BARABALLO POETA LAUREATO (I versione)

Agli inizi del XVI secolo Roma stava vivendo uno dei periodi di maggiore splendore della sua storia, agli imponenti resti dell'antichità si aggiungevano nuove costruzioni, paragonabili ad essi per bellezza e dimensioni, mentre la città riprendeva ad espandersi all'interno della sua enorme cerchia di mura. Papi illuminati e protettori delle arti avevano accresciuto il patrimonio artistico dell'Urbe mentre combattevano per la libertà della Chiesa e, più confusamente, in qualche modo per quella d'Italia.
I più grandi artisti erano chiamati a Roma ed i nomi di Michelangelo, Raffaello, Bramante non hanno certo bisogno di presentazioni. Naturalmente, come spesso accade, accorrevano a Roma molti altri, che non erano stati chiamati da nessuno, ma speravano egualmente di fare la propria fortuna trovando qualche raccomandazione presso il papa o per i propri meriti.
Tra questi ultimi spicca la figura di Gaetano Baraballo, che un anno imprecisato dell'inizio del secolo venne a Roma per essere laureato poeta.
In quest'epoca essere laureato voleva ancora dire essere incoronato materialmente con l'alloro, la pianta sacra ad Apollo, spesso ricevendone anche un diploma di pergamena che attestava l'avvenuta incoronazione. La pratica si estendeva anche a quelle persone che venivano dichiarate "dottore" in qualche scienza con particolare solennità per i loro studi e la loro sapienza; il ternmine attuale laurea (di alloro, in latino) deriva da questa particolare pratica ed indicava all'origine la corona, appunto, laurea.
L'usanza era di laureare i poeti in Campidoglio con una solenne cerimonia; uno dei più celebri fu Petrarca che, peraltro, fu coronato non per le sue canzoni d'amore in Italiano o meglio, come si diceva, in Volgare, ma per quei poemi latini di argomento morale che oggi nessuno legge più.
Ma chi era Baraballo? Oltre il fatto che fosse un abate di Gaeta sappiamo assai poco, le fonti lo descrivono ben portante e bello di persona anche in tarda età, ma di mente leggerissima, di ingegno balzano e soprattutto dotato di una grande presunzione che era facile aumentare con qualche lode sperticata. La sua facile vena poetica gli permetteva di inventare versi in continuazione ed alimentava la smania di imitare Petrarca al punto che presto si era convinto di averlo superato.
Proprio per questo era venuto a Roma ma, naturalmente, né Alessandro IV né Giulio II gli avevano dato retta. Le cose cambiarono quando divenne papa Alessandro de' Medici col nome di Leone X, vero amante delle arti e delle lettere come suo padre Lorenzo il Magnifico ma anche, da buon fiorentino, degli scherzi e delle buffonate, tanto che aveva dato ordine al suo maggiordomo che buffoni e matti fossero introdotti alla sua presenza senza anticamera.
Immaginiamo questa scena: il papa, a tavola con pochi eletti convitati (che so? Bramante, Bembo, che era anche suo segreatrio, Raffaello, Bramante, e magari Giovanni delle Bande Nere, suo cugino ma non il serissimo Michelangelo) sedeva su di un posto rilevato rispetto agli altri, ad un tavolo che aveva un apposito gradino. Ad un certo punto venne introdotto Baraballo, invitato "speciale" e che il papa presntò agli altri con molte lodi tanto che… di grossa vescica ch'egli era divenne un pallone più vasto che non fu pochi anni dappoi la Cupola di San Pietro. Il papa per tutta la cena porse, onore inaudito, di propria mano i bocconi migliori a Baraballo anche se poi, distrattamente, li ritirava all'ultimo per mangiarli, tanto che il poveretto rimase quasi digiuno. Poi, naturalmente, vennne invitato a recitare qualche sua poesia; l'effetto fu tragicomico e si videro le migliori menti d'Italia rotolarsi, col papa stesso, sulla tavola dalle risate. All'esterefatto poeta risposero che i suoi versi erano talmente belli che tutti ne erano rimasti sconvolti. Baraballo ci credette.
Fu questa inconsueta capacità di vedere le cose in modo totalmente distorto che fece venire a Leone X l'idea per uno scherzo in grande stile ispirandosi ad un episodio avvenuto l'anno precedente. Protagonista ne era stato un altro "poeta", Camillo Querno, detto l'arcipoeta. Questi si era trovato ospite di alcuni nobili cavalieri romani in un caldo meriggio d'estate al fresco del pergolato in un'osteria dell'Isola Tiberina, contraccambiando coi suoi versi il cibo e l'abbondante vino che gli veniva offerto. Ad un certo punto a qulcuno venne l'idea di coronarlo poeta con una corona di foglie di insalata e di cavolie, così conciato, mezzo ubriaco, fu portato in trionfo a cavallo per la città. La conseguenza fu un gran corteo popolare che si organizzò spontaneamente per la città accompagnando l'arcipoeta al Campidoglio ed una festa improvvisata che durò fino a natte tra schiamazzi, bevute e, aggiungiamo noi, le immancabili risse. Per queste c'erano gli svizzeri, che non parlavano che il tedesco e che in genere riportavano l'ordine a colpi imparziali d'alabarda.
Così Leone X un giorno disse a Baraballo di …volere onorare i giorni del nostro dominio con una coronazione da farsi in Campidoglio al miglior poeta italiano … e sapendo Noi che per comune giudizio de' dotti tu se' al di sopra degli altri poeti quant'è più alto il cardo de' funghi, così vogliamo che a te questo onor si comporti. Naturalmente a Baraballo sfuggì il ridicolo di essere paragonato ad un cardo tra i funghi ed accettò la corona per il giorno dei SS. Cosma e Damiano del 1515. Invano i parenti, gente seria, cercarono di portarlo via.
Il giorno dell'incoronazione con grande schiamazzo di popolo fu accompagnato in San Pietro dove con voce "più chioccia e stonata del solito" cominciò a recitare un carme per l'occasione. Si dice che alcuni dei presenti, non potendo ridere, cosa proibita dal papa, stettero per soffocare e furono portati via dalle guardie svizzere. Il papa resistè più di tutti e i giudici dissero che quel solo componimento lo elevava al di sopra di tutti gli altri poeti di ogni tempo. Era presente tutta la nobiltà romana ed il conclave al completo anzi, la giuria era presieduta dal dottissimo Cardinale Mattia Lang, che era venuto a Roma per trattare l'alleanza tra il papa e l'imperatore e che non mancò di raccomandare a Baraballo di porre la sua lira al servizio della Chiesa.
"Coronisi", disse Leone X ed immediatamente Baraballo fu fatto salire su di un elefante vestito di una toga contemporaneamente palmata e laticlavia (ornata con foglie di palma come quelle degli antichi sacerdoti e con un largo orlo color porpora come quelle dei senatori), ornamenti che, ovviamente, non potevano coesistere e per di più era imbrattata di spruzzi color oro. Apriva il corteo una formazione di guardie svizzere con banda, seguiva il senato al completo. Purtroppo, quando da Castel S. Angelo fu sparata una salva di cannone l'elefante si spaventò, disarcionò Baraballo e fuggì nella stalla.
Le fonti attestano che la corona preparata per Baraballo, preparata da un vero orefice, era tutta di alloro misto a foglie di bieta e di cavoli e universalmente lodata come opera di gran pregio. Baraballo se la cavò con un bernoccolo in fronte e si mise ad aspettare che il papa rinnovasse il decreto dell'incoronazione, e aspettando morì. Si trattò certamente di uno dei più grandiosi scherzi della storia ed è meraviglioso che un popolo indiscipkinato e riottoso, se non violento, come quello romano, lo abbia uniformemente sostenuto per alcuni mesi, guidato in questo dai propri più alti magistrati ed ancora di più che abbiano sostenuto Leone X ingegni di valore assoluto nelle arti e nelle lettere.
Questi tempi spensierati stavano per finire; persone serie come Martin Lutero cominciavano a pensare che fosse ora di smettere con simili papi ed il sacco di Roma di dodici anno dopo ne fu la conseguenza. È vero che andati via i lanzichenecchi la città si riprese molto rapidamente, ma non fu più la stessa cosa e gli scherzi divennero più violenti e si concentrarono soprattutto di Carnevale.
Una parola, infine, va spesa per l'elefante. Questi era stato inviato al papa insieme all'ambasceria che gli chiedeva di riconoscere i suoi possessi nel Nuovo Mondo (America non era un termine ancora in uso). Questo fu il primo elefante che i Romani vedevano dal tempo della caduta dell'impero assieme a scimmie, pappagalli ed altre bestie esotiche come i tacchini. La bestia, mitissima e molto socievole, visse a Roma un paio d'anni amata da tutti. Il suo conduttore indiano lo aveva seguito sino a Roma amorevolmente convinto da un ordine di Emanuele I del Portogallo che lo minacciava di morte se non avesse lasciato Lisbona dove, pare, si fosse perdutamente innamorato di una ragazza locale.
Dell'Elefante si diceva che comprendesse due lingue, l'Indiano ed il Portoghese, che sapesse comportarsi come una persona intelligente e che piangesse talora come una donna. Quando morì tra il cordoglio generale della città, pare di angina pectoris ma forse di nostalgia, Leone X ne fece fare il ritratto al naturale sui muraglioni del Vaticano niente di meno che a Raffaello! Opera oggi persa ma che fu allora molto lodata. In Vaticano, sulla porta che divide la Stanza della Signatura da quella di Eliodoro, affrascate come è noto da Raffaello, si trova intarsiata la scena dell'Elefante con Baraballo in groppa e la scritta sulla gualdrappa: POETA BARABAL. La porta, come le altre delle Stanze, è opera di Giovanni da Verona, il più grande incisore ed intagliatore del '500 in Italia ed uno dei maggiori mai esistitie, per inciso, è anche ingiusto che simili opere siano trascurate dai visitatori; noi le segnaliamo ai lettori che torneranno a visitare i Musei Vaticani.