La Tutela del Patrimonio Culturale

di Umberto Maria Milizia

 

Al sottoscritto è accaduto più volte, recentemente, di partecipare ad accese dispute sulla tutela ed il mantenimento del nostro Patrimonio Culturale; il fatto stesso che se ne discuta con tanta passione è certamente positivo. Quelle che seguono sono delle brevi note che non intendono incidere sulle diverse opinioni, ma solo chiarire alcuni termini della questione.

Queste discussioni vertono soprattutto, come si può immaginare, sull’opportunità di eventuali condoni edilizi, sul diritto che ha lo Stato di intervenire su beni privati o, ad esempio, sul diritto di utilizzare questi beni o la loro immagine.

I principi giuridici su cui si basa questa tutela particolare dello Stato sui beni culturali, anche privati, sono acquisiti da secoli, quello che ci interessa è esaminare come vengano applicati oggi. Riassumiamo sinteticamente le norme in vigore rifacendoci alla Legge 14 gennaio 1993 n°4 meglio conosciuta come Legge Ronchey che riassume e sostituisce tutte le precedenti. Una legislazione a parte e molto più complessa si occupa della tutela del paesaggio e dell’urbanistica, di cui, comunque fanno parte molti dei beni immobili sottoelencati.

Anzitutto la Legge definisce per la prima volta abbastanza minuziosamente tutto ciò che possa costituire un Bene Culturale e questo è già un significativo passo avanti rispetto al passato e precisamente:

a) le cose mobili e immobili che possono avere un valore artistico, storico, archeologico o demoetno-antropologico;

b) le cose immobili che, a causa del loro riferimento con la storia politica, militare, della letteratura, dell’arte e della cultura in genere, rivestono un interesse particolarmente importante;

c) le collezioni o serie di oggetti che, per tradizione, fama e particolari caratteristiche ambientali, rivestono come complesso un eccezionale interesse artistico o storico;

d) i beni archivistici;

e) i beni librari.

In un simile elenco può essere compreso praticamente tutto per cui succesivamente si citano esempi chiarificatori che vanno dalla villa o dal palazzo all’automobile con più di 70 anni, allo studio d’artista fino alle fotografie o gli strumenti scientifici. Praticamente qualsiasi cosa abbia realmente un valore culturale può essere immessa in questo elenco; ed è giusto, perché l’arte, nel senso tradizionale del termine, è solo una parte della vita di una nazione, si pensi al valore, anche economico, che diamo alla scienza ed alla ricerca scientifica. La novità consiste nell’avere inserito anche quelle immagini il cui supporto tecnico ne permette una riproducibilità infinita, ma è suscettibile, senza cure adeguate, di essere materialmente perduto: se si perde il negativo una fotografia non può essere più stampata, come un film non può essere proiettato senza pellicola o un disco ascoltato senza grammofono, e viceversa.

Anche l’inserimento di oggetti seriali, prodotti dall’industria, è una novità recente; tutti sappiamo che questi oggetti, dal vestito all’automobile o all’elettrodomestico sono curati molto sul piano estetico oltre che su quello funzionale e già questa potrebbe essere una ragione valida per conservarne memoria; se a ciò aggiungiamo il valore storico e sociale l’intenzione del legislatore è chiara.

Facciamo un esempio non artistico e meno ovvio: degli infiniti modelli di caffettiere esistenti alcune sono più belle, altre sono più funzionali e può essere interessante “musealizzarle”. Una collezione di caffettiere (chissà se esiste, ma crediamo di si) darebbe un quadro generale del problema ma, soprattutto, permetterebbe di studiare come e quanto siano cambiate le abitudini degli Italiani  a seguito della diffusione popolare della bevanda, perché il caffè è ormai anche un rito sociale oltre che una consuetudine alimentare privata. Se poi si tiene conto che il caffè è l’alimento più commercializzato del mondo e, in valore assoluto, viene subito dopo il petrolio e la droga (questi sono i dati, purtroppo!), si possono capire meglio anche molte cose della storia politica mondiale; quella storia cui fa riferimento la legge.

La legge elenca poi chi, come e quando deve rilevare se qualcosa abbia un valore culturale tale da essere annoverata nel nostro Patrimonio Culturale. Questo aspetto burocratico è meno interessante, facciamo notare solo che il personale preposto deve essere, ovviamente, ed effettivamente è, particolarmente competente, nessuna competenza è richiesta, peraltro al possessore di un bene che sia da inserire in questo patrimonio e, conseguentemente, questi non ha neppure alcun obbligo di informare l’autorità competente. Rimane l’obbligo di conoscere la legge in genere, anche perché, a parte il principio giuridico che ignorantia legis non facit excusatio (ignorare la legge non è un’attenuante) sono norme inserite nella nostra generazione ormai da secoli; sarebbe come se un ladro cercasse di scusarsi dicendo di non aver mai letto che rubare è proibito.

Così tutti sanno che è proibito effettuare scavi archeologici, che il possesso del sottosuolo è dello Stato e che anche gli oggetti antichi o artistici ritrovati fortuitamente appartengono allo Stato; quello che non si può pretendere è che chi non è archeologo o storico dell’arte possa determinare il valore della propria scoperta, ma è anche vero che l’unico obbligo del cittadino è di rivolgersi all’autorità di pubblica sicurezza che provvede a mettersi in contatto con il Ministero dei Beni Culturali. Tutti sanno che l’Arma ha una serie di specializzazioni ed uffici in proposito ed un Nucleo specializzato. Tra l’altro chi venda qualche reperto sul mercato clandestino, in genere a non più del 5-10% del valore, non capisce di avere guadagnato molto meno del premio, il 25%, che lo paga Stato; più comprensione, sinceramente, abbiamo per chi cerca solo di evitare impicci di carattere burocratico e crediamo che certe procedure andrebbero semplificate.

Quello che nella Legge Ronchey suscita più dubbi è il modo in cui lo Stato esercita la sua funzione di tutela dei Beni Culturali e risulta preso, pari pari, dalla Legge 1 giugno 1939 n. 1089; questa legge fu varata in un’epoca in cui la concezione etica dello Stato era molto forte, dando a questo una prevalenza morale totale sull’individuo.

Lo spirito che informa il legislatore è improntato alla convinzione, che alcune cose costituiscano un valore comune, al di là della proprietà legale; e sin qui in genere tutti sono d’accordo, i dubbi suddetti sorgono quando l’azione di tutela va a toccare il principio della proprietà privata.

Ad esempio, non solo il proprietaro di un’opera d’arte è tenuto a non distruggerla, ben conservarla e gli è interdetta l’esportazione ma può accadere che gli venga sottratta se le condizioni di custodia non siano giudicate soddisfacenti oppure che sia obbligato ad un costoso restauro solo facoltativamente sovvenzionato dallo Stato o, peggio, che questo restauro sia effettuato dallo Stato che poi richiederà il rimborso delle spese anche forzatamente. In questo modo, se il privato cittadino non ha i mezzi economici per provvedere sarà rovinato, senza guadagnare nulla da un’opera d’arte che, forse, vale molto di più di quanto lo Stato abbia speso; perché più spesso di quanto si immagini un oggetto deve essere conservato, ma il suo valore commerciale è molto più basso della cifra necessaria per la conservazione, e anche in questo caso non si può pretendere che uno spenda più di quello che ne ricava.

Vero è che questi casi che sfiorano l’abuso sono assai rari se non inesistenti; tutto si risolverebbe al massimo nel sequestro giudiziario di un bene che il proprietario non è in grado di conservare e quindi destinato alla distruzione, cosa che tutti concordemente vogliono evitare. In compenso il legislatore ha voluto giustamente assicurarsicontro l’abuso della proprietà, perché fondamentalmenteil proprietario di un bene culturale non può essere proprietario di un valore culturale collettivo anche se a questo connesso; un esempio terra terra: ognuno di noi è proprietario delle propria immagine e relativi diritti di sfruttamento, ma non può impedire di essere ammirato per la propria bellezza né, tantomeno, essere proprietario del concetto di bellezza.

Un fatto che abbassa molto il valore commerciale delle opere d’arte in Italia sono proprio questi vincoli, tra cui, odioso per molti, il diritto di prelazione che lo Stato si riserva in caso di passaggio di proprietà, diritto che ritarda, oltretutto, la cessione di un’opera d’arte di parecchi mesi in attesa che l’iter di assenso si compia; questo diritto lo Stato lo riserva anche in caso di eredità, il che sinceramente sembra eccessivo a tutti. A ciò si aggiunga l’obbligo per i proprietari di rendere accessibili al pubblico i beni culturali di cui siano in possesso o, almeno, agli studiosi su appuntamento. Bisogna anche capire che, però, che, anche in questo caso, il legislatore ha cercato di dare allo Stato tutti gli strumenti necessari per una tutela effettiva e che non fosse solamente una lontana supervisione, rendendo accessibile a tutti quello in cui tutti riconoscono i propri valori e le proprie origini ideologiche.

Che dire? Le proposte di una legislazione europea sono molte e una tendenza diffusa, soprattutto all’estero, è che i vari Stati acquistino tutto ciò che ritengono debba essere inamovibile dalla propria collocazione originaria, dal proprio territorio e, comunque, di pubblico godimento lasciando il resto circolare liberamente nel mercato, almeno in Europa. La contropartita è una spesa enorme con relativi problemi di bilancio, e più non aggiungiamo. In nessuno stato europeo si tollera la distruzione di un bene culturale, anche se le forme di intervento sono quanto mai diversificate.

Alcune proposte di legge recentemente fatte tenderebbero, senza abrogare le norme precedenti, a migliorare la situazione economica della casse pubbliche, alienando quello che, in fondo, non è poi tanto necessario per una corretta politica culturale. Ci hanno chiesto se ciò sia possibile, visto che nell’ultimo secolo lo Stato Italiano ha sempre e solo acquisito e mai alienato: secondo noi ( e la maggior parte dei giuristi) la risposta è si. I Beni Culturali proprietà dello Stato sono amministrati dal Demanio ed a questo appartengono, ma sono di diritto privato, ed il nostro è uno Stato di Diritto, che non vuol dire che rispetta i diritti dei cittadini ma che si pone nei confronti della legge come una persona di diritto, contro la quale si può anche agire giuridicamente. I Beni Demaniali cui si fa riferimento sono quelli che costituiscono, assieme ad alcune prerogative particolari, lo Stato stesso e sono assai pochi, inalienabili e nessuno può usufruirne se non temporaneamente in regime di concessione. Ci sovvengono: le strade, le rive del mare sino alla battigia, i fiumi con i loro argini, i laghi, le vie di transumanza (che sono pubbliche sin dal Neolitico), il sottosuolo, lo spazio aereo. Tutto il resto può essere indifferentemente proprietà privata o pubblica, comprese le opere d’arte, le collezioni ecc.

Ognuno può pensarla come vuole, ma certamente sono possibili dei compromessi che rispettino tutte le esigenze facendo rendere qualcosa in più alle sempre bisognose finanze pubblichee liberando i magazzini da decine di migliaia di reperti non esposti la cui conservazione è un costo non trascurabile nel bilancio dei beni culturali. Un criterio proposto e valido è quello che lascerebbe allo Stato, oltre naturalmente le opere già musealizzate e conosciute, ciò che ha maggiore valore scientifico per gli studiosi. Un piccolo vaso antico, un po’ brutto ma raro, può essere più importante per gli specialisti di uno molto più bello ma comune nella tipologia.

Ad un altro problema si era fatto cenno: è possibile fotografare nei Musei? Perché spesso è proibito? Il chiarimento necessario è che, se è proibito, non può esserlo perché lo Stato, o qualunque altro ente abbia dei diritti sull’immagine delle opere esposte: Questi diritti sono regolati da norme internazionali e tutto ciò che risale a più di 50 anni dalla data di creazione o dalla morte dell’autore, secondo i casi, è pubblico; anzi il fatto che un’opera sia collocata in un museo, per il fatto stesso di appartenere così al patrimonio culturale di tutta la Nazione, probabilmente fa scadere i diritti anche sulle opere più recenti, essendo questi diritti, per definizione, ormai di tutti. Questo non vuol dire che il divieto di fotografare sia del tutto infondato, anzi! Ci sono delle esigenze di sicurezza da dover tenere presenti ed il cui mancato rispetto ha dato anche troppo lavoro all’Arma, la pericolosità dei Flash, molto superiore a quanto si creda, per molti materiali e non solo per i quadri e poi, spesso, è il museo stesso a fornire un efficiente servizio fotografico a chi ne abbia bisogno, i prezzi naturalmente sono un’altra discorso. La Ronchey prevede appositamente la concessione di questi servizi ma, ripetiamo, diritti sull’immagine in sé non possono essercene e infatti non se ne parla.

Sappiamo di alcuni abusi di funzionari troppo solerti, che sono arrivati a proibire a privati di far fotografare opere d’arte in loro possesso magari anche dietro compenso, ma nessuna legge può autorizzarlo, essendo il godimento e l’uso di un bene privato una prerogativa inalienabile della proprietà, caso mai estendibile ad altri, ma non prescrivibile al proprietario, al quale la legge vieta solo, e non potrebbe fare altro, la distruzione o il danneggiamento del bene.

Forse anche in questo caso, quando è possibile, si potrebbe lasciare che il visitatore scatti qualche foto o faccia qualche breve ripresa per ricordo personale con le dovute limitazioni, tanto una fotografia decente per una pubblicazione o altri scopi professionali non potrà mai essere presa al volo e certo nessuno chiamerà il professionista autorizzato per fotografare la moglie accanto ad una statua antica o quello che sia; il danno per le casse dello Stato, per chi si preoccupa di questo, è comunque nullo. Questo è l’indirizzo d’opinione di molti sopraintendenti ma tutti sono concordi che ci vogliano sempre delle regole precise nell’interesse stesso dei musei e della loro sicurezza.

Con questo abbiamo terminato la nostra breve escursione sui Beni Culturali, sperando che il lettore abbia saputo distinguere tra quelle che sono le indicazioni della giurisprudenza dalle opinioni personali.