Questo breve saggio è il risultato
e la sintesi delle ricerche, condotte nell'arco di alcuni anni,
volte a precisare i rapporti tra espressioni d'arte diverse quali
la poesia e la pittura nel Trecento italiano.
I risultati raggiunti rivoluzionano alcuni dei luoghi comuni normalmente
dati come acquisiti dagli studiosi e chiariscono ulteriormente
la posizione particolare che Dante e Giotto ebbero nella "avanguardia"
artistica del loro tempo.
Ad esempio, pochi hanno dato il giusto rilievo al fatto che Dante
sapesse disegnare e che la sua capacità di descrivere mutò
radicalmente dopo che ebbe preso visione del ciclo di Padova;
così come non si è data la giusta importanza al
fatto che egli formuli un primo chiaro concetto di Medioevo proprio
parlando di Giotto.
ARGOMENTI:
Il Problema
La Vita Nova
La Commedìa: l'Inferno, il Purgatorio, il Paradiso
Conclusioni
Il problema dell'interrelazione tra Poesia ed arti figurative,
in particolare tra il XIV ed il XV secolo, è stato recentemente
riproposto all'attenzione degli studiosi.
Mettendo in parallelo pittura e poesia si rende evidente il reciproco
rapporto di sostegno tra le due forme di espressione artistica;
non considerando unicamente una derivazione dell'immagine pittorica
da quella poetica, come vorrebbe la nostra tradizione critica
che, partendo (convenzionalmente) da Vasari, arriva fino a Venturi
ed Argan, ma rendendo possibile e quasi doveroso prendere in considerazione
anche l'ipotesi inversa. Così, naturalmente, anche per
Dante, il cui rapporto con la pittura va reimpostato e approfondito
sulla linea già tracciata per la letteratura tardogotica.
Determinare i rapporti tra Dante e Giotto, come tra le altre personalità
dell'epoca, è importante per poter precisare le condizioni
in cui si formò una nuova mentali-tà i cui sviluppi
portarono alla nascita dell'uomo moderno. La nuova cultura che
da questa mentalità deriva ha sempre maggiore bisogno di
mezzi di comunicazione più precisi ed efficaci e non solo
artisticamente parlando, ma anche riferendosi alla vita economica
e, in generale, sociale che in quegli anni aveva un'accellerazione
espo-nenziale.
Per questo abbiamo segnalato la ristrettezza numerica degli ambienti
intellettuali dell'epoca che porta, come conseguenza, una circolazione
di idee e di esperienze praticamente immediata. Rientrano in quest'ottica
anche la valutazione delle nuove tecniche di notazione musicale
e della nascita di forme di corrispondenza commerciale legate
agli sviluppi di un'economia pre-capitalista e se Dante non era
in grado di valutare appieno i fenomeni economici lo era, però,
per quelli più strettamente culturali, dei quali egli stesso
non tanto partecipava quanto era parte importante.
A nostro giudizio un aspetto poco considerato dalla critica dantesca
è quello relativo alla formazione ed all'educazione artistica
del poeta nei riguardi delle arti figurative: c'è il rischio
di cadere nell'errore di dare per scontati fatti che andrebbero,
invece, riconsiderati e meditati con più attenzione.
Ad esempio si è sempre prestato insufficiente attenzio-ne
al fatto che Dante, come egli stesso dichiara nella Vita Nova,
sapesse disegnare; la cosa viene ritenuta quasi normale, forse
perché nessuna abilità particolare è considerata
straordinaria per il "genio" e la frase di Leonardo
Aretino "di sua mano egregiamente disegnava" è
generalmente accettata senza discussioni; ma perché, come
e quando avesse imparato a farlo quasi nessuno se lo è
domandato. Di scarsissimo aiuto risultano le storie della pedagogia,
che si occupano, prevalentemente, di approfondire le metodologie
didattiche piuttosto che appurare i programmi di studio; eppure
la concezione stessa dell'arte che il poeta svilupperà
in seguito nella Commedìa dipende da questa iniziale impostazione.
Si pensi solamente alla sua potente capacità di creare
immagini e sensazioni nel lettore con paragoni ed evocazioni che
forse ancora oggi sono ineguagliate sotto molti aspetti e, all'epoca,
erano assolutamente eccezionali e innovative.
Notizie utili su come si potesse imparare a disegnare possono
essere trovate nel Libro dell'Arte di Cennino Cennini anche se
fare riferimento al trattato del Cennini può ingannare,
visto che già le tecniche della pittura e del disegno,
alla fine del Trecento, erano più evolute e varie; questi
reputava necessaria una lunga pratica da bambini nel disegnare
su tavolette e che dovessero passare almeno sette anni prima che
si potessero usare i colori. Verrebbe da chiedersi se ci sia stato
un tentativo, nella fanciullezza di Dante, di farne un pittore.
È difficile poterlo stabilire con certezza ma la famiglia
era aristocratica, anche se non ricca, e ci sembra improbabile
che un suo membro potesse essere indirizzato ad un lavoro manuale,
oltre al fatto che manca il più piccolo indizio in tal
senso.
In alcuni casi, tra la fine del XIX e l'inizio del XX seco-lo,
il problema è stato correttamente impostato, anche se non
sviluppato pienamente, ma con un fondo pregiudizia-le dovuto ad
una concezione estetica fondamentalmente romantica e una certa
ignoranza nei confronti della pittura che lo porta ad attribuire
tecniche e metodologie successi-ve ai pittori contemporanei di
Dante, quando ancora nel 1924 si sosteneva che egli non avesse
per le arti figurative la stessa sensibilità che per la
poesia appoggiandosi anche al parere corrente degli storici dell'arte.
Ci sembra eccessivo, ad esempio, vedere in Dante più che
una semplice distinzione tra il disegnare ed il colorire. In quel
tempo il disegno non aveva il valore progettuale che assumerà
in seguito con gli umanisti e non si può con-trapporre
alla pittura; anche se poi le tecniche erano ben distinte, precedendo,
sempre, l'una all'altra. Giusta invece l'osservazione che non
si può far dire al poeta ciò che egli non dice esplicitamente,
meno giusto dedurre una sua conoscenza della tecnica pittorica
solo dalla capacità di definire o descrivere i colori,
cosa che ogni bravo poeta è sempre riuscito a fare senza,
per questo, dover essere pittore.
Poiché le concezioni estetiche ed artistiche di Dante si
svilupparono ed affinarono nel corso della vita del grande poeta
sembra opportuno iniziare ad esaminare le sue opere in ordine
cronologico per cercare di determinare come egli intenda il rapporto
tra poesia e pittura e che valore dia alle arti figurative.
Per motivi di concretezza e di semplicità in un primo momento
è opportuno considerare frasi o versi in cui si citino
esplicitamente il disegno, la pittura la miniatura o la scultura,
cioè le principali arti figurative del Trecento, escludendo
l'oreficeria, i tessuti e le altre forme di decora-zione o artigianato.
È bene precisare subito che sicuramente la maggior parte
delle considerazioni che si faranno nel commentare l'opera dantesca
non furono sempre pienamente coscienti nella mente del poeta;
frasi e immagini si formarono in lui in modo apparentemente spontaneo,
con un procedimento generato da una sempre maggiore padronanza
della lingua, ma è proprio questa spontaneità a
corrispondere, in fondo, ad una convinzione o ad un sentire profonda-mente
radicati dei quali i versi sono specchio.
Rimane da determinare quanto Dante fosse capace di padroneggiare
le arti figurative, sia pure ad un livello di lettura più
che di operatività. Totalmente consapevole fu certamente
Dante dei significati e delle implicazioni di ciò che scriveva,
sia diretti che simbolici o allegorici e anche se doppi o tripli
ed a più livelli.
Come si è già visto il primo brano da prendere in con-siderazione è nella Vita Nova, nel capitolo XXXIV, in un punto abbastanza avanzato del racconto; qui il poeta racconta, e naturalmente mette in versi, un episodio accaduto nel giorno del primo anniversario della morte di Beatrice, il 9 giugno 1291:
In quello giorno nel quale si compiea l'anno che questa donna
era fatta de li cittadini di vita eterna, io mi sedea in parte
ne la quale, ricordandomi di lei, disegnava uno angelo sopra certe
tavolette; e mentre io lo disegnava, volsi li occhi, e vidi lungo
me uomini a li quali si con-venia di fare onore.
E' riguardavano quello che io facea; e secon-do che me fu detto
poi, elli erano stati già alquanto anzi che io me ne accorgesse.
Quando li vidi, mi levai e salutando loro dissi: "Altri era
testè meco, però pensava ".
Onde partiti costoro, ritornaimi a la mia ope-ra, cioè
del disegnare figure d'angeli: e faccen-do ciò, mi venne
uno pensero di dire parole, quasi per annovale, e scrivere a costoro
li quali erano venuti a me; e dissi allora questo sonetto, che
comincia: Era venuta; lo quale ha due co-minciamenti, e però
lo dividerò secondo l'uno e l'altro.
Dico che secondo lo primo questo sonetto ha tre parti: ne la prima
dico che questa donna era già ne la mia memoria; ne la
seconda dico quello che Amore però mi facea; ne la terza
dico de gli effetti d'Amore.
La seconda comincia quivi: Amor, che; la terza quivi: Piangendo
uscivan for.
Questa parte si divide in due: ne l'una dico che tutti li miei
sospiri uscivano parlando; ne la seconda dico che alquanti diceano
certe parole diverse da gli altri.
La seconda comincia quivi: Ma quei. Per questo medesimo modo si
divide secondo l'altro cominciamento, salvo che ne la prima parte
dico quando questa donna era così venuta ne la mia memoria,
e ciò non dico ne l'altro.
Primo cominciamento.
Era venuta ne la mente mia
la gentil donna che per suo valore
fu posta da l'altissimo Signore
nel ciel de l'umiltate, ov'è Maria.
Secondo cominciamento.
Era venuta ne la mente mia
quella donna gentil cui piange Amore,
entro 'n quel punto che lo suo valore
qi trasse a riguardar quel ch'eo facia.
Amor, che ne la mente la sentìa,
s'era svegliato nel destrutto core,
e diceva a' sospiri: " Andate fore ";
per che ciascun dolente si partìa.
Piangendo uscivan for de lo mio petto
con una voce che sovente mena
le lacrime dogliose a li occhi tristi.
Ma quei che n'uscian for con maggior pena,
venian dicendo: "Oi nobile intelletto,
oggi fa l'anno che nel ciel salisti".
(Vita Nova, XXXIV)
Come si vede Dante descrive se stesso mentre disegna degli
angeli e dobbiamo pensare che la citazione di persone "onorevoli"
lo inducesse a non inventarsi l'episo-dio, come, del resto, molti
altri riportati nella Vita Nova; non si tratta, insomma, di una
fantasia o di un sogno dell'artista, come in altri casi.
Egli usa prima un singolare, "un angelo", per indicare
il soggetto del disegnare ma un plurale, "certe tavolette",
per indicare dove disegnasse; successivamente, dopo essersi interrotto
ed essersi scusato con gli astanti, riprende a disegnare dicendo
"angeli", termine in accordo al precedente "tavolette"
nel numero. Si deve quindi dedurre che Dante sia stato interrotto
mentre disegnava uno di più angeli su più tavolette,
ma non possiamo sapere se ne disegnasse più di uno per
ciascuna tavoletta. La questione è certamente secondaria
ma potrebbe indicare, comunque, una minima (almeno) capacità
di Dante di concepire una composizione complessa, capacità
di cui non difetta certo nelle opere poetiche.
Il problema non è attualmente risolvibile, mentre rima-ne
accertato che Dante si cimentasse in una tecnica, quella del disegno,
abbastanza lontana da quell'educazione prettamente letteraria
che normalmente gli si attribuisce. È vero che, come egli
stesso ci racconta, solo dopo l'esperienza dell'amore per Beatrice,
a circa 30 anni, la sua cultura si fece prettamente filosofica
a seguito della lettura di Boezio, ma non conosciamo quasi nulla
di quanto gli fosse stato insegnato in gioventù, a parte
la Retorica. Possiamo, perciò, supporre che si fosse trattato
di qualco-sa di casuale, piuttosto che sistematico e, comunque,
di limitato; anche se, allora, disegnare era un'operazione che
richiedeva certamente una maggiore intenzionalità rispetto
al presente.
Oggi è facile, anche senza pensarci, tracciare qualunque
linea si voglia su di un foglio di carta, servendosi dello stesso
strumento che si usa per scrivere (penna a sfera, stilografica,
matita ecc.), allora ci si doveva procurare delle tavole di legno,
essendo la carta rara e certo non venduta in blocchi legati o
quaderni, per non parlare del costo, ed usare, per tracciare le
linee il carboncino, del gesso colorato o del lapis propriamente
detto (ad es. una pietra rossiccia e friabile). Tutte queste cose
o quasi non erano certamente in vendita e l'interessato doveva
prepararsele da solo. Insomma, disegnare, indipendente-mente dalla
bravura individuale, poteva essere solo un atto determinato e
cosciente, da programmarsi con qualche giorno di anticipo. Questo
spiega perché alcuni si fossero fermati ad osservarlo;
del resto non doveva essere frequente vedere qualcuno dedito al
disegno in un epoca in cui tale attività era svolta dai
pittori nelle loro botteghe, non avendo questi alcun interesse
alla "copia" della natura e men che meno alla pittura
en pein air.
Ammaestrato o autodidatta che fosse, ad ogni modo Dante aveva
almeno imparato a disegnare; noi propen-diamo a credere che qualcuno
abbia pur dovuto dargli delle lezioni, dato che disegnare, come
abbiamo visto, non poteva essere un fatto intuitivo se non altro
nella gestione dei materiali utilizzati, e Dante, se così
fosse, avrebbe il merito, fra tanti, di aver voluto estendere
le possibilità espressive del proprio spirito molto oltre
quanto avesse fatto qualunque altro letterato del suo tempo. Nel
secondo comiciamento del sonetto si dice che il valore di quello
che Dante faceva, il dipingere angeli, dipende direttamente dall'ispirazione
che il ricordo di Beatrice suscitava in lui; ricordo, naturalmente,
di alto valore come si conveniva all'oggetto ricordato. Alla fine
del sonetto, poi, è indicato altrettanto chiaramente che
non era un ricordo generico, ma quello dell'ascesa al cielo dell'anima
di Beatrice.
A questo punto non è quasi il caso di soffermarsi trop-po
su quale fosse il motivo del dipingere angeli essendo evidente:
infatti la concezione stessa della donna-angelo del Dolce Stil
Novo giustifica il fatto che Dante senta il bisogno di disegnare
angeli pensando a Beatrice.
Nella stessa Vita Nova, al capitolo XXIII, già è
rappre-sentata una scena cui ci si può rapportare per cercare
di avere un'idea più chiara del pensiero dantesco; ci riferia-mo
alla visione avuta da Dante durante una grave malattia:
Così cominciando ad errare la mia fantasia venni a quello
ch'io non sapea ove io mi fosse; e vedere mi parea donne andare
scapigliate piangendo per via, maravigliosamente triste; e pareami
vedere lo sole oscurare sì che le stelle si mostravano
di colore ch'elle mi faceano giudicare che piangessero: e pareami
che li uccelli volando per l'aria cadessero morti, e che fossero
grandissimi tremuoti.
E maravigliandomi in cotale fantasia, e pa-ventando assai, imaginai
alcuno amico che mi venisse a dire: " Or non sai? la tua
mirabile donna è partita di questo secolo ". Allora
co-minciai a piangere molto pietosamente; e non solamente piangea
ne la imaginazione, ma piangea con li occhi, bagnandoli di vere
lacrime.
Io imaginava di guardare verso lo cielo, e pareami vedere moltitudine
d'angeli li quali tornassero in suso, ed aveano dinanzi da loro
una nebuletta bianchissima. A me parea che questi angeli cantassero
gloriosamente, e le pa-role del loro canto mi parea udire che
fossero queste: Osanna in excelsis, e altro non mi parea udire.
Allora mi parea che lo cuore, ove era tanto amore, mi dicesse:
"Vero è che morta giace la nostra donna".
(5-8).
Gli stessi concetti sono ripetuti nella canzone che segue, nella seconda parte:
Poi mi parve vedere a poco a poco
turbar lo sole e apparir la stella,
e pianger elli ed ella;
cader li augelli volando per l'are,
e la terra tremare;
ed omo apparve scolorito e fioco,
dicendomi: - Che fai? non sai novella?
Morta è la donna tua, ch'era sì bella ?.
Levava li occhi miei bagnati in pianti,
e vedea, che parean pioggia di manna,
li angeli che tornavan suso in cielo,
e una nuvoletta avean davanti,
dopo la qual gridavan tutti: Osanna;
e s'altro avesser detto, a voi dire'lo.
Allor diceva Amor: - Più nol ti celo;
vieni a veder nostra donna che giace ?.
(vv. 49-64).
Come si può vedere i due racconti coincidono quasi in
tutto tranne che per il paragone biblico, aggiunto in una parentetica
nella canzone, tra gli angeli e la pioggia di manna che serve
a dare l'idea del gran numero di essi; non azzardiamo alcuna ipotesi
precisa su come il poeta vedesse nella propria mente la manna
che cade dal cielo dato che manca qualsiasi ulteriore riferimento.
Non sembra troppo azzardato credere che il poeta immaginas-se
gli angeli che disegnava proprio in questi termini.
Se è così, è anche possibile pensare che
questi angeli fossero disegnati fitti, appunto, come una pioggia
di manna; anzi, potremmo, forse, andare oltre pensando ad un tentativo
di rappresentare l'intera scena, ma sempre tenendo ben presente
che nulla ci autorizza ad affermare alcunché. La visione
è preceduta da manifestazioni che ricordano il motivo della
sospensione della vita cosmica, comune nei racconti religiosi
orientali e che Dante ha certamente appreso dalla lettura dei
vangeli apocrifi, allora assai diffusi a Firenze e in Italia e
tollerati anche dalla Chiesa ufficiale.
Un paragone iconografico più diretto può essere
fatto con il racconto della morte di San Francesco, ripetuto in
forma pressoché identica in tutte le vite di questi a partire
dalla Vita Prima di Tommaso da Celano del 1228/29, sino alla Legenda
Maior di San Bonaventura da Bagnoregio del 1263 che, nelle intenzioni
dell'autore, doveva sostituire tutte le precedenti e che fu quella
eventualmente conosciuta da Dante, le altre, infatti, erano più
difficilmen-te reperibili e non ufficialmente riconosciute dall'ordine
francescano. Anche se non sappiamo quanto Dante ne avesse letto
in quest'epoca il raffronto è importante perché
Giotto, alcuni anni dopo, ad Assisi, dipinse in questi termini
la morte del santo. Certamente Dante conobbe bene sia la spiritualità
di San Francesco che quella di San Bonaventura ed è probabile
che tra le sue letture ci sia stata almeno la Legenda Maior; del
resto già in giovane età aveva forse frequentato
le scuole per fanciulli che i Francescani tenevano in Santa Croce.
Si chiude così un cerchio e la relazione San Francesco
- Dante - Giotto si definisce del tutto.
Una notazione ancora va fatta riguardo la pratica del disegno;
è proprio in Giotto, infatti, che il disegno da semplice
tecnica pittorica comincia ad acquisire quella funzione nel definire
e descrivere la realtà che ne permetterà lo sviluppo
e l'uso in senso prospettico. Non è certamente possibile
che Dante potesse disegnare in quel senso, e per di più
prima che Giotto avesse iniziato il ciclo di Assisi, ma è
certo che, successivamente, la capacità descrittiva del
poeta nei confronti della natura abbia raggiunto livelli pari
a quella del pittore, naturalmente nei rispettivi campi artistici,
e chissà se quell'influenza che viene supposta, non a torto,
da parte della Commedìa sul ciclo di Padova non possa,
in parte, essere ribaltata. Per fare questo dovremmo supporre,
oltre la certezza di un Dante disegnatore, una conoscenza giovanile
con Giotto, fatto che obiettivamente, nella dimensione della Firenze
di allora, può essere considerato probabile.
Certa, invece, è la conoscenza e la stima tra i due in
età matura, visto che in quella che oggi sarebbe una cittadina,
quanti si vuole che fossero, in fine, le persone di cultura superiore
e gli intellettuali? Poche decine, forse qualche centinaio tra
tutti i campi del sapere, certo non migliaia; insomma, siamo convinti
che si conoscessero tutti tra di loro, distinguendosi bene dalla
massa degli ignoranti e dei "non gentili". Quanto fosse
intellettualmente esigente Dante è talmente evidente in
tutta la sua opera da non bisognare né di dimostrazioni
né di citazioni particolari.
Introduciamo così l'analisi del celebre passo dell'undi-cesimo
canto del Purgatorio, in cui Dante parla di Giotto avendo per
certo che, almeno come disegnatore, egli avesse una buona capacità
di giudizio delle arti pittoriche e che entrambi abbiano attinto
ad una stessa fonte di spiritualità francescana. Conviene,
ad ogni buon punto, prima di proseguire, esaminare per ordine
tutti i passi precedenti e seguenti della Commedìa per
avere un quadro il più completo possibile e per poter verificare
se vi furono evoluzioni e modificazioni nel corso della genesi
del poema.
Il primo uso di termini inerenti la pittura è già
nel quarto canto dell'Inferno:
"Or discendiàn qua giù nel cieco mondo",
- cominciò il poeta tutto smorto ?:
"Io sarò il primo, e tu sarai secondo".
E io, che del color mi fui accorto,
dissi: "Come verrò, se tu paventi,
che suoli al mio dubbiar esser conforto?".
Ed elli a me: "L'angoscia delle genti
che son qua giù nel viso mi dipigne
quella pietà che tu per tema senti.
Andian, ché la via lunga ne sospigne!".
(Inf. IV 13-22)
Si tratta di un paio di terzine in cui al termine colore viene
abbinato quello dipingere. Il colore del viso rende evidente il
sentimento di Virgilio generato dalla pietà, che qui è
personificata come altrove gli altri sentimenti, primo l'amore.
Anche se il paragone è assai comune ed evidente da se,
si può notare che alla pittura viene attribuita una capacità
comunicativa immediata e superiore. Questa naturalmente non è
una convinzione particolare di Dante e all'epoca la pittura era
il mezzo più diffuso per insegnare e diffondere tra il
popolo la cultura, particolarmente, anzi, quasi esclusivamente
quella religiosa.
Più oltre, nel canto XVII, anche se non ci si riferisce
esplicitamente alla pittura, si fa un paragone in cui il comporre
i colori tra di loro è un'operazione che richiede particolari
abilità:
La faccia sua era faccia d'uom giusto
- tanto benigna avea di fuor la pelle ?
e d'un serpente tutto l'altro fusto;
due branche avea pilose insin l'ascelle;
lo dosso e 'l petto e amendue le coste
dipinti avea di nodi e di rotelle.
Com più color', sommesse e sopraposte
non fêr mai drappi Tartari né Turchi,
né fuôr tai tele per Aràn imposte.
(Inf. XVII 10-18)
L'arte del tessuto, da questo punto di vista, è assimila-bile
alla pittura. Il termine drappo indica sempre una stoffa preziosa,
sia destinata ad addobbi che a vestiti, nel primo caso, ancor
più che nel secondo, l'effetto visivo è assai vicino
a quello di un dipinto. Il poeta conferma, in questi versi, quanto
già intuibile dal brano precedente, di essere capace, cioé,
di valutare e distinguere bene i colori e di attribuire loro una
notevole efficacia rappresentativa, sia nel tragico che nel comico
o nel ridicolo.
Eguale abilità nel trattare poeticamente il colore mostrerà
Dante in Inf. XVII, 63 e segg. in cui descrive gli stemmi degli
Albizzi e degli Obriachi e nell'ultimo canto dell'Inferno in cui
descrive Lucifero e le sue tre facce policrome senza, tuttavia,
fare riferimenti particolari né alla pittura né
ad alcuna arte figurativa.
Anche nella cantica successiva il poeta descrive abil-mente
i colori senza per questo fare espliciti riferimenti alla pittura.
Così anche in Purg. II 7-15, in cui descrive l'Aurora e
Marte al mattino. É proprio in questa seconda cantica che
la capacità del poeta di descrivere colori si sviluppa
assai più distesamente e con maggiori raffinatezze. Contemporaneamente
questi colori sono esplicitamente definiti come pittorici anche
nel richiamare i materiali in uso nell'arte.
Nella descrizione della valletta dei principi, al canto VII, il
riferimento alla tavolozza di un pittore è quasi esplicito:
Oro e argento fine, cocco e biacca,
indaco, legno lucido, sereno,
fresco smeraldo, i ll'ora che si fiacca,
da l'erba e da li fior' dentr'a quel seno
posti, ciascun saria di color vinto
come dal suo maggior è vinto il meno.
Non avea pur natura ivi dipinto,
ma di soavità di mille odori
vi facea uno, incognito e 'ndistinto.
(Purg. VII 73-81)
La tematica di questi versi avrà poi particolare fortuna
nella letteratura goticheggiante e fiorita (appunto) successiva.
Vale la pena di esaminare i colori citati rilevando subito che
due di essi, cocco e biacca, non sono propri tanto di materiali
quanto veri e propri mordenti in uso tra i pittori, come l'indaco
è una tintura per stoffe, fatto che conferma la conoscenza
che aveva Dante delle tecniche e dei materiali in uso nelle botteghe
dei pittori.
Una difficoltà, in genere, è data dalla lettura
del verso 74 dove, spostando o eliminando le virgole, si hanno
una serie di significati differenti secondo le diverse possibilità
di combinazione che vengono fuori leggendo indico (delle indie)
al posto di indaco e intendendo legno come ligno, nel senso di
"lignite". Questa seconda ipotesi di lettura, per la
verità, è ingiustamente assai poco seguita, anche
se antica, visto che si tratta di un termine assai raro nel linguaggio
corrente. Anche tra indico e indaco sembra più attestato
indaco, cioé il colore il cui nome, comunque, viene sempre
dalla parola India.
I colori possibili sono, di fatto, limitati: indico o indaco legno
per indicare l'ebano e poi l'azzurro del cielo o, invertendo i
termini, l'azzurro dell'indaco e quello di un legno lucido e chiaro;
sempre che, eliminando del tutto le virgole, non si tratti di
un solo colore riferito ad un legno esotico o ad una pietra preziosa.
Sinceramente, ci sembra che fiori color legno siano un po' troppo
poco poetici, oltre a non essersi mai visti.
Noi, nell'impossibilità di rifarci ad una lettura esatta,
qualunque sia il testo da adottare, se indaco o indico e legno
nel senso proprio o in quello di "lignite" prescelto
dal Lanza, notiamo solo che le prime due coppie di colori sono
bene identificabili, l'oro e l'argento, due metalli lucenti ma
l'uno caldo e l'altro freddo e il cocco e la biacca, un bianco
e un rosso assai puri e forti ed entrambi utiliz-zati come coloranti
per pitture a tempera. Mancherebbe, perciò, una terza coppia,
che è formabile solo se il v. 74 viene riferito ad un unico
colore appartenente ad una pietra preziosa scura, come il seguente
colore dello smeraldo, contrapposto, è chiaro. Si avrebbero,
così, una coppia di colori lucidi, una di colori opaci
e una di colori translucidi, tutte le possibilità qualitative
offerte dalla materia colorata. Tuttavia, se nel v. 74 si leggono
due colori, quali che siano, il totale dei colori sarebbe sette,
numero certamente più adatto a rappresentare la comple-tezza
cui giungeva la varietà e la quantità di colori
presenti nella valletta.
Probabilmente la lettura migliore è proprio quella che
identifica le tre coppie di colori, che danno la completezza della
varietà nella natura nelle sue possibilità con in
più l'azzurro, che, come colore del cielo e del Paradiso
è a se stante e, al tempo stesso, comprende tutto il creato.
Si badi bene che il maestro pittore, in questo caso, è
la natura che aveva anche riempito l'ambiente di odori soavi.
Il tema della natura personificata come artista del creato assieme
a quello di Dio come maestro della natura viene ripreso e sviluppato
al primo cerchio, al canto VII:
Là sù non eran mossi i pié nostri anco
quand'io conobbi quella ripa intorno,
che dritto di salita aveva manco,
esser di marmo candido, e addorno
d'intaglio sì, che non pur Policleto,
ma la natura lì avrebbe scorno.
L'angel che venne in terra col decreto
de la molt'anni lacrimata pace
ch'aperse il ciel del suo lungo divieto,
dinanzi a noi pareva, sì verace
quivi intagliato, in un atto soave,
ch'e' non sembiava imagine che tace.
Giurato si saria ch'el dicesse "Ave!",
perché iv'era imaginata quella
ch'ad aprir l'alto Amor volse la chiave;
e avea in atto impressa esta favella
"Ecce ancilla Dei", propriamente
come figura in cera si suggella.
"Non tener pur a un loco la mente"
disse 'l dolce maestro, che m'avea
da quella parte onde 'l cuore ha la gente.
Per ch'i' mi mossi col viso, e vedea
di retro da Maria, da quella costa
onde m'era colui che mi movea,
un'altra storia nella roccia imposta;
per ch'io varcai Virgilio e fêmmi presso,
acciò che fosse a li occhi miei disposta.
Era intagliato lì nel marmo stesso
lo carro e ' buoi, traendo l'arca santa
per che si teme offizio non commesso.
Dinanzi parea gente; e tutta quanta,
partita in sette cori, a' due mie sensi
faceva dir l'un "No", l'altro "Sì, canta".
Similemente, al fummo de l'incensi
che v'era imaginato, li occhi e 'l naso
a al sì e al no discordi fensi.
Lì precedeva al benedetto vaso,
trescando alzato, l'umile salmista,
e più e men che re era 'n quel caso.
Di contra, effigïata ad una vista
d'un gran palazzo, Micòl ammirava
sì come donna dispettosa e trista.
I' mossi i pié del loco dov'ïo stava
per avvisar di presso un'altra istoria,
che di dietro a Micòl mi biancheggiava.
Quiv'era storïata l'alta gloria
del roman principato, il cui valore
mosse Gregorio a la sua gran vittoria
- e' dico di Traiano imperadore ?;
e una vedovella li era al freno,
di lagrime atteggiata a di dolore.
Intorno a lui era calcato e pieno
di cavalieri, e l'aguglie ne l'oro
sovr'essi in vista al vento si movièno.
La miserella, tra tutti costoro,
parea dir: "Segnor, fammi vendetta
di mio figliuol ch'è morto: ond'io m'accoro";
ed elli a llei rispondere: "Or aspetta
tanto ch'i' torni"; e quella: "Signor mio
- come persona in cui dolor s'afretta ?
se tu non torni?"; ed ei: "Chi fia dov'io
la ti farà"; e quella: "L'altrui bene
a te che fia, se 'l tuo metti in oblio?":
ond'elli: "Or ti conforta; ch'e' conviene
ch'i' solva il mi' dovere anzi ch'i' mova:
giustizia vole e pietà mi ritene".
Colui che mai non vide cosa nova
produsse questo visibil parlare,
novello a noi perché qui non si trova.
Mentr'io mi dilettava di guardare
l'imagini di tante umilitadi,
e per lo fabro loro a veder care,
"Ecco di qua, ma fanno i passi radi
- mormorava 'l poeta -, molte genti:
questi ne 'nvïeranno a li alti gradi".
(Purg. X 28-102)
Le sculture descritte dal poeta sulla costa del monte sono
di marmo bianco, come erano le migliori opere toscane del suo
tempo (e anche dopo) in marmo di Carrara e come erano arrivate
la maggior parte di quelle antiche che, anche nel caso fossero
state colorate, dopo tanti secoli sarebbero state completamente
slavate; sculture pure, se così si può dire, che
non cercano alcun effetto pittorico aggiuntivo. Questo marmo è
adorno, ornato, quindi, oltre che intagliato, arricchito da fregi
e cornici che, in qualche modo, completano le scene rappre-sentate
almeno da un punto di vista estetico; anche in questo caso è
facile fare riferimento alla ricchezza di una cornice gotica di
quei tempi.
In questo canto viene nominato per la prima volta un artista,
Policleto, per paragonare i bassorilievi scolpiti sulla costa
del monte all'arte umana da una parte e alla natura dall'altra.
Policleto è un artista che appartiene all'antichità
come Virgilio, la guida di Dante, e, evidentemente, rappresenta
un modello ideale, il massimo livello raggiungibile dall'uomo;
anche se Dante non poteva assolutamente conoscerne le opere la
fama del grande greco gli era certamente arrivata dalla lettura
delle citazioni che ne fanno molti autori latini.
La natura è personificata come in Purg. VII, 79 e viene
considerata, evidentemente, coma maestra inarrivabile dall'uomo
anche se, a sua volta, inferiore al proprio Creatore. L'annunciazione,
il trasporto dell'arca santa, l'incontro di Traiano e la vedova
sono tutti raccontati non solo come verosimili ma, per quanto
riguarda la capacità di comunicare e di impressionare chi
guardi, più veri della stessa natura; tanto che alla fine
viene riportato, per esteso, tutto il dialogo tra Traiano e la
vedova, traendo le parole dalle immagini. Un Dio visto come sommo
artista oltre che come sommo giudice è un pensiero che
qui oltrepassa la retorica e ci sembra che nessuno, prima di Dante,
lo abbia sviluppato tanto. Nel concetto è già adombrata
qualcosa del Dio neoplatonico ed umanistico come riferimento del
bello ideale; si badi bene, adombrata com e conseguenza futura,
ché Dante ancora è del tutto legato al concetto
di una divinità trascendente e creatrice, operante "da
fuori" in quanto tale. Le opere divine sono create ex nihilo
e non emanate da un'idea prima né c'è assolutamente
il concetto esplicito che il bello sia più presente nelle
cose più vicine o simili alla divinità, come l'uomo,
e meno in quelle inerti. La precisazione va fatta perché
l'assoluta verità delle sculture del canto X del Purgatorio
è tale in quanto il loro autore è la verità
stessa ed è tanto più vicino a se stesso quanto
vuole. Non cè la possibilità che le cose portino
in se stesse il vero o il bello se non nella misura in cui ne
sono formate, per cui l'uomo fa quello che può nella sua
limitatezza, Dio quello che vuole.
É interessante anche la personificazione della Natura come
artista, inferiore, naturalmente, al suo creatore ma tanto perfetta
da essere sempre superiore all'uomo. Viene ripreso il concetto
aristotelico di arte come mimesi della natura che, fondendosi
con quello di una Natura personi-ficata ed artista essa stessa,
porta ad una concezione dell'agire artistico elevatissima, tale
da porre gli stessi artisti a fianco, anche se mai alla pari,
della Natura e di Dio.
Maggiore elogio alla propria opera il poeta non poteva farlo;
ci sembra che non si possa avere una concezione più elevata
dell'arte di questa, dove l'artista ripete, anche se imperfettamente,
non solo l'opera della Natura ma quella stessa di Dio, visto come
artista supremo. Come nel caso di questi bassorilievi divini l'opera
dell'artista imprime nelle figure e nei loro atti il senso stesso
dell'azione "come figura in cera si suggella", tanto
da far immaginare perfettamente anche le parole connesse all'atto.
Anzi, nella rappresentazione del trasporto dell'Arca Santa (vv.
58-63) il poeta arriva a sostenere perfino che anche l'olfatto
si sentiva ingannato, oltre la vista!
Già nel canto VII, descrivendo la valletta dei principi,
Dante fa riferimento alla "soavità di mille odori"
e all'effetto "indistinto" che faceva la loro fusione,
portando, perciò, l'effetto della sensazione senza poterla
dare esattamente; è interessante notare che venga anche
solo posto il problema di comunicare delle sensazioni olfattive.
É vero che l'autore, in questo caso, è Dio, ma è
anche vero che Dante attribuisce, evidentemente, all'arte una
capacità comunicativa tale da eguagliare la realtà,
almeno nell'a-nimo umano. Si è, quindi, oltre il concetto
di mimesi della natura in questo caso. Il realismo delle figure
è tale da superare le immagini imitate o riferite e l'abilità
dell'arti-sta riesce a far arrivare al fruitore anche il senso
delle azioni e dei sentimenti, tanto che questi riesce a "sentire"
anche i suoni ed i dialoghi. Tutti e cinque i sensi sono oggetto
dell'arte e ne possono essere interessati; una concezione di completezza
unica o quasi.
A questo punto, prima di esaminare il brano seguente che, come
ipotesi, era stato considerato centrale per poter valutare correttamente
le concezioni artistiche di Dante, è opportuno fare un
breve quadro cronologico: Giotto compose i suoi affreschi nella
Cappella degli Scrovegni, a Padova, tra il 1304 e il 1306; non
sono possibili molte oscillazioni attorno a questi anni visto
che prima del 1300 fu chiamato a Roma da Bonifacio VIII e la sua
presenza è quasi sicura a Rimini nei primi anni del nuovo
secolo.
Mentre Giotto era a Rimini Dante subiva il processo e la condanna
che lo spinse all'esilio. Tra il 1303 e il 1304 Dante fu da Bartolomeo
della Scala a Verona, poi a Treviso fino all'estate del 1306 ed
a Padova proprio, quindi, quando vi si trovava anche Giotto per
lavorare alla Cappella degli Scrovegni. In questo periodo Dante
aveva da poco finito l'Inferno ed aveva redatto una prima versione
del Purga-torio. Il Purgatorio fu finito nel triennio in cui Arrigo
VII si trovava in Italia, dal 1310 al 1313 e divulgato subito.
Quando Dante compone il canto XI del Purgatorio, perciò,
non solo ha avuto modo di vedere gli affreschi di Padova di Giotto
ma lo ha anche, con molta probabilità, incontrato. Il brano
sarebbe, quindi, una conseguenza diretta del suo soggiorno nella
città, cosa che sembra logica, visto che tutta la Commedìa
è piena di riferimenti a luoghi o persone visti direttamente.
Abbiamo già considerato precedentemente come, nella piccola
(per noi) Firenze di allora era difficile che chi avesse una qualche
notorietà non fosse conosciuto. Se vi era stata amicizia
e stima tra i due è probabile che a Padova si sia rafforzata;
la stima certamente, anche senza che vi sia stato un incontro
diretto. Noi propendiamo, tuttavia, per questa ultima ipotesi
e supponiamo un rapporto di amicizia; in fondo i personaggi citati
prima e dopo Giotto, cioé Oderisi da Gubbio e Guido Cavalcanti
sono entrambi anch'essi amici del poeta.
Leggiamo il celeberrimo passo del canto XI:
Ascoltand'io, chinai in giù la faccia;
e un di lor, non questi che parlava,
si torse sotto il peso che li 'mpaccia,
e videmi, e conobbemi, e chiamava
tenendo li occhi con fatica fisi
a me, che tutto chin con loro andava.
"Oh! - diss'io lui - "non se' tu Oderisi,
l'onor d'Agobbio e l'onor di quell'arte
ch'alluminar chiamata è in Parisi?"
"Frate - diss'elli - , più ridon le carte
che penneleggia Franco Bolognese;
l'onore è tutto or suo, e mio in parte.
Ben non sare' io stato sì cortese
mentre ch'i' vissi, per lo gran disio
de l'eccellenzia, ove mi' core intese.
Di tal superbia qui si paga il fio;
e ancor non sarei qui, se non fosse
che, possendo peccar, mi volsi a Dio.
Oh vana gloria de l'umane posse!
com poco verde in su la cima dura,
se non è giunta da l'etadi grosse!
Credette Cimabue nella pittura
tener lo campo, e or ha Giotto il grido,
sì che la fama di colui è scura.
Così ha tolto l'uno a l'altro Guido
la gloria della lingua; e forse è nato
chi l'uno e l'altro caccerà dal nido.
Non è il mondan romore altro ch'un fiato
di vento, ch'or vien quinci e or vien quindi,
e muta nome perché muta lato.
Che boce avrai tu più, se vecchia scindi
da te la carne, che se fossi morto
anzi che tu lasciassi il pappo e 'l dindi,
pria che passin mill'anni? ch'è più corto
spazio a l'etterno, ch'un mover di ciglia
al cerchio che più tardi in cielo è torto".
(Purg. XI 73-108).
Come si vede, è nel proprio ambiente di intellettuali
d'avanguardia che Dante indica i migliori e trova, senza falsa
modestia, una posizione anche per se stesso, oltretut-to nel momento
in cui credeva di poter tornare a Firenze con piena soddisfazione
per rivalersi sui suoi antichi nemici. L'interlocutore di Dante,
Oderisi da Gubbio, è un miniatore, un'arte considerata
generalmente assai vicina alla pittura ma anche indispensabile
per integrare adegua-tamente gli scritti ampliando, con l'immagine,
le possibilità interpretative e comunicative dei testi.
Dante non manca di utilizzare il termine francesizzante alluminare
(enluminer), dare luce, e che in Italiano si può tradurre
adeguatamente con l'analogo illustrare e che ha anche il significato
di colorire. Più sotto il termine usato per indicare il
declino della fama di Cimabue è "scura", un vocabolo
che in pittura indica la mancanza di luce e, metaforicamente,
proprio la mancanza di fama. Dare luce è proprio la caratteristica
principale dell'arte del pittore, specie se si guarda alla rapida
evoluzione che Giotto in questi anni dà all'uso della luce
e del chiaroscuro per dare consistenza spaziale e tridimensionalità
ai suoi quadri e alle sue figure. È naturale, perciò,
che Oderisi citi, come esempi di artisti di quelle due arti che
egli stesso aveva mediato nella sua opera, due pittori e due verseggiatori.
In entrambe queste coppie viene esemplificato come l'uno sia succeduto
nella fama generale all'altro, come egli stesso è stato
superato da Franco Bolognese, le cui carte "ridono"
di più. Col termine "ridono" Dante dà
perfetta-mente l'idea dell'effetto che una bella miniatura doveva
avere nel lettore, non di un libro qualsiasi, ma di qualcosa di
dilettevole, come un libro d'amore; e poeti d'amore sono, guarda
caso, proprio Guido Guinizelli e Guido Cavalcanti più sotto
citati, come, del resto, lo stesso Dante. Questi erano, in un
certo senso, tra loro legati e l'uno aveva "appreso"
dall'altro il dolce stil novo. Più oltre Dante, colloquiando
con Bonagiunta a Lucca chiarisce la propria posizione e Bonagiunta
riconosce che egli è realmente capace di seguire il dettato
di Amore, col suo "dolce stil novo" meglio di quanto
seppero fare lui stesso, Iacopo da Lentini e Guittone d'Arezzo:
Ma dì' s'i' veggio qui colui che fòre
trasse le nove rime, cominciando
"Donne ch'avete intelletto d'amore".
E io a lui: "I' mi sono un che, quando
Amor mi spira, noto, e a quel modo
ch'e' ditta dentro vo significando".
"O frate, issa vegg'io - diss'eï - 'l nodo
che 'l Notaro e Guittone e me ritenne
di qua dal dolce stil novo ch'i' odo!
Io veggio ben come le vostre penne
di retro al dittator se n' vanno strette,
che de le nostre certo non avenne;
e qual più a riguardar oltre si mette
non vede più da l'uno a l'altro stilo";
e, quasi contentato, si tacette.
(Purg. XXIV, 48-60)
Si deve solo evidenziare che Dante, nel fare professione di
modestia, afferma di non fare altro che seguire quello che gli
detta Amore, contemporaneamente, evidenzia la naturalezza di sentimento
e stilistica del nuovo stile. Questa interpretazione delle parole
di Dante è confermata dalla frase successiva di Bonagiunta
che rileva come la penna di questi segua il dettato di Amore.
Il termine usato è plurale, "penne", ed evidentemente
allarga il numero dei poeti nuovi agli amici di Dante, contrapposti
a quelli di Bonagiunta, creando tra i due gruppi un vero e proprio
contrasto generazionale.
Questi versi rafforzano anche la tesi di chi, come chi scrive,
vede in "chi forse è nato chi l'uno e l'altro caccierà
dal nido" lo stesso Dante; infatti questi è presentato
(in realtà si presenta) come colui che realmente ha innovato
la poesia traendo nuove rime dopo, evidentemente, i due Guidi,
ma anche se si volesse lasciare nell'indeterminatezza questo nuovo
poeta, perché sembrerebbe strano che Dante si esalti proprio
nel girone dei superbi dove doveva fare professione di umiltà,
ne risulterebbe sempre rafforzato il concetto fondamentale: un
susseguirsi nella fama degli uomini non dovuto solo al tempo ma
ad un reale progresso nelle arti nel senso moderno del termine,
per non confonderci con le Arti Liberali del Trivio e del Quadrivio.
Così erano anche i due pittori, Cimabue e Giotto, che,
anche senza altre notizie precise, furono certamente l'uno allievo
dell'altro, né da altri che Cimabue Giotto avrebbe potuto
derivare il suo fortissimo sentimento umano. La sudditanza dell'allievo
nei confronti del maestro non lo limita più che tanto una
volta resosi indipendente nell'arte. Dante teorizza questo succedersi
inevitabile nella fama degli uomini, rievocando l'immagine classica
che mille anni, rispetto l'eternità, sono come un battito
di ciglia; ma in un punto questa catena sembra fermarsi: infatti
la gloria umana dura poco "se non è giunta da l'etadi
grosse"!
È evidente che egli consideri il periodo che va dagli
antichi, ad esempio Virgilio stesso che gli è di guida,
ai moderni un'età grossolana in cui, non essendosi prodotto
nulla di artisticamente valido, si è mantenuta la fama
di chi aveva operato precedentemente. L'età nuova, perciò,
non è più "grossa" ma "gentile"
e ha avuto inizio proprio con gli artisti qui menzionati di cui,
ciascuno nel proprio campo, Dante e Giotto sono i più grandi
e i più famosi, anche se a Giotto viene riconosciuta una
maggiore fama, cosa peraltro corrispondente alla verità
storica, visto che Dante ancora non aveva pubblicato, nel momento
in cui scrive, neppure tutto l'Inferno.
Il primo affermarsi di una concezione teorica di un evo di mezzo
e di una nuova epoca più gentile, ricollegata direttamente
all'antichità, è proprio in questi versi. Pittura
e poesia sono i pilastri della nuova civiltà.
Non solo, ma ognuno dei nuovi artisti riprende, perfeziona e supera
il suo maestro, con un ciclo che implica, potente, l'idea di progresso;
ne abbiamo anche la motivazione psicologica, la molla che muove
a nuovi traguardi: "lo gran disio de l'eccellenza".
Molla tutta umana, come vorranno i nuovi tempi. Il tempo stesso
cancellerà la fama acquistata non solo per il naturale
attenuarsi del ricordo nella memoria degli uomini, ma soprattutto
perché il concetto di un miglioramento progressivo dell'arte
sposta continuamente i termini di riferimento e di confronto nelle
scale di valori già acquisite. Bisogna anche tenere presente
che il progresso in questione non è presentato né
assoluto né, soprattutto, necessario e continuo, ma può
anche fermarsi, regredire o, semplicemente, essere assente. Non
si sarà dimenticati solo perché passerà il
tempo ma anche, e soprattutto, perché si sarà superati
nell'arte.
Di fatto, comunque, Dante colloca se stesso e Giotto ai vertici
della propria generazione, e senza ritenere assolu-tamente di
peccare di superbia.
Dante, Giotto, i due Guidi, Oderisi e Franco sono artisti, non
dimentichiamolo, come il Creatore della cui opera, in questo cerchio,
c'è una prova diretta e a loro spetta la gloria della nuova
età non più, come abbiamo visto, grossolana.
Per quanto riguarda in particolare Giotto Dante tiene conto che
l'anno in cui si svolge il suo viaggio è il 1300 e attribuisce
il "grido" nella pittura al pittore, che, evidentemente,
dopo le prime prove ad Assisi, era subito salito a grande fama,
limitandosi a prevedere per se quella che gli sarebbe venuta dopo
la pubblicazione dei primi canti della Commedìa. Non dimentichiamoci
che in questo periodo il poeta era particolarmente eccitato dalla
presenza di Arrigo VII in Italia ed era convinto di poter avere
la sua grande affermazione su tutti i suoi nemici e, forse, su
tutti in genere; del resto, col carattere che aveva, non avrebbe
potuto essere altrimenti.
Dopo il colloquio con Oderisi da Gubbio Dante riprende a citare,
nel XII canto, gli episodi di superbia punita che vede intagliati
a terra e sui quali, materialmente, cammina:
Come, perché di lor memoria sia,
sovra i sepolti le tombe terragne
portan segnato quel ch'egli eran pria
- onde llì molte volte si ripiagne
per la puntura de la rimembranza,
che solo a' piï dà delle calcagne -:
sì vid'io lì - ma di miglior sembianza
secondo l'artificio - figurato
quanto per via di fuor del monte avanza.
Vedea colui che fu nobil creato
più ch'altra creatura, giù dal cielo
folgoreggiando scender, da un lato.
Vedea Brïareo, fitto dal telo
celestïal giacer, da l'altra parte,
grave a la terra per lo mortal gelo.
Vedea Timbreo, vedea Pallade e Marte,
armati ancora, intorno al padre loro,
mirar le membra d'i Giganti sparte.
Vedea Nembròt a piè del gran lavoro,
quasi smarrito, e riguardar le genti
che 'n Sennaàr con lui superbi fuoro.
O Nïobé, con che occhi dolenti
vedea io te segnata in su la strada,
tra sette e sette tuoi figliuoli spenti!
O Saùl, come in su la propia spada
quivi parevi morto in Gelboè,
che poi non sentì pioggia né rugiada!
O folle Aràn, sì vede' ïo te
già mezz'aragna, trista in su li stracci
dell'opera che mal per te si fé.
O Roboàm, già non par che minacci
quivi 'l tuo segno! pien d'ogni spavento
ne porta un carro, sanza ch'altri il cacci.
Mostrava ancor lo duro pavimento
come Almeón a sua madre fé caro
parer lo sventurato addornamento.
Mostrava come i figli si gittaro
sovra Sennacherìb dentro dal tempio,
e come, morto lui, quiv'i lasciaro.
Mostrava la ruina e 'l crudo scempio
che fé Tamiri quando disse a Ciro:
"Sangue sitisti: e io di sangue t'empio!".
Mostrava come in rotta si fuggiro
li Assiri poi che fu morto Oloferne,
e anche le reliquie del martiro.
Vedea Troia in cenere e in caverne:
o Ilïón, come te basso e vile
mostrava il segno che lì ti discerne!
Qual di pennel fu maestro o di stile
che ritraesse l'ombre e i tratti ch' ivi
mirar farieno uno ingegno sottile?
Morti li morti, e i vivi parean vivi:
non vide mei di me chi vide il vero,
quant'io calcai, fin che chinato givi.
(Purg. XII 16-69)
Tredici sono gli esempi fatti, alternando quelli presi dalle
storie bibliche a quelli del mito o della storia antica; tradizionalmente
questo numero viene ridotto a dodici, visto che le due terzine
che riguardano Briareo e i Giganti, in effetti, si riferiscono
ad un solo episodio. Si può tentare di unire questi bassorilievi,
sia pure immaginari, a coppie tematiche: per la prima, che rappresenta
Lucifero e Briareo, è facile trovare il motivo: entrambi
furono precipitati giù dal cielo per aver sfidato la divinità.
Per le altre proponiamo:
- Nembrot e Niobe provocarono la morte di chi dipen-deva da loro;
- Saul e Aracne furono entrambi vittime della gelosia (il primo
della propria);
- Roboamo e Alcmeone confusero l'eccellere col posses-so di beni
materiali;
- Sennachérib e Ciro morirono nel sangue dopo che lo ebbero
ingiustamente sparso per sete di gloria;
- gli episodi di Oloferne e di Troia mostrano la sconfitta di
un intero popolo.
La simmetria logica è ripetuta da quella fisica immagi-nata
dal poeta che vede, lungo il cammino, da un lato gli episodi delle
storie bibliche e dall'altro quelli delle storie del mito; è
lecito credere che la disposizione della prima coppia, Lucifero
e Briareo, si ripeta anche in seguito. In questo modo i superbi,
nel loro cammino, vedevano da entrambi i lati, contemporaneamente,
esempi di superbia punita da Dio (anche indirettamente) ed esempi
di superbia punita dagli uomini.
Commentando la Vita Nova ci eravamo chiesti se Dante fosse in
grado di concepire, se non di realizzare, composi-zioni figurative
complesse; riguardo all'epoca di stesura della Vita Nova non sapremmo
ancora ripondere, ma qui certamente si. Gli esempi sono come le
sculture tombali inserite nei pavimenti delle chiese e, come queste,
possono generare sentimento col ricordo che suscitano.
Ovviamente la loro qualità è migliore, visto che
si tratta di arte che non generata dall'uomo. Nessun pittore o
scultore realizzò mai chiaroscuri e lineamenti simili,
che avrebbero fatto meravigliare qualunque "sottile"
intendi-tore. É scontato che "non vide me' di me chi
vide il vero", ma è interessante vedere che Dante
usa i termini propri delle arti figurative per paragonare l'arte
di origine divina (anche se non dice come attuate) a quella umana.
I termini "ombre" e "tratti" indicano una
chiara conoscenza tecnica e sono, non ci stanchiamo di ripeterlo,
particolarmente significativi se correlati all'arte di Giotto,
visti gli eccellenti risultati raggiunti da questi nel dare rilievo
alle figure, sempre, ovviamente, in relazione ai tempi. Fondamental-mente,
comunque, in questo brano si ripetono gli stessi concetti già
espressi nel canto X.
Il termine "segno" acquista, qui, un valore nuovo per
le arti figurative: "segno" è "segno significante"
e non solo di tratto tecnico di pennello con valore puramente
indicativo.
D'ora in poi gli accenni alla pittura diventano più accu-rati
soprattutto nella distinzione tecnica tra disegnare e colorare
che diviene sempre meglio precisata, come in questi versi del
XII canto:
Per te poeta fui, per te cristiano:
ma perché veggi me' ciò ch'io disegno,
a colorar stenderò la mano.
(Purg. XXII 73-75)
In questa terzina, in cui l'interlocutore è Stazio,
un poeta, è evidente che Dante non contrappone, ma integra
le due tecniche del disegno e del colorire, ma attribuendo alla
seconda una maggiore capacità descrittiva e comuni-cativa;
un'immagine colorata è meglio comprensibile di una semplicemente
disegnata. Al tempo di Dante il disegno non aveva ancora il valore
progettuale, rispetto al'opera d'arte, che gli attribuiranno gli
umanisti e non si può contrapporre alla pittura, cui si
integra; anche se, poi, le tecniche erano ben distinte precedendo
sempre l'una all'altra nelle operazioni. Si vede chiaramente non
solo che un'immagine colorata è considerata più
bella e più espressiva di una semplicemente disegnata ma
anche che il disegno precede sempre il colore, temporalmente e,
soprattutto, concettualmente, come avveniva in Giotto, in cui
il disegnare non è solamente, ormai, un fatto procedu-rale
ed operativo ma la ricerca della struttura stessa dell'immagine;
ricerca forse ancora poco metodica ma comunque finalizzata ad
un risultato che si ha chiaro in mente.
Ancora un richiamo all'arte è nel rimprovero che fa Beatrice
a Dante ricordandogli la caducità della bellezza:
Mai non t'apresentò natura o arte
piacer quanto le belle membra in ch'io
rinchiusa fui, e che sono in terra sparte;
e se 'l sommo piacer sì ti fallìo
per la mia morte, qual cosa mortale
dovea poi trarre te nel suo disio?
(Purg. XXXI 49-54)
Qui la bellezza corporea di Beatrice è considerata come
la cosa più bella che Dante abbia mai visto nella natura
o prodotta dall'arte umana. Il concetto ripete quelli già
espressi precedentemente, ma ci sembra che il significato della
parola "arte" sia sempre più quello relativo
alla capacità di una resa estetica (le belle membra) che
a quella generica di un'abilità nel fare qualcosa; un'accezione
molto vicina a quella moderna del termine, in uso almeno dal '400
in poi.
Non meraviglia che più oltre Dante arrivi a desiderare
quasi di essere un pittore:
Io non lo 'ntesi, né qui non si canta
l'inno che quella gente alor cantaro,
né la nota soffersi tutta quanta.
S'io potessi ritrar come assonnaro
li occhi spietati udendo di Siringa,
- gli occhi a cui più vegghiar costò sì caro
-,
come pintor che con essempro pinga
disegnerei com'io m'addormentai;
ma qual vuol sia che l'assonnar ben finga.
Però trascorro a quando mi svegliai,
e dico ch'un splendor mi squarciò 'l velo
del sonno, e un chiamar: "Surgi! che fai?".
(Purg. XXXII 61-72)
Il poeta dice esplicitamente che se potesse disegnerebbe come
un pittore, esprimendo il desiderio di avere una capacità
descrittiva pari a quella della pittura ed affer-mando di essere
costretto a trascorrere. Notiamo solo che, parlando di se stesso,
Dante usa il termine disegnare pur aspirando a essere un pittore,
quasi voglia limtarsi ad un'abilità, il disegnare, che
in qualche modo gli era propria.
Diverso il paragone nel canto successivo:
Ma perch'io veggio te ne l'ntelletto
fatto di pietra e, impetrato, tinto
sì, che t'abbaglia i lume del mio detto,
vogli'anco - se non scritto, almen dipinto -
che 'l te ne porti dentro a te per quello
che si reca il bordon di palma cinto.
(Purg. XXXIII 73-78)
Qui Dante paragona la pittura e la scrittura tra di loro, dopo
aver già ricorso a termini pittorici come "tinto"
e "lume" anche relativamente al parlato. Il detto di
Beatrice sarà ricordato da Dante se non scritto, almeno
dipinto. É evidente che "scritto" vuol dire non
solo imparato a memoria ma anche ben compreso nel significato;
mentre "dipinto" si riferisce, evidentemente, ad una
conoscenza intuitiva, fatta di immagini ma non meditata.
Dante pone così dei limiti alla pittura, che è capace
di suscitare grandi emozioni, far immaginare, descrivere meglio
di qualunque parola, ma non può trasmettere una conoscenza
intellettuale, non può far comprendere quello che si trova
oltre le apparenze visive; il vero sapere è affidato alla
scrittura. In fondo, quando due secoli dopo Vasari scrisse le
sue famose Vite e diede inizio alla Storia dell'Arte come disciplina
autonoma, gli diede anzitutto una forma letteraria e filosofica
sulla scorta di quella che, evidentemente, era una tendenza già
consolidata.
Anche nel Paradiso continuano i paragoni tra arte e natura sin dal I canto:
Ver è che, come forma non s'accorda
molte fïate a l'intenzion de l'arte
perch'a risponder la materia è sorda:
così da questo corso si diparte
talor la creatura, c'ha podere
di piegar, così pinta, in altra parte,
- e sì come veder si può cadere
foco di nube - se l'impeto primo
l'aterra, tòrto da falso piacere.
(Par. I 127-135)
Il problema che Dante esamina è quello dell'incapacità
dell'artista a far coincidere l'opera realizzata, la sua forma
concreta, con l'idea che ha in mente, allo stesso modo in cui
le creature libere possono deviare dal loro corso naturale, corso,
ovviamente, che il Creatore, sommo artista, aveva predisposto
nella maniera migliore. Nei due termini del paragone l'imperfezione,
si noti, è sempre e comunque da attribuirsi all'uomo, ma
se nel primo egli è l'artista, il creatore, sia pure fallibile,
nel secondo è l'opera creata, la materia da plasmare. Si
ribadisce, così, l'altissi-mo ruolo degli artisti e la
stima che il poeta ha dei pittori in particolare.
Che un sentimento sia evidenziato meglio dipinto che con parole
è bene espresso anche in questi versi:
Io mi tacea; ma 'l mio disio dipinto
m'era nel viso, e 'l dimandar con ello,
più caldo assai che per parlar distinto.
(Par. IV 10-12)
Anche se il desiderio di spiegazioni di Dante non è
realmente dipinto è chiaro il concetto ne risulti più
efficace (caldo) che se fosse spiegato (distinto) a parole.
Ancora, nel canto XIII, Dante riprende il paragone con l'incapacità
degli artisti a dare forma alla materia come vorrebbero:
S'e' fosse a punto la cera dedutta
e fosse il cielo in sua virtù suprema,
la luce del suggel parrebbe tutta;
ma la natura la dà sempre scema,
similemente operando a l'artista
ch'a l'abito de l'arte ha man che trema.
(Par. XIII 73-78)
In questo caso non è alla pittura che egli fa riferimento
ma alla scultura, particolare deducibile dalla citazione di un
materiale modellabile e plasmabile come la cera.
Quella che viene sottolineata è la differenza tra la mentalità
dell'artista (l'abito) e le sue capacità reali; il poeta
si sentiva ormai, a questo punto della sua vita e dell'opera intrapresa,
soprattutto artista. Nel continuo affinare la propria concezione
dell'arte Dante è arrivato, ormai, a definirla come un
vero e proprio modo di essere che investe la personalità
e il termine arte è ormai da prendere nella sua accezione
più moderna, completa ed elevata.
Abbiamo già rilevato che questo significato diviene sempre
più chiaro ed universale con l'Umanesimo; pienamente pre-umanistici,
nei loro riferimenti classici, sono i versi con cui Dante, nel
cielo di Giove, invoca la musa e quasi a proseguire il concetto
espresso nel canto XI del purgatorio, è questa che assicura
una fama più duratura agli uomini e alle loro storie:
O diva Pegasëa, che li 'ngegni
fai glorïosi e rendigli longevi
- ed essi teco le cittadi e' regni -,
illustrami di te, sì ch'io rilevi
le lor figure com'io l'ho concette:
paia tua possa in questi versi brevi!
Mostrârsi dunque in cinque volte sette
vocali e consonanti; e io notai
le parti sì, come mi parver dette.
"DILIGITE IUSTITIAM" primai
fûr verbo e nome di tutto il dipinto;
"QUI IUDICATIS TERRAM", fûr sezzai.
Poscia ne l'M del vocabol quinto
rimasero ordinate: sì che Iove
pareva argento lì d'oro distinto.
E vidi scendere altre luci dove
era il colmo de l'M, e lì quetârsi
cantando, credo, il Ben ch'a sé le move.
Poi, come nel percuoter di ciocchi arsi
surgono innumerabili faville
- onde li stolti sogliono augurarsi -,
resurger parver quindi più di mille
luci, e salir - qual assai qual poco -
sì come 'l Sol che l'accende sortille;
e quïetata ciascuna in suo loco,
la testa e 'l collo d'un'aguglia vidi
rappresentare a quel distinto foco.
Quei che dipigne lì non ha chi 'l guidi;
ma Esso guida, e da Lui si ramenta
quella virtù ch'è forma per li nidi.
L'altra bëatitudo, che contenta
pareva prima d'ingigliarsi a l'M,
con poco moto seguitò la 'mprenta.
(Par. XVIII 82-114)
Sembra qui che la musa, l'arte, possa superare la barriera
del tempo, e non si parla neppure di "etadi grosse".
È come se Dante avesse superato le pregiudiziali medioevali
del suo tempo che nel Purgatorio gli facevano sottolineare la
caducità delle cose umane e qui, nel Paradiso, dove tutto
è eterno, volesse attingere a questa nuova dimensione di
fama perenne. Cambiano i suoi intendimenti e le sue preoccupazioni.
Il desiderio di Dante è di non fallire nel tentativo di
descrivere le immagini che ha concepito, problema che abbiamo
già visto proposto nei versi sopra citati.
Il riferimento alle arti figurative è in due termini, uno
relativo all'operare del poeta, "rilevi", preso dalla
scultu-ra, ed uno relativo all' operando, "'l dipinto",
preso dalla pittura. Più sotto ad un pittore viene paragonato
Dio, "quei che dipinge", chiarendo, una volta per tutte,
che Egli non imita nessuno e "non ha chi 'l guidi".
Tutta la concezione artistica di Dante viene definitivamente chiarita
apertis verbis.
Inoltre l'arte è anche ornamento e decoro e tali sono Traiano
e Rifeo per il cielo:
La prima vita del ciglio e la quinta
ti fa maravigliar, perché ne vedi
la regïon de li angeli dipinta.
(Par. XX 100-102)
Pare proprio che la pittura sia il mezzo più consono
ad esprimere ciò che è bello e buono.
Più oltre, verso la fine dell'opera, proprio per ribadire
i concetti espressi, Dante si dichiara incapace di descrivere
e ricordare cose e pensieri troppo forti (color troppo vivo) per
la mente umana, tali da superare la sua capacità creatrice
(la mia fantasia), ma sempre facendo ricorso a paragoni con la
pittura:
Di quella ch'io notai di più carezza
vid'io uscire un foco sì felice
che nullo vi lasciò di più chiarezza;
e tre fïate intorno di Beatrice
si volse, con un canto tanto divo
che la mia fantasia nol mi ridice.
Però salta la penna e non lo scrivo:
ché l'imagine nostra a cotai pieghe,
non che 'l parlare, è troppo color vivo.
(Par. XXIV 19-27)
È accennato, qui, il problema delle ombreggiature nelle
pieghe, allora di difficile soluzione, e che Giotto risolse con
sempre maggiore abilità nel progredire della sua arte,
specialmente a Padova, ciclo di pitture già conosciuto
da Dante quando componeva questi canti del Paradiso. Anche queste
considerazioni, che possono avere un valore solo molto relativo,
anche se fondamentalmente esatto, sono utili per risolvere la
questione se, in Giotto si evidenzi l'influsso della Commedìa
di Dante a Padova o, viceversa, in Dante si riveli una nuova opinione
della pittura generata dalla conoscenza della rifondazione Giottesca.
Certo in Giotto il sentimento dell'umanità dantesca, specie
nell'Inferno, avrebbe dovuto influire sulla pittura padovana mentre,
nel frattempo, non aveva probabilmente già conosciuto Dante
almeno il ciclo di Assisi? Tuttavia la storia della pubblicazione
dei primi sette canti dell'Inferno prima dell'esilio è
assai poco probabile, mentre è certa la divulgazione delle
due prime cantiche dopo il 1312, quando la Cappella degli Scrovegni
era certamente già finita. É eventualmente Dante
ad ispirarsi a Giotto, e non viceversa!
Giotto è maggiormente in grado di risolvere questi problemi
perché aveva chiaramente presente il problema della tridimensionalità
del soggetto da rappresentare ed in rapporto a questa ed alla
sua collocazione nello spazio agisce e modifica la tecnica. Infatti
il colore "troppo vivo" non viene solo schiarito dal
pittore ma, soprattutto a Padova, viene anche modificato tonalmente,
in genere smorzato appena e raffreddato, spostato, cioé,
verso tonalità azzurre (ma lo spostamento non ne snatura
l'origine) che lo rendono apparentemente, appunto, meno vivo.
In Italia i grandi cicli pittorici prevalevano ormai su quelli
scolpiti, ai quali Dante stesso, come abbiamo visto, si era ispirato
nel Purgatorio e l'arte di Giotto aveva contribuito non poco ad
affrettare questa evoluzione. Il fenomeno, evidentemente, interessò
anche Dante e la sua concezione dell'arte, visto che nell'ultima
cantica è alla pittura che si attribuisce la massima capacità
di comunica-zione, specie nel campo dei sentimenti. Questa, negli
ultimi versi della Commedìa che ne parlano, è paragonata
alla Natura per la capacità di agire sull'uomo ed è
solo in Paradiso che la sua bellezza pare niente, ma non in terra:
La mente innamorata, che donnea
con la mia donna sempre, di ridure
ad essa li occhi più che mai ardea;
e se natura o arte fé pasture
da pigliare occhi, per aver la mente,
in carne umana o nelle sue pitture,
tutte adunate, parrebber niente
ver' lo piacer divin che mi refulse
quando mi volsi al suo viso ridente.
(Par. XXVII 88-96)
Dipingere, poetare, seguire la bellezza è lo scopo dell'arte:
Dal primo giorno ch'i' vidi il suo viso
in questa vita, infino a questa vista,
non m'è il seguire al mio cantar preciso;
ma or convien che mio seguir desista
più dietro a sua bellezza, poetando,
come a l'ultimo suo ciascuno artista.
(Par. XXX 28-33)
Non crediamo che una simile concezione dell'arte fosse così
chiara e sentita in Dante prima della Commedìa né
che versi simili avrebbero potuto essere composti al tempo della
Vita Nova; si tratta del risultato di una maturazione durata anni
che, forse, fu accellerata e perfezionata dalla contemplazione
dell'opera di Giotto. Anche le disillusioni passate dal poeta
e la certezza di una vita futura, che nella sua mente si concretizzano
nelle immagini del Paradiso, hanno sicuramente contribuito ad
accellerare il suo sentimento particolare dell'arte che, a questo
punto, diviene la sua vera e autentica ragione di vita anche al
di là della speranza in quella futura.
La teoria della conoscenza di San Tommaso, con l'impressione che
nell'intelletto fa la realtà, corrisponde nel Dolce Stil
Novo al trasmigrare degli spiritelli dalla persona che genera
amore, l'amato, nell'animo dell'amante dove vanno a rifugiarsi.
Nell'ambito della razionalità agiscono le facoltà
dell'intelletto per conoscere l'oggetto, nell'ambito della poesia
sono altre facoltà dell'animo, preparate da un'educazione
"gentile"; per essere precisi più che di facoltà
di dovrebbe parlare di un modo di essere di tutta la persona cui
doveva corrispondere un adeguato stile di vita.
Negli ultimi canti del Paradiso l'impostazione eccessivamente
razionale di origine tomistica viene abbandonata e si diffonde
un sentire genericamente più misticheggian-te, peraltro
perfettamente adatto a chi si sia avvicinato tanto a Dio, almeno
con l'immaginazione. È come se alla Summa theologica di
San Tommaso si sostituisse, come riferimento ideologico, l'Itinerarium
mentis in Deum di San Bonaventura ed il poeta considerasse la
poesia e l'arte in genere il solo mezzo capace di esprimere un
simile modo di essere dello spirito. Non crediamo che si trattasse
di una presa di posizione cosciente ma di un naturale evolversi
interiore, indotto dalla stessa azione del poetare.
La vera novità e il vero progresso della concezione artistica
che Dante sviluppa nel corso della Commedìa è il
superamento della concezione puramente tecnico-manuale della pittura
che è omologata dal poeta alle arti della parola, come
già dimostra la sua iniziale educazione al disegno. Un'evoluzione
che arriverà per la prima volta a nobilitare i pittori
quanto i poeti, come non era mai stato da vari secoli.
È una visione globale del vivere alla quale ci si deve
adeguare per ingentilirsi, una sorta di itinerarium animi verso
una perfezione che teoricamente è Dio, ma in pratica si
ferma a quell'amore per la bellezza dell'arte che la contemplazione
del bello materiale genera. Quando Dante, dopo essersi purgato
dei suoi peccati, compie il suo personale itinerarium mentis in
Deum guidato da Beatrice, nell'ultimo canto, dopo aver costatato
di essere ancora legato al mondo, torna a cantare la bellezza
e afferma che questo è il fine, scopo e dovere assieme,
di un artista. Dante acquisì, nella Commedìa, la
capacità di esprimersi direttamente e spontaneamente, ormai
padrone della lingua e delle sue possibilità mano a mano
che procedeva nell'opera, traducendo direttamente in versi i sentimenti
ormai connaturati al suo animo e aprendo alle generazioni future,
nuove strade e nuove possibilità superiori perfino, sotto
determinati punti di vista, a quelle battute da quegli stessi
antichi che tanto ammirava.
Il parallelismo con l'analoga azione di Giotto chiarisce sino
a qual punto ciò non fu proprio del singolo artista ma
la nascita di un nuovo modo di essere dell'arte stessa: entrambi
modificarono continuamente, nel corso della propria vita, se stessi
ed il proprio modo di fare arte. Non intendiamo solamente il naturale
evolversi che ogni artista ha nel corso della propria vita, quell'affinarsi
dello stile e dei mezzi espressivi che è conseguenza di
una maturazio-ne interiore, ma un processo cosciente di autocorrezione
o meglio, una continua ricerca di nuovi mezzi espressivi. Una
ricerca precisa e volontaria che è possibile seguire nell'opera
dei due grandi artisti e che poteva, come fu, essere continuata
anche dopo di loro.
Il concetto di moderno (e forse di rivoluzionario) è anzitutto
nel modo di concepire il proprio agire prima ancora che nelle
opere realizzate. Naturalmente in Dante un simile modo di concepire
l'operato artistico non è neppure teorizzato in alcun modo,
ma che la ricerca del senso da dare alla propria vita (l'amore
prima, e dall'amore alla verità ed alla salvezza) vada
in parallelo con la ricerca di un fine ed uno scopo dell'arte
è evidente, sino ad essere affermato negli ultimi versi
sopra citati. Di Giotto naturalmente non abbiamo nulla di scritto
ma le opere portano alle stesse conclusioni.
A questo punto ci si può porre un'ultima serie di do-mande
che rimarranno, in questa sede, senza risposta visto che esulano
dal fine iniziale dell'opera. La grande fama di cui godettero
i due grandi artisti, Dante e Giotto, fu dovuta anzitutto all'elevatissima
qualità delle loro opere, ma fino a che punto questa qualità
fu capita in tutti i suoi significati? E lo fu egualmente per
entrambi? Noi moderni, compreso l'autore di questo breve saggio,
non fatichiamo a mettere in parallelo i due artisti, le loro personalità
e il loro modo di concepire e fare l'arte, ma i loro contemporanei
facevano altrettanto? Noi abbiamo una visione unitaria della nuova
forza culturale che muoveva l'Italia di allora, ma era poi sentita
come tale a quei tempi?
Ci spieghiamo meglio: l'opera di Dante corrispondeva pienamente
a determinate esigenze dell'anima medioeva-le, soprattutto negli
scopi finali e nell'importanza della struttura concettuale e questo
contribuì a determinarne l'immediato successo, ma il nuovo
modo di concepire l'arte, così teso a dare rilievo al ruolo
stesso dell'artista, fu realmente ben compreso e, soprattutto,
ben accettato? Altrettanto potrebbe dirsi per Giotto, ma precisando
il problema: le sue innovazioni tecniche furono subito accettate,
se non altro perché ampliavano enormemente la capacità
della pittura di comunicare ed impressionare un pubblico sempre
più vasto, ma l'eccessiva umanizzazione del sacro non provocò
forse delle reazioni? Secondo alcuni in parte si, ma forse anche
questo fu solo apparen-te. Quelle che sembrarono reazioni all'eccessivo
realismo di Giotto furono invece affinamenti culturali nei quali,
rendendo la materia dell'arte sempre più elegante e raffinata
si ristabiliva la separazione tradizionale tra l'uomo di cultura
ed il volgo. La differenza con i secoli precedenti fu che questa
cultura apparteneva a chi sapesse gestirla e farla propria, non
a chi ricopriva un qualche ruolo, magari ecclesiastico. In questo
senso sarebbe interessante esaminare anche i rapporti tra Francesco
Petrarca e Simone Martini notando subito che Petrarca non paragona
mai, a differenza di Dante, le capacità espressive della
poesia a quelle della pittura pur mante-nendo un concetto elevatissimo
e paritetico di entrambe.