Un Monumento per Roma

di

Umberto Maria Milizia

 

In questo momento la nostra nazione è impegnata, assieme ai suoi alleati, in una serie di operazioni militari o che richiedono l’uso di forze militari della cui necessità tutta la nazione nel suo complesso è fondamentalmente convinta. In alcuni casi, come per il problema afgano, si parla di guerra, guerra al terrorismo ma sempre guerra vera. Peace keeping e peace enforcing sono espressioni entrate nel linguaggio comune.

Contemporaneamente si è riscoperto che negli italiani il sentimento nazionale non era affatto spento, solo aspettava un’occasione per manifestarsi. Così si sono riscoperte anche le nostre tradizioni di lotta alla libertà e militari nelle quali, ed è quasi pleonastico sottolinearlo, l’Arma dei Carabinieri ha avuto sempre una parte più che fondamentale. Non solo, anche nei numerosi ingaggi delle nostre forze armate all’estero l’Arma è impiegata ed impegnata al massimo; anche in questo caso è quasi inutile sottolineare un ruolo che ha avuto ed ha i più alti riconoscimenti internazionali. Non per niente questo ruolo, assieme al continuo tradizionale (ci si perdoni la ripetizione, ma è così) sforzo sui numerosi “fronti” interni in difesa della giustizia, ha portato al riconoscimento giuridico all’Arma di Forza Armata autonoma.

Pensando a questo nuovo ruolo abbiamo osservato che manca, a Roma, un punto ideologico al quale fare riferimento, che condensi il ricordo e la testimonianza di queste tradizioni a parte, naturalmente, il Vittoriano, che avendo la funzione di Altare della Patria riassume comunque in se tutti gli aspetti del sentimento nazionale, e non solo quelli militari.

Certo, di monumenti ai Carabinieri ne esistono, grandi e piccoli, che ricordano sia tutta l’Arma sia i singoli militari o i singoli episodi di valore e dedizione al dovere e, volendo essere precisi, sono anche se non pochi certamente in numero indeguato a ricordare tutto quello si dovrebbe ma a Roma, nella capitale, dove tutto assume un significato particolare, nessuno. Manca, in altre parole, “il” monumento al Carabiniere.

Per comprendere meglio il nostro discorso vale la pena di esaminare brevemente i maggiori e più conosciuti di questi monumenti che, non a caso, si trovano nelle maggiori città italiane: il monumento al Carabiniere di Torino, il monumento ai carabinieri La Rocca, Marandola e Sbarretti a Fiesole, il monumento a Salvo D’Acquisto a Napoli ed il monumento al Carabiniere di Milano.

Quello di Torino è il più antico tra quelli che prendiamo in considerazione e l’unico che risale a prima della II Guerra Mondiale; la sua storia è esemplificativa perché fa coscienti che le esigenze cui accennavamo poco sopra erano già da tempo nell’aria.

Si trova a Torino e non a Roma perché la signora Isabella Occella, Presidentessa dell’Istituto Nazionale per le Biblioteche dei Soldati, volle esaudire un desiderio della sua amica S.A.R. la principessa Laetitia di Savoia che aveva notato la mancanza, dopo la Grande Guerra, di un monumento che ricordasse i Carabinieri Reali, tra tanti dedicati a fanti, alpini, granatieri ecc.

Siamo già nel 1933 e la raccolta di fondi fu veloce e copiosa, tanto che per gestirli si dovette costituire una Fondazione. La scelta di Torino è ovvia, sia se si pensa che era la città originaria dei Savoia che sede dell’Istituto presieduto dall’Occella e popi, non abbiamo timore a ricordarlo, a Roma si respirava un altro clima, che sarebbe stato foriero di nuovi sacrifici per l’Arma.

Anche lo scultore, Edoardo Rubino, era torinese ed una sua frase ci sembra più che sufficiente per commentare l’opera, affermava infatti “di aver cercato di fare un carabiniere com’è, come lo vediamo, come gli vogliamo bene”. Altro commento aggiunto a questa frase ci sembra inutile, piuttosto possiamo rilevare che Rubino abbandonò gli eccessivi modernismi della giovinezza e del periodo in cui si era avvicinato al Futurismo per raggiungere la massima capacità espressiva; le precedenti esperienze si ritrovano nel ripudio di tutto ciò che è inutile allo scopo mentre la formazione nell’Accademia di Torino è visibile nella tecnica che torna in parte ai portati dell’Impressionismo. Questa maturità compositiva fu raggiunta anche attraverso l’esperienza del Monumento ad Umberto I di Roma cui Rubino aveva lavorato dieci anni prima.

La tripartizione del monumento, con al centro ovviamente il carabiniere, non è scontata, anche se sembra tradizionale, perché non ci risultano monumenti moderni così divisi in tre zone di cui la superiore di carattere allegorico rappresenta un ideale giuramento di fedeltà e la più bassa è destinata alla memoria di alcuni dei maggiori episodi scelti tra i tanti della lunga storia dell’Arma.

Passata la guerra di nuovo si sentì l’esigenza di ricordare i sacrifici e gli eroi dell’Arma e non ci riferiamo solo ai sacrifici materiali, che pure arrivarono sino a quello della vita, ma anche a quelli psicologici e spirituali in un momento di diffici e sofferte scelte morali.

L’arte italiana nel dopoguerra si sentì di nuovo libera di procedere nelle sperimentazioni più moderne e ci fu un ritorno, anzi, una ripresa dell’astrattismo degli anni ’20 che va sotto il nome di Espressionismo Astratto, nonché una volontà di rivalutare il valore della materia (l’Arte Povera) che costituisce l’opera, utilizzata ora nelle proprie possibilità intrinseche.

Marcello Guasti fu uno degli artisti che più si impegnarono in queste ricerche acquisendo un’ esperiena personale delle più vaste. In genere il processo compositivo va nel senso di una graduale astrattizzazione dal reale all’ideale, purificand le forme e portandole verso la purezza, un po’ come accadeva nel periodo dell’arte arcaica ellenica. Nel monumento ai carabinieri Alberto La Rocca, Vittorio Marandola e Fulvio Sbarretti, del 1964, il Guasti seguì questo percorso dal punto di vista artistico e compositivo, portando una forma figurativa, la fiamma dell’Arma, a divenire quasi astratta.

L’iscrizione dedicatoria da il significato del monumento in modo chiaro: “Alla fiamma dell’Arma attinsero forza e fede per essere fiamma di umanità e di giustizia”. A queste parole non c’è bisogno di aggiungere altro.

Il monumento è, nel complesso, di aspetto forte, ruvido quasi nella scelta delle superfi e dei materiali, forte, come i tempi in cui si svolsero i fatti e i caratteri dei protagonisti, tempra di combattenti senza compromessi con la propria coscienza.

Anche a Napoli nacque la volontà di ricordare uno dei più popolari tra questi del recente conflitto, Salvo d’Acquisto, tanto sublime nel sacrificio da essere proposto per una canonizzazione. Il monumento, all’epoca dell’inaugurazione, lasciò un poco sconcertato il pubblico più tradizionalista (siamo ancora nel 1971) per l’eccessiva stilizzazione delle forme operata dalla scultrice Lydia Cattone ma si è poi rapidamente inserito negli occhi e nelle menti dei Napoletani.

Per meglio comprenderlo, da un punto di vista artistico, bisogna vederlo o cercare di vederlo in rapporto al palazzo stilizzato e geometrico che gli fa da sfondo, con una luce artificiale o ad un’ora del giorno in cui si possano recepire i trafori sull’acciaio di cui è fatto, illuminati da dietro; allora la pesantezza della grossa lastra metallica diventa un traforo aereo sul quale si staglia la figura dell’eroe in controluce, tesa verso l’alto proprio ad indicare l’alzarsi dello spirito in contrasto alla brutalità dei comportamenti umani.

Un poco troppo sentimentale? Forse, ma consono al modo di essere dei Napoletani come quello di Torino lo era a quello dei Torinesi, e questo certamente era lo scopo della scultrice che in quest’opera abbandonò l’astrattismo puro per rappresentare sulla superficie le scene del martirio del giovane vicebrigadiere; sempre nel suo stile fortemente sintetico, beninteso, ma in modi ben identificabili anche dalla gente comune.

Il quarto monumento di cui vogliamo parlare è stato realizzato da uno dei protagonisti più significativi della scultura italiana del secolo, Luciano Minguzzi, tanto che esiste un museo a Milano dedicato solamente a lui promosso dall’Accademia di Brera, una delle più prestigiose istituzioni culturali italiane in cui Minguzzi aveva insegnato per oltre un ventennio. Della carriera artistica di questa “M” della scultura italiana (le altre sono Manzù, Marini, Messina e Martini) è superfluo parlare e basterà ricordare, tra tante opere, la porta del Bene e del Male a San Pietro.

Il monumento fu inaugurato a Milano nel 1981, quando era vivo il ricordo della Strage di Piazza Fontana ed ancora non si era chiuso il periodo che vide l’Arma contribuire alla lotta al nuovo terrorismo con un altissimo contributo di sangue. Era la prima risposta ai sovversivi e non a caso tra le personalità presenti c’era quel comandante della Divisione di Milano in cui si riposero le speranze della Nazione, Carlo Alberto Dalla Chiesa.

Nella moderna e geometrica Piazza Diaz il Minguzzi interpreta ancora il motivo della fiamma dell’Arma con linee pure, come si addice ad un simbolo, facendole partire da terra perché vadano liberamente nell’aria, trasformandosi da fiamme quasi in vessilli o bandiere, tanto leggere da sembrare, a prima vista di seta piuttosto che di bronzo, specislmente quando la luce è radente. Anche in questo caso un monumento perfettamente adeguato sia all’ambiente che allo spirito moderno e teso al futuro dei Milanesi.

I valori espressi sono così assoluti, ideali e non risentono del momento storico se non nel ricordo della volontà che generò l’opera ma si riferiscono sempre a qualcosa che va oltre il contingente.

E a Roma? Come abbiamo detto all’inzio, in questo momento storico il sentimento nazionale ed i valori su cui si fonda hanno bisogno di essere confermati e di avere dei punti di riferimento. Roma “deve” avere un Monumento al Carabiniere e se le circostanze non l’hanno permesso prima ora la cosa non è più procrastinabile; l’Urbe ne ha diritto, come città in sé e come capitale nazionale. Sappiamo che un monumento sarà presto collocato in una delle piazze di Roma più significative e che rappresenterà questi valori, di cui l’Arma è depositaria, riportandoli storicamente alla loro origine ed all’affetto popolare. Vedremo presto di cosa si tratta, probabilmente prima di quanto i lettori pensino.