadatto a scene a largo
respiro ed affollate.
Sant'Eustachio stesso ci introduce nel quadro, in primo piano,
con il ginocchio sinistro che quasi tocca, come avevamo detto,
il piano di affioramento.
Sul pavimento due striscie di marmo segnano una prima direttrice
prospettica che va da sinistra (di chi guarda) a destra mentre
la scena posteriore, più alta e lontana, è di nuovo
spostata a sinistra, dove campeggia, scuro in controluce, il Toro
di Bronzo nel quale tutta la famiglia è destinata a morire.
Si costruisce, così, una sorta di percorso visivo per lo
sguardo degli spettatori.
Dal Sant'Eustachio in primo piano si passa alla moglie, più
arretrata, che contrasta con la sua veste azzurra quella rossa
del marito; i due colori scelti dal pittore sono quasi complementari,
la loro somma, cioè darebbe il bianco, e la luminosità
del quadro ne è complessivamente accresciuta.
Alla struttura lineare della prospettiva si sovrappone una struttura
di colore, alla veste azzurra della donna in basso a sinistra
corrisponde l'azzurro intenso e luminoso del cielo in alto a destra,
mentre il rosso del vestito del Santo è richiamato dai
bagliori rossi che illuminano i personaggi dietro, in particolare
il carnefice che mette uno dei due figli nel toro di bronzo.
In genere tutta la parte sinistra del quadro è più
scura della parte destra; questo probabilmente corrisponde all'illuminazione
naturale prevalente nella chiesa all'epoca e comunque crea una
sensazione di illuminazione naturale, favorita dalle discrete
dimensioni del dipinto.
Il vuoto compositivo del cielo non viene assolutamente recepito
come tale dallo spettatore (sia consentito l'uso di un termine
teatrale) perché due diagonali parallele formate dalle
braccia della donna e dal braccio destro di Sant'Eustachio portano
proprio a questa parte di Cielo libero, che simboleggia il Paradiso
cui i due sono destinati.
L'angelo che porta la palma del martirio è illuminato dall'alto
da una luce proveniente dalla zona dei Cherubini, ordine angelico
più vicino a Dio, ma la nube dietro di lui è scura,
artificio con cui si suggeriva la presenza di una luce ancora
maggiore senza dover fare colori sempre più chiari ma scialbi;
Tiepolo porterà questa tecnica ai massimi livelli.
I due Cherubini sono quasi avvolti da una luce color fuoco che
suggerisce l'Empireo dantesco e si riflette, tecnicamente, sulle
figure sottostanti.
Anche l'interno del toro, dove già la figlia del Santo
soffre, è scuro, perché non dobbiamo dimenticare
che queste scene erano vissute con intensità dal popolo
che non poteva, però, essere spaventato più del
conveniente.
Per impressionare la gente bastava la scena del bellissimo giovane,
l'altro figlio di Eustachio, che sta per essere bruciato mentre
il padre cerca conforto nel Cielo e la madre volge la testa inorridita;
i due gesti suggeriscono ai fedeli i sentimenti da dover provare
e l'atteggiamento composto da tenere.
La bellezza del corpo del giovane era specchio evidente della
bellezza dell'anima e su questo corpo il pittore evidenzia un
idea di bellezza ideale.
Una breve considerazione va fatta a proposito del baldacchino
sopra l'altar maggiore, di Ferdinando fuga: questo si ispira a
quello del Bernini a San Pietro ma ancora più leggero ed
aereo perché, se si fosse sorretto su colonne, avrebbe
interdetto notevolmente la vista della pala retrostante; segno
ulteriore della grande capacità di rispettare e recuperare
le immagini di questo architetto senza appesantire la vista e
riempire lo spazio oltre al dovuto, capacità di cui la
facciata di Santa Maria Maggiore è l'esempio universalmente
noto.
Umberto Maria Milizia