Tra le chiese di Tivoli quella di San Giovanni Evangelista,
situata dentro l'ospedale cittadino, non è la più
antica, almeno nell'attuale forma, ma, sotto alcuni aspetti, ha
poco da invidiare alle altre più famose.
Certamente costruita su di un edificio più antico, ha probabilmente
modificato il proprio aspetto in concomitanza con i vari cambiamenti
subiti dal complesso ospedaliero nel corso dei secoli il più
importante dei quali deve essere stato, probabilmente, il passaggio
da lazzaretto ad ospedale, premettendo che, nella mentalità
di una volta, la differenza non era tanto nelle strutture quanto
nel concetto di isolamento, implicito in quello di lazzaretto.
Nella chiesa stessa un quadro, situato sull'altare a metà
della navata unica, sulla destra, indica uno di questi mutamenti
e forse, dal punto di vista medico, il più importante:
infatti il santo rappresentato è proprio Padre Giovanni
di Dio, lusitano, fondatore dell'ordine degli ospedalieri, una
delle prime organizzazioni ad occuparsi dei malati e della loro
assistenza in modo razionale e moderno, senza voler trascurare
l'alto valore civile, morale e religioso della loro opera.
Questo quadro è datato dopo il 1550, anno della morte del
santo e fornisce una prima indicazione per la datazione degli
affreschi per i quali la chiesa è famosa.
Tutto l'abside, tardogotico, l'arco trionfale e i suoi risvolti,
e tutta la fascia superiore della navata sono coperti da questi
affreschi che arricchiscono tutto l'ambiente anche senza bisogno
di particolari decorazioni aggiuntive.
Certamente i più antichi sono quelli dell'abside che, anche
ad un esaminatore superficiale, non mancano di suscitare una certa
ammirazione ma anche delle perplessità, e notevoli.
La volta è caratterizzata da una decorazione delle quattro
vele certamente tardogotica, divisa da arcate arricchite da una
decorazione dorata e caratterizzata da colori così forti
ed accentuati da far ritenere certa una ridipintura in epoche
successive alla primitiva; vista la forza dei colori e la cattiva
qualità delle dorature (in parte finte, almeno nello stato
attuale) certamente ci si è messo mano in tempi relativamente
recenti.
Determinare un'epoca precisa per questi affreschi ci sembra abbastanza
difficile senza documenti, almeno volendo procedere con serietà,
ma il carattere ripetitivo e fisso dei moduli espressi fa propendere
per la prima metà del Quattrocento, visto anche che i portati
gotici, in pittura, non solo non si erano estinti ancora ma, anzi,
costituivano una parte maggioritaria dell'arte fuori dei grandi
centri, dove ancora la gente era attaccata alle forme espressive
più tradizionali.
Problemi ancora maggiori vengono dall'esame degli affreschi sulle
pareti dell'abside laterali all'altare; qui, a destra, è
rappresentata la Vergine in Cielo, su di una nuvola sorretta da
angeli, mentre a sinistra vediamo San Giovanni evangelista che
scrive il suo libro mentre, a destra, una natività di Gesù
raffigura quello che il santo sta scrivendo.
I problemi accennati vengono dalla difficile attribuzione delle
figure almeno ad una scuola, se non ad un autore.
L'attribuzione tradizionale, indicata anche all'esterno della
chiesa, è per Antoniazzo Romano, ma già il Venturi
aveva indicato un possibile autore in Melozzo da Forlì,
il grande teorico della prospettiva.
Il fatto è che, ad essere sinceri, Antoniazzo Romano era
effettivamente capace di tutto, visto che la sua fortuna consisté
nell' aver riproposto in forma prospettica e moderna (per l'epoca)
le antiche immagini popolari del Lazio e di Roma, ma qui la cosa
sembra valida, al massimo, per la volta e l'immagine della Madonna
a destra, mentre le figure di santi sotto la Vergine, il paesaggio
(meno) ed il San Giovanni a destra sono decisamente più
umanistici di quanto egli fosse solito fare.
In poche parole si tratta di un autore tecnicamente assai abile
ma incapace di quell'originalità creativa che, comunque,
si deve riconoscere ad Antoniazzo.
Ancora diverso è il discorso per la fascia di affreschi
della navata, posteriore di almeno un secolo il cui autore si
è palesemente ispirato al Michelangelo della volta della
Cappella Sistina che viene imitato sia nelle figure che nella
tematica dei profeti e delle sibille.
Gli episodi della vita di San Giovanni sono presentati come se
fossero tele incorniciate tra figure in piedi, tranne tre, attorno
ai quali sono stati dipinti dei tendaggi tirati di lato od abbassati,
come se questi quadri, a differenza degli altri, fossero stati
tenuti abitualmente coperti.
A guardar bene questi tre episodi sono, stilisticamente, della
stessa persona che ha dipinto la maggior parte delle figure inferiori
a destra dell'altare; in particolare modo la resurrezione sopra
l'arco trionfale è chiaramente ispirata a Piero della Francesca,
tanto da essere, nella figura del Cristo, quasi una copia,e se
anche alcune posizioni si avvicinano a quelle di Melozzo si deve
considerare che anche lui, talora, si ispirò a Piero del
quale fu allievo.
I finti tendaggi sono un espediente per distinguere i nuovi affreschi
dai vecchi che, evidentemente, non si volevano cancellare.
Insomma, almeno tre artisti, ognuno dei quali si è innestato
sull'opera dell'altro senza cancellarla, anche, sicuramente, per
motivi economici; non ci si deve dimenticare che il committente
non era ricco e comunque, se aveva delle disponibilità,
doveva impiegarle anzitutto per la salute, anche fisica oltre
che spirituale, degli assistiti dell'ospedale allora, anche più
che oggi, poveri.
A questo punto proponiamo una soluzione al dilemma Antoniazzo-Melozzo
(ci si passi la rima): perché non supporre un intervento
di entrambi i maestri, la cui collaborazione è attestata
dal 1475 al 1481 nella Biblioteca Vaticana assieme al Ghirlandaio?
In questo periodo, quando Melozzo da Forlì venne a Roma,
Antoniazzo Romano, non aveva ancora formato il proprio stile ed
era ancora molto vicino alla pittura tardogotica di Benozzo Gozzoli
mentre a sua volta Melozzo era ancora sotto l'influsso di Piero
della Francesca.
Si spiegherebbero così le forti dipendenze di ognuno dei
due dai rispettivi maestri e la mancanza di uno stile preciso,
nonché, come abbiamo già detto, la presenza evidente
di due mani diverse sullo stesso affresco.
La tradizione che voleva la presenza di Antoniazzo Romano rimane
così rispettata e, anche se non era sostenuta da documenti,
aveva comunque una sua validità e senza dover negare la
presenza di un seguace di Piero della Francesca che già
un'acuta osservazione di Lionello Venturi aveva identificato con
Melozzo da Forlì.
Questi affreschi rappresenterebbero, insomma, il momento in cui
i due maestri,ancora non si erano liberati degli influssi precedenti
cosa che avvenne, come si sa, dopo il periodo della loro collaborazione
alla Vaticana.
Un problema maggiore, forse, sarà l'identificazione del
michelangiolesco decoratore della navata; tenendo conto, come
si è già detto, che non vi è traccia di influssi
del Giudizio Universale, la data deve essere necessariamente collocata
tra il 1513, dopo la fine della volta della Sistina, ed il 1536,
prima dell'inizio del Giudizio Universale.
Ne risulta anche confermata il 1550, già indicato nel quadro
di San Giovanni di Dio come data della sua morte,è un termine
ante quem, supponendo che il quadro di San Giovanni di Dio sia
stato collocato durante dei lavori fatti per la modernizzazione
dell'ospedale mentre era vivo.
Queste date coincidono con quelle di alcuni graffiti cinquecenteschi
sulle pareti a destra dell'altare fatti, apparentemente, da religiosi
e non da turisti, scoperti dal signor Alfredo Cipriani.
Malgrado la difficile lettura in una si legge: "HIC FUIT
PAULO ZARO.....1537"e nell'altra: "1538....Aprile HIC
FUIT Hieronimus De Sebastianis".
Queste date, come si vede, coincidono con quelle supposte di stesura
degli affreschi superiori della navata centrale, supponendo che
i due visitatori fossero andati, appunto, a vedere le nuove pitture
delle quali, a suo tempo, si sarà certamente parlato anche
a Roma.
Purtroppo sulla parete destra della navata si notano dei guasti
abbastanza gravi dovuti a infiltrazioni d'acqua.
Restauri eseguiti devono aver bloccato le perdite del tetto, tra
l'altro sono state scoperte le figure duecentesche di due santi
che facevano parte di una decorazione precedente, chiara testimonianza
che la forma della chiesa era tale già molto tempo prima;
sono anche stati lasciati scoperti dei tratti di muro preparato
a scalpello per darci sopra l'intonaco, forse scambiati per una
parete primitiva; se si rompessero tutti i muri di una volta,
sino al secolo scorso, sarebbero tutti cosi.
A questo punto è superfluo dire che ci sembra indispensabile
riportare il tutto ad uno stato di maggiore leggibilità
con un restauro adeguato.
La bellezza della chiesa vale molto di più del semioblio
cui l'hanno condannata, anche senza volerlo, i tivolesi, che però,
questo difetto, sembrano averlo un po' troppo spesso.
Una particolarità è la presenza, nell'affresco
a sinistra dell'altare, di una figura femminile che si sporge
tra i monti dello sfondo, palesemente sproporzionata, visto che
è grande come un albero, questo potrebbe indicare un'aggiunta
successiva, fatta in un posto dove non si guastassero i personaggi
in primo piano.
Il quadro, probabilmente, indica l'assunzione di Maria in cielo,
vista anche l'espressione di estatica meraviglia proprio della
figura di San Giovanni, inginocchiato al centro; in tal caso gli
altri personaggi sono gli apostoli, ma sinceramente la santa dello
sfondo, con una cinta aperta in una mano e l'altra che tiene le
dita aperte nel gesto delle corna (sic) non fa parte del nostro
pur vasto repertorio iconografico.
Cerchiamo di formulare qualche ipotesi analizzando il gesto e
notiamo anzitutto che una cintura rappresenta, simbolicamente,
il cinto verginale, l'imene, e che, se chiusa, ne indica l'integrità.
Esempi di quadri matrimoniali con questa simbologia sono stati
recentemente identificati ed esposti alla mostra fatta in occasione
dell'Amor Sacro ed Amor Profano di Tiziano; in questo caso però
è aperta, indicando chiaramente il contrario.
L'unica santa contemporanea di San Giovanni, non vergine, e di
cui parlino i vangeli e Maria Maddalena, che la tradizione identifica
con la prostituta del pozzo; forse a questa professione è
da connettere il popolaresco gesto delle corna, anche se è
la prima volta che lo troviamo.
Si è lasciato di proposito, sino ad ora, di parlare della
chiesa di Sant'Antimo che si trova su di un'altura, dopo una breve
salita, prima di entrare in paese e che da sola merita un viaggio.
Questa è un piccolo capolavoro, la cui struttura di base
è di epoca ottoniana, o almeno la parte principale di questa;
il pergamo è infatti del X secolo, ma l'uso di colonne
romane per separare le tre navate può far supporre un edificio
ancora anteriore. Le colonne vengono da costruzioni differenti,
anche se probabilmente non lontane, e le loro altezze, non eguali,
furono compensate fornendole di basi di differente misura.
Bei resti di pavimentazione cosmatesca originale si trovano dentro
e attorno al pergamo; non ci si stanca mai di stupire della fantasia
e delle capacità inventive di questi artigiani che, tagliando
piccoli pezzi di marmo prelevati dagli edifici antichi, componevano
riquadri sempre simmetrici e mai uguali tra loro.
Nell'abside spiccano, tra il biancore delle pareti, affreschi
della scuola di Antoniazzo Romano (Antonio Aquili, attivo nella
seconda metà del XV secolo circa) rappresentanti la Vergine
tra quattro Apostoli e, più in alto, l'Incoronazione della
Madonna. La qualità della parte inferiore è tale
da rendere quasi certa l'attribuzione al maestro e si può
anche pensare ad un'opera della maturità , dato che sono
ben riscontrabili gli influssi di Melozzo da Forlì, con
cui Antoniazzo aveva collaborato nella Biblioteca Vaticana. Le
complesse costruzioni prospettiche di Melozzo sono quì
tradotte in una sorta di polittico vagamente arcaizzante e decisamente
arcaica è la struttura della parte superiore, quella con
l'Incoronazione. Antoniazzo portò nei paesi e nelle campagne
del Lazio i modi dell'arte (allora) contemporanea, ma dolcemente,
senza provocare traumi nelle popolazioni che erano, certamente,
affezionate alle loro tradizioni figurative e non avrebbero compreso
facilmente i complessi significati esoterici dell'avanguardia
dell'epoca. Un'opera di divulgazione, insomma, che va considerata
meritoria se si tiene conto dell'arretratezza delle campagne.
L'esterno della chiesa è caratterizzato lateralmente da
una costruzione muraria particolarmente elegante, certo successiva
ed aggiunta alla primitiva; il perchè deve essere connesso
alla necessità di consolidare una situazione precaria delle
strutture, tanto è vero che il piccolo portico anteriore
è stato aggiunto alla facciata originaria, ancora visibile
all'interno con tanto di due contrafforti ai lati della porta.
Sempre ai lati della porta due mensole di pietra per le lanterne.
Nell'Alto Medioevo si preferiva sostenere o riporre gli oggetti
servendosi di mensole di pietra piuttosto che di costoso metallo,
la manodopera necessaria non era considerata rilevante.
La chiesa è probabilmente del XV secolo, come gli affreschi
più antichi che la decorano e che sono situati nella parete
dell'ingresso.
Tra questi si vede, a sinistra guardando l'ingresso, un'immagine
della Vergine con Bambino collocata su di un albero, tra i santi
Antonio di Padova e Sebastiano, gli altri, sinceramente, erano
troppo al buio per permetterci di decifrarli convenientemente.
Visto che sono entrambi santi assai diffusi, nel culto popolare,
nel '400 per motivi ideologici vari la prima datazione proposta
per l'edificio ci sembra esatta, a parte la corrispondenza con
lo stile già prospettico ma legato alle forme popolari
gotiche del Lazio che Antoniazzo Romano diffuse nell'epoca a partire
dalla chiesa di San Giovanni a Tivoli; la considerazione che viene
spontanea che Sant'Antonio morì nel Trecento e che, perciò,
non può essere rappresentato in affreschi di questo secolo
non è valida, visto che fu canonizzato nel 1332, dopo soli
undici mesi dalla morte, caso più unico che raro.
Allora i Santi erano rari, veri esempi di vita cristiana, come
i miracoli, che avevano sempre un preciso significato, tanto che
quando ne avveniva uno anche in un piccolo paese si trovavano
i mezzi per celebrarlo degnamente; in effetti, se si contano il
numero di santi e di miracoli che sono avvenuti nella valle dell'Aniene
e si pensa che da San Benedetto in poi sono passati circa 14 secoli
si vedrà che ne ce ne sono stati circa uno ogni due - tre
secoli; fortunati noi, che abbiamo visto canonizzare, in questi
ultimi anni, centinaia di santi e piangere altrettante statue
della Madonna!
Al massimo, nel tempo quando una comunità raggiungeva un
certo grado di indipendenza e di maturità, sorgeva qualche
leggenda attorno ai simboli del culto particolare che la contraddistinguevano.
In chiesa si possono ammirare i resti degli affreschi antichi,
del XIII secolo almeno e di scuola romana. La nudità e
il chiarore delle pareti sottolineano quanto rimane di colore
e malgrado il passare dei secoli ancora si possono ammirare sfumature
ed espressioni dei volti. Lo stile originario si è mantenuto
malgrado le rodipinture e mostra di essere opera di un maestro
capace ed autonomo rispetto alle altre botteghe romane. Si possono
osservare, ad esempio, tutti i diversi volti degli angeli nei
vari riquadri a proposito dei quali va notato che sono divisi
da colonne e pilastri e non da cornici, con accenni di prospettiva,
fatto unico in quest'epoca e riscontrabile solo molto più
tardi, che colloca questo pittore in una netta avanguardia rispetto
ai contemporanei. Avanzando nella chiesa ci si accorge ad un tratto
di essere passati sotto un arco trionfale riccamente decorato,
questo perché in tempi più antichi l'ingresso principale
era dall'interno del monastero e l'attuale facciata era l'abside.
Questa inversione fu fatta nel XVII secolo, epoca dei due affreschi
laterali, dei quali la Crocefissione combina anche pittura e scultura
assieme, e degli archi a sesto ribassato della facciata, forse
dopo l'abbandono del monastero da parte dei Serviti che erano
succeduti ai Benedettini.