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AWMR Italia - Associazione Donne della Regione Mediterranea

Lia Amato - Consiglio Regionale dell'Emilia-Romagna
Missione di pace in Palestina del 13-20 aprile 2002


    Lia Amato - President Yasser Arafat
Lia Amato - Yasser Arafat
La terza settimana di aprile sono stata in missione di pace in Palestina in rappresentanza del Consiglio regionale dell'Emilia-Romagna.
La delegazione di cui ho fatto parte era composta da 39 italiani, in rappresentanza di 25 enti locali un po' da tutt'Italia e di diversi partiti.
Eravamo in rappresentanza del coordinamento gli enti locali per la pace, di Anci, Upi e FMCU (Federazione Mondiale delle Città Unite).

La settimana in questione ha coinciso forse con il periodo più duro dell'attacco da parte dei soldati israeliani dei territori occupati di Gerusalemme e della Cisgiordania. Non eravamo nemmeno tanto sicuri di riuscire ad entrare, cosa che è successa ad altre delegazioni prima e dopo di noi che sono state respinte alla frontiera. Grazie alla nostra Ambasciata e alla cautela nel citare solo organismi israeliani nel nostro programma di visite, siamo comunque riusciti ad entrare.

Lo scopo istituzionale della nostra missione era di verificare direttamente le condizioni dell'occupazione militare, dei check point e del coprifuoco che a Ramallah, Betlemme e Jenin si protraeva ormai da tre settimane, ma soprattutto era di far sentire la nostra presenza e portare la nostra solidarietà a queste popolazioni straziate dalla guerra. Abbiamo trovato il Console italiano e l'Ambasciata in uno stato di estrema inquietudine poiché, in palese violazione del diritto internazionale sancito dalla convenzione di Ginevra, ai nostri agenti consolari era stato negato l'accesso ai cittadini italiani con passaporto italiano residenti nelle zone soggette a coprifuoco. In queste zone, come ci hanno detto, era particolarmente difficile far giungere aiuti umanitari per fornire alla popolazione acqua, cibo e prodotti sanitari. Altissimo in queste condizioni era anche, ci hanno detto, il rischio di epidemie.

La missione si è svolta quindi in condizioni difficili, ma pienamente e intensamente. Tutti quanti abbiamo incontrato le massime autorità italiane: il Console che ha autorità sui territori palestinesi, e l'Ambasciatore italiano a Tel Aviv, che è il referente per lo Stato israeliano. Siamo riusciti ad avere una serie di incontri istituzionali molto significativi con le principali autorità religiose cattoliche, come il patriarca latino di Gerusalemme Michel Sabbah, il custode del Santo Sepolcro Giovanni Battistelli, e il Nunzio Apostolico Pietro Sambi. Abbiamo incontrato il negoziatore degli accordi di pace, esponente del Labour Party ed ex ministro della giustizia Yossi Beilin; i rappresentanti della comunità ebraica di origine italiana a Gerusalemme; le associazioni degli enti locali israeliana e palestinese. Abbiamo incontrato due associazioni di donne pacifiste una israeliana e l'altra palestinese che da alcuni anni lavorano faticosamente in un progetto comune per ristabilire la pace. Siamo insomma entrati in contatto con coloro che in questo clima lottano per mantenere aperto un dialogo politico e istituzionale fra le due parti. Poi, dividendoci per gruppi sempre più piccoli, un po' per praticità e un po' per realizzare al meglio i nostri obiettivi, ci siamo addentrati fino a Gaza, o nei territori vietati di Ramallah e Betlemme.

Per comodità di relazione uso il plurare "noi", anche se come dicevo per praticità e per trarre il massimo vantaggio dalla nostra visita dopo i primi incontri sempre di più i 39 ci siamo divisi in vari sottogruppi sempre più piccoli, resi attivi e solidali, sovrastati da questa orribile realtà di guerra che, credetemi, dal vivo è tutt'altra cosa da quando ne vediamo quotidianamente le immagini in televisione. Cercherò il più possibile di riferirvi con le parole che loro stesse hanno usato il messaggio di dolore e di richiesta di solidarietà che tutte le persone incontrate ci hanno affidato.

A Tel Aviv, dicevo, superiamo i controlli senza troppe difficoltà. Fuori dall'aeroporto vediamo che domina con insistenza il numero "54". Il 17 aprile, si festeggia infatti il cinquantaquattresimo anniversario di Israele e ogni lampione, quasi tutte le auto con targa gialla israeliana e moltissimi palazzi hanno le bandiere nazionali bianco-celesti. Ma percorrendo la strada verso Gerusalemme, cioè non la superstrada ma la vecchia strada agibile anche dai palestinesi, oltre a vedere i segni e le cicatrici di conflitti vecchi e nuovi si percepisce visivamente l'impressionante frammentazione del territorio palestinese, l'isolamento e la disgregazione causata dagli insediamenti, quelli già realizzati o ancora in corso, come ci verrà confermato nel corso dei nostri incontri. Sembra di riconoscere dalla geografia del luogo la perversa strategia di un potere impazzito.

Il primo incontro è con Michel Sabbah, patriarca latino di Gerusalemme, una delle figure più rappresentative dei circa 150 mila cristiani che vivono qui ed esponente di primo piano della "gerarchia" vaticana. Sabbah è di origini palestinesi, ma visto il suo ruolo ogni sua parola è pesata. Sabbah e altri esponenti religiosi hanno appena incontrato Colin Powell, l'inviato statunitense, e ci dicono di essere stati tutti concordi nel ricordargli che il terrorismo palestinese e le violenze dell'esercito israeliano sono un effetto e non una causa e che, se si vuole sradicare davvero ogni tipo di violenza, bisogna risalire all'origine, alla miccia, che è l'occupazione (35 anni fa) dei territori palestinesi. Sabbah dice che anche Sharon non rispetta i civili palestinesi, cioè usa quel linguaggio terrorista che rimprovera agli altri. Poniamo una questione-chiave: cosa rispondere agli israeliani che dicono d'aver paura, che chiedono sicurezza? Sabbah risponde: "è vero, la maggior parte dei cittadini d'Israele ha paura oggi ma sta scegliendo la strada sbagliata per uscirne. Dal '67 a oggi le rappresaglie non hanno eliminato il terrorismo nè la resistenza. Esiste poi un fatto nuovo: dal 1988 quasi tutti i Paesi arabi riconoscono lo Stato d'Israele. Dunque la responsabilità dei capi israeliani è grande nel dipingere tutti i palestinesi come terroristi e neppure far cenno ai loro diritti negati". Eppure il patriarca sembra ottimista e pensa che se Israele farà giustizia, restituendo le terre tolte, qui si potrà vivere in pace. "Ma bisogna smantellare gli insediamenti dei coloni e lo si può fare, come già accadde nel Sinai". Qualcuno chiede a Sabbah: "Ma quando parlano solo le armi, ha ancora senso l'impegno a costruire relazioni e progetti?" Sabbah risponde: "Oltre a sostenere un'azione politica per la pace, nell'immediato servono soprattutto gli aiuti cosiddetti umanitari, insomma i viveri e i medicinali tipici di ogni emergenza o catastrofe. Stanno già arrivando e in circostanze simili occorre rapidità e coordinamento in modo insomma che non ci sia il campo profughi, il paese o l'ospedale che ha tutto e quello accanto senza nulla". Ma subito precisa: "Passata questa fase, bisogna però riprendere i progetti dal basso e ricostruire la fitta rete di rapporti internazionali. Ma questo… certo voi lo sapete molto meglio di me". Nei confronti dei soldati israeliani il patriarca ha pronunciato parole dure: "uccidono, demoliscono, rubano tutto…" ci ha detto, "non c'è limite che rispettino in questa guerra d'uno Stato potente contro un popolo senza esercito". E ha detto frasi nette contro il terrorismo, ribadendo che "la violenza di nessuno contro nessun altro risolverà qualcosa" ma precisando che il paragone con l'Afghanistan è insensato, perché "qui il problema di fondo resta la libertà di un popolo non il terrorismo". A temperare lo sguardo ottimista che Sabbah volge sul futuro c'è grande preoccupazione per il presente: ci dice infatti che "Peres per la pace non esiste più" e che "purtroppo questi giorni terribili stanno portando consenso a Sharon, che non è uomo di pace".

Il giorno dopo incontriamo a Gerusalemme il console italiano Gianni Ghisi. Il console si è detto convinto che la nostra presenza qui sia importante, che possa dare un contributo "per incrinare il muro d'odio". E aggiunge, confermando quanto abbiamo sentito anche dall'Ambasciatore che "da un punto di vista giuridico e diplomatico è gravissimo che mi sia stato negato il permesso di incontrare cittadini italiani residenti nelle città palestinesi". La sua valutazione (ormai ampiamente condivisa purtroppo) è che a Jenin e a Nablus già si sia alla catastrofe. Il console e Antonio Aloi, direttore dell'unità tecnica di cooperazione italiana in Palestina, sperano da un momento all'altro di poter portare gli aiuti umanitari, tante volte respinti, a Betlemme isolata da oltre 15 giorni. Qualcuno di noi si offre di accompagnarli e aiutarli, cosa che ci riuscirà di fare nei giorni successivi. Ghisi ci ricorda che c'è anche un forte rischio epidemiologico per la mancanza d'acqua che crea ovunque cause di infezioni molto pericolose.

Aspettando gli incontri con israeliani e palestinesi, a più riprese abbiamo avuto contatti con i numerosi pacifisti che si trovano lì per tentare d'arginare le violazioni dei diritti umani o quantomeno denunciarle, che si propongono d'aiutare il dialogo tra le forze di pace dei due popoli. Francesi, canadesi, molti statunitensi, brasiliani, spagnoli, tanti italiani, persino due islandesi: molti di loro sono organizzati e magari hanno progetti di lunga data, altri arrivati qui come "ossservatori". Tutti meriterebbero lunghi racconti, di essere affiancati oppure di avere un "cambio" per continuare questo lavoro prezioso. Tutti credono alla costruzione di una staffetta di pace che di fatto esiste già. Tutti girano senza armi anche dove si spara eppure a vederli in azione talvolta viene da credere che siano invincibili.

Domenica pomeriggio incontriamo Padre Giovanni Battistelli, il "custode del Santo Sepolcro", altra figura di primo piano della Chiesa cattolica. In altra forma ripeterà ciò che avevamo ascoltato da Sabbah ma pone ancor più l'accento sul timore che Israele voglia tutto e che il suo unico obiettivo sia cacciare da qui tutti i palestinesi. Ci ha ricordato che "Mentre a Oslo si parlava di restituire i territori, raddoppiavano gli insediamenti dei coloni".

Lunedì torniamo a Tel Aviv per due incontri con il variegato arcipelago israeliano per la pace. Il primo è con Yossi Beilin, negoziatore degli accordi di pace, ex ministro della Giustizia che s'è rifiutato di sostenere il governo di "unità nazionale" a guida Sharon. E' considerato la super-colomba del Labour Party e sostiene l'uscita dal governo Sharon, cosa di cui ha convinto per ora circa un terzo del partito. Ci ha detto: "La prima ragione di questa tragedia che stiamo vivendo è forse non aver capito che l'opinione pubblica di entrambi i Paesi non era pronta alla pace. Abbiamo ragionato dall'alto degli accordi internazionali senza impegnarci con la gente, nell'agire quotidiano. Oggi l'odio e la convinzione di entrambi d'essere nel giusto bloccano tutto ma è da qui, cioè dai rapporti umani, che bisogna comunque ripartire. L'idea pace in cambio di territori sembrava funzionare, ma il collasso economico delle zone palestinesi e il terrorismo anti-israeliano hanno generato frustrazione, rabbia e paura fra entrambi. Poi la passeggiata di Sharon, il 28 settembre, ha fatto esplodere tutto. Oggi grandi gruppi di persone, da una parte e dall'altra, non credono più alla pace. E Sharon non crede a nessuno, tranne a se stesso. D'altra parte anche Arafat continua a presentarsi come un generale. Io penso sia un leader difficile: non un terrorista però. Arafat è disponibile a usare sia la forza che la politica ma a volte non sembra capir bene la differenza. Il suo più grande errore è stato non capire che il governo precedente era disposto a offrire molto, anche se forse non era ancora abbastanza. Noi avevamo detto di essere pronti a ritirarci dai territori (o almeno dal 90 per cento)", precisa, "mentre Sharon non lo farà. Lui vuole che una piccola Palestina, senza alcun potere, nasca fra 5, 8, 10 anni. Ci sono tre cose da fare. La prima è che noi abbiamo bisogno di opinioni pubbliche che non si leghino a leader idioti. La seconda necessità è che gli Usa e il mondo aiutino i palestinesi, con osservatori internazionali. "Dopo di che aggiunge:" La terza cosa necessaria è una nuova conferenza internazionale. Sharon non vuole Arafat ma io credo che nessuno possa decidere chi è il capo d'un altro popolo". Nel rispondere alle domande Beilin spiega fra l'altro cos'è la "coalizione della pace" e come ormai i pacifisti palestinesi (per la verità si tratta degli arabi che sono cittadini in Israele, non quelli dei territori occupati nel '67) lavorino insieme a loro. Aggiunge che a garantire il bisogno di sicurezza israeliana potrebbe essere utile l'arrivo di truppe della Nato o che Israele fosse ammessa nell'Alleanza.

Le opinioni di Beilin sono condivise solo in parte dalle tre pacifiste israeliane, che incontriamo poco dopo: sono Yehudith Harel, del "Blocco della pace", Aliyah Strauss della "Lega internazionale delle donne per la pace" e una terza portavoce di intellettuali e artisti della coalizione pacifista. Dice Yehudith Harel che l'esercito israeliano in queste settimane si sta macchiando di atrocità mai commesse in 35 anni di occupazione, che il governo fa retorica sul terrorismo ma in realtà è impegnato soprattutto a distrruggere ogni realtà organizzata palestinese sul piano economico, culturale, sociale. "Non sono io a dire ciò ma se ne vantano quegli estremisti religiosi entrati nel governo di Sharon dove già c'era il laburista Peres". Sostiene ancora la Harel: "E se in qualche momento un accordo politico sembra avvicinarsi ecco subito l'esercito israeliano pronto a gettare benzina sul fuoco con esecuzioni extra-giudiziali, ovvero omicidi contro esponenti palestinesi. Nè va dimenticato che le prime proteste di questa seconda Intifada sono pacifiche o al massimo vengono usati sassi mentre da subito i soldati israeliani rispondono sparando e uccidendo. E fin dall'inizio i bulldozer spianano case o zone agricole. Così oggi i palestinesi sono segregati in 280 zone isolate fra loro. Esistono prove e testimonianze che fin dall'inizio distruzioni, abusi, persino furti (dei soldati) vengono tollerati, forse incoraggiati o addirittura pianificati. Uno dei fatti più gravi è il divieto a soccorrere i feriti". Sul da farsi, la sinistra e l'arcipelago pacifista sono divisi, confessa la Harel: "Una presenza internazionale forse, ma non degli Usa che si sono dimostrati di parte… Questo, sia chiaro, serve solo a fermare la guerra per poter poi riprendere il processo di pace". A una domanda risponde: "In tutti questi anni anche noi della sinistra israeliana abbiamo imbrogliato i palestinesi. Sotto Rabin e Barak si parlava di pace e intanto raddoppiavano gli insediamenti dei coloni". Aliyah Strauss ragiona sul perche' gli israeliani siano così ciechi, su come i massmedia imbroglino. "Ora che la destra più estrema è al potere" dice "io ho paura". Anche la terza donna si muove su un'analisi simile, forse un poco più ottimista rispetto alle altre due rispetto alla mobilitazione pacifista che lei vede in crescita.

Personalmente ritengo che ci sia un dato molto importante da rilevare ed è che la prima linea di questo "fronte" per la pace è marcatamente femminile. Martedì incontriamo a Gerusalemme le israeliane del centro di Bat Shalom (che tradotto significa "figlia della pace") e le palestinesi del Jerusalem Center of Women. Sono due centri, uno israeliano e l'altro palestinese, che sono le due parti di un progetto comune che si chiama Jerusalem Link. Lavorano assieme da tempo fra numerose difficoltà. Insieme hanno pubblicato un libro dal titolo "Sharing Jerusalem" (condividere Gerusalemme) sul nodo non sciolto di Gerusalemme che nel libro viene proposta come capitale per due popoli e per due Stati. Nate e cresciute nella nuova fase del conflitto sono giunte non senza difficoltà interne a una mediazione su temi grandi e difficili quali la violenza, l'occupazione, il terrorismo. Dopo anni di questo difficile lavoro comune hanno raggiunto un accordo. Presupposto di questo accordo è il riconoscimento di essere una la parte che occupa e l'altra la parte che è occupata.

Prima Terry Greenblat, direttrice, e poi Judith Blanc (presidente) del centro di Bat Shalom raccontano come l'incontro "con l'altro" sia il miglior antidoto al nazionalismo e alla paura. Anche se, precisa: "Quando siedo vicino alla palestinese Amneh, devo ricordarmi che io sono un'occupante e lei è un'invasa". Ci sta parlando della differenza fra violenza e terrorismo, quando un'emergenza la costringe ad andare via e noi continuiamo a parlare con Judith Blanc. E' un'antropologa, ora pensionata che dagli anni '70 lavora con i palestinesi. Ci dice che non è stato facile arrivare a una posizione comune con le donne palestinesi e soprattutto il futuro di Gerusalemme restava un tema tabù in ambedue gli schieramenti; ma dopo tre anni di lavoro comune e discussioni a largo raggio hanno raggiunto un'intesa che si basa sull'idea che Gerusalemme possa essere capitale dei due Stati. Ovviamente quello che accade mette in pericolo il lavoro di anni e bisogna in un certo senso ripartire. "Le nostre sorelle palestinesi sono arrabbiate con noi perchè non riuscivamo a rafforzare le relazioni con loro". Torna anche qui la convinzione che i massmedia non dicano la verità e infatti per pubblicare il comunicato congiunto, ci dice, "siamo costrette a pagare un'inserzione, altrimenti non scriverebbero neanche una riga". Il dialogo si prolunga, le domande sono spinose. Molte senza una risposta certa, per noi come per Bat Shalom. Su tutte una: si può tornare alla pace, e come, se "le maggioranze" oggi non ci credono più?

Qualche ora dopo siamo nel Jeusalem Center of Women. Amneh Badran è "l'invasa", la direttrice di questo centro delle donne palestinesi che viene sostenuto economicamente anche dalla Comunità europea. Ci racconta dei loro programmi di empowerment e come siano arrivate alla collaborazione con Bat Shalom. Rispondendo a una nostra domanda sul suo passaporto ci risponde che essendo nata dopo il '67, essa risulta una residente permanente e così dichiara il suo "documento di viaggio", ma che non possiede un passaporto perchè non si può definire israeliana o palestinese. Se il caso, una scelta o la forza la costringesse a lasciare Gerusalemme per oltre 7 anni perderebbe il diritto di tornarci e diventerebbe "giordana". L'esempio le serve per spiegarci come per quel che riguarda Gerusalemme i governi israeliani siano astuti e preferiscano non cacciare con la forza i palestinesi… ma costringerli ad andarsene. Resta il fatto che la politica "demografica", gli insediamenti dei coloni e il degrado in cui è lasciata la parte araba, dicono che questa città fra pochi anni vedrà comunque i tanti palestinesi ridotti a un'infima minoranza. Mentre la chiacchierata con Amneh Badran tocca i punti cruciali (cosa sia il terrorismo, come costruire fiducia, le drammatiche urgenze di questi giorni e le speranze per il futuro) arriva una cattiva notizia: in questa parte della città sta per scattare il coprifuoco, entro mezz'ora bisogna andarsene se non si vuole restar bloccati. La notizia è davvero cattiva perché a Gerusalemme non succedeva da anni; sapremo poi che il coprifuoco annuncia un rastrellamemento.

Per ragioni pratiche ci dividiamo sempre di più in micro-gruppi Nel pomeriggio alcuni di noi incontrano a Gerusalemme anche Nouhelbeh Shari, dell'ufficio pace dell'Autorità nazionale palestinese. Con lui si ragiona del progetto di raccogliere almeno mezzo milione di firme contro l'occupazione dei territori palestinesi e di organizzare per il 28 giugno una grande catena umana lungo i confini. Insiste: "dovete venire in tanti dall'Europa, per noi è fondamentale". Pessimista sul futuro immediato, eppure Shari ripete: "Non esiste altra via che parlare con la maggior parte della popolazione, spostare l'opinione pubblica a favore della pace. Però esistono idee diverse anche fra i palestinesi: alcuni pensano che ora non c'è più spazio per trattare, che l'unica risposta sia la lotta o addirittura il reagire militarmente colpo-su-colpo".

Incontriamo anche il dottor Isam Akel, direttore dell'APLA, l'associazione degli enti locali palestinesi, che ci parla di questa struttura nata da un progetto di una ONG olandese, con ha sede a Ramallah e il cui presidente è eletto da 360 municipalità. Akel ha chiesto che venga indetta appena possibile, eventualmente in Italia, una conferenza internazionale delle città da realizzare in collaborazione con la IULA e con la FMCU nell'arco delle successive 6-8 settimane per la valutazione dei danni. Sottolinea l'attuale difficoltà di tale valutazione, cita almeno 5 municipi completamente distrutti, Betlemme, Ramallah, Betsaur, Anapta e Acraba, e insiste sull'urgenza di organizzare la ricostruzione. L'ANCI ha manifestato la disponibilità ad ospitare tale conferenza dopo l'estate.

In serata dovremmo incontrare anche Sergio Yahni: è il co-direttore dell'Alternative Information Center e "refusnik", ovvero uno dei "riservisti" che rifiuta di prestare servizio nei territori palestinesi. Ma è lui stesso, con altri pacifisti israeliani, a farci scendere sul terreno più concreto della solidarietà, invitandoci a protestare contro un chek point. Il coprifuoco infatti serve a coprire il rastrellamento e addirittura l'azione dei bulldozer contro il villaggio palestinese di Al Eisawiyeh, alle porte di Gerusalemme: il tam-tam dei pacifisti israeliani invita lì per passare la notte con i palestinesi, bloccati lì da ore, preoccupati per quanto accade nelle loro case, poco lontano. Molti di noi vanno alla protesta. Ragioniamo su come la piccola violenza di bloccare le persone per ore, che in certe parti dei territori palestinesi va moltiplicata per 300 giorni l'anno, già da sola farebbe impazzire chiunque, ma è evidente che non serva a nulla contro i terroristi.

Una parte di noi 39 sceglie – con una decisione personale, proprio per non coinvolgere l'intera delegazione italiana -- di avventurarsi nei territori palestinesi "vietati", spesso riuscendo a raggiungerli e talvolta fallendo, come a Jenin. Anche questa volta, lo scopo è soprattutto "istituzionale". Prendere cioè contatto con la partnership di progetti avviati e stabilire un contatto diretto con la situazione di estrema emergenza di quei territori.

Il mini-gruppo napoletano e salernitano arriva all'ospedale di Ramallah per consegnare di persona i soldi raccolti per questa emergenza. C'è chi va nell'accampamento beduino Wadi Abu Hindi (qui 33 Comuni della provincia di Torino sostengono un piano di scolarizzazione) e si trova a due passi da una sparatoria. E ancora c'e' il presidente della Provincia di Pisa, che con altri arriva a Hebron , mezzo milione di abitanti, dove non solo è difficilissimo entrare e uscire ma molti si aspettano da un momento all'altro l'assalto "finale".

Insieme ad altri 8 italiani, due volontari americani che si sono fermati lì e a una giornalista di El Pais improvvisiamo un mini-convoglio umanitario per l'ospedale di Rammallah. Non è un viaggio comodo, parte della strada è da fare a piedi su strade tutt'altro che comode, ma serve per recare insulina e pezzi di ricambio per ambulanze all'ospedale di Ramallah. Ci arriviamo per vie diverse dal gruppo citato sopra ma uguali sono i disastri che vediamo. Qui parliamo con il direttore del centro di emergenza traumatologica, nato nel '96 con una sottoscrizione di un milione di dollari tra gli abitanti di Ramallah. Ci dice che qui per i medici si presenta il problema non secondario di saper intervenire su nuovi tipi di ferite provocate da armi nuove ad effetti molto più devastanti. C'è il problema grave che a causa del divieto di uscire, dato che i soldati sparano anche alle ambulanze, i feriti rimango del tempo prima di essere curati, e questo aumenta enormemente il rischio di rimanere invalidi. Si può già prevedere un numero di 15000 invalidi. Ma non è tutto spesso i cadaveri, come i feriti, vengono portati via dai soldati, verso l'interno o verso il Giordano. Negli ultimi tre mesi sono stati uccisi 50 tra medici, infermieri e paramedici. Ci dice che nelle ultime settimane il coprifuoco è stato sospeso 3 ore ogni 4 giorni e che era questo il solo intervallo in cui si poteva raggiungere l'ospedale. Le medicine sono state sempre più scarse e quindi si sono dovute ridurre le posologie. Il direttore del centro è anche vice presidente del Parlamento palestinese. Composto per il 40% dal territorio di Gaza e per il 40% dal West Bank, a causa dell'impossibilità di muoversi, il Parlamento non riesce a riunirsi da un anno e mezzo. Questo contribuisce, ci dice, "alla degradazione della società". Adesso con la distruzione della sede del parlamento, sono stati portati via gli archivi. In due settimane sono state distrutte anche tutte le sedi istituzionali di Ramallah. Sono state settimane di enormi violenze nelle case private, nelle chiese e nelle moschee ma soprattutto c'è stato un accanimento sulle istituzioni, con distruzione di documenti e archivi, come una intenzione di cancellare ogni possibilità di rappresentanza dello Stato palestinese.

L'unica tappa "ufficiale" (con tanto di timbro sul visto d'ingresso) in zone palestinesi è a Gaza. Da dove non esce più nessuno e a entrare siamo ben pochi. Andiamo in 6, per capire ad esempio se sarà possibile portare nelle scuole (c'è un progetto di cooperazione piemontese) i già pronti filtri per l'acqua. Le scuole di cui si parla sono quelle per i profughi del 1948, gestite da un'agenzia delle Nazioni Unite il cui nome per esteso suona ormai ironicamente "per il benessere dei palestinesi". Può darsi che a Gaza, come altrove, ci siano terroristi (ovviamente non lo vanno dicendo in giro) ma i nostri occhi continuano a vedere gli effetti che il potente esercito israeliano produce contro… il nulla. E' l'unica grande città palestinese non ancora attaccata dai soldati israeliani. Eppure vediamo l'aeroporto distrutto, come la casa di Arafat. Bombardamenti "preventivi". Con quella tipica mancanza di precisione che causa "a volte" danni "collaterali". Il porto di Gaza, anch'esso previsto dagli accordi di Oslo, era quasi finito grazie alla cooperazione francese e olandese: ora è un cumulo di macerie. Girando in mezzo alle povere fragili case dove dal '48 vivono i profughi (mezzo milione solo a Gaza), veniamo fermati di continuo. Chiunque sappia un po' di inglese o francese, racconta storie, chiede aiuto (non per sé ma per il suo popolo), denuncia. "Ho cresciuto con tanta fatica i miei figli, non voglio vederli morire" ripete una donna. "Italiani? Voi siete bravi ma perché il vostro governo è fra i pochi a essersi astenuti, in sede Onu, sulla condanna di Sharon e del terrorismo israeliano?" chiede un uomo con le stampelle. "Vi prego, venite qui in tanti dall'Europa: solamente se ci sarete voi, gli israeliani non potranno fare massacri come a Jenin" scongiura un anziano. Intorno alla scuola e nelle strade si leggono sia parole di pace che di guerra: vi sono molti slogan in inglese oltrechè in arabo che invitano a impegnarsi contro la violenza ma altre frasi, come le tante foto di "martiri" in posa da combattimento, che chiamano a morire e a uccidere. Un uomo incontrato a Gaza ci dice "Cos'altro ci resta, se non combattere? Cosa fareste voi al mio posto, quando il mondo piange solo pochi israeliani caduti e finge di non vedere il massacro quotidiano dei palestinesi?" Non urla queste frasi ed è persino peggio questo parlar sommesso perché costringe a registrare quanto sia lucida la sua disperazione, quanto l'analisi non lasci scampo. Ci chiede con toni pacati: "Ditemi: chi ci salverà? I governi arabi sono quasi tutti tiranni, al soldo degli Usa, non muoveranno un passo per noi. Sì, gran parte della gente araba vorrebbe aiutarci ma per farlo dovrebbe anzitutto rovesciare i suoi governi. Sarebbe bello, ma vi pare possibile?. Qualcuno di noi replica: "E se l'Europa finalmente si muovesse?". Lui, in risposta, domanda: "Ma esiste l'Europa?". Prima di uscire da Gaza vediamo una grande strada sconvolta dai bulldozer israeliani: è ridotta a uno stradello, tutto dossi e strettoie, dove solo qualche fuori-strada può passare a fatica mentre le auto normali sono costrette a giri di ore per arrivare al villaggio vicino che invece disterebbe pochi minuti. "Se proviamo ad aggiustare la strada – ci spiegano -- subito sparano dalle torrette vicine". Chiediamo se c'è una ragione di "sicurezza" anche per questo scempio. Ci rispondono che è soltanto l'ennesima mossa per rendere la vita impossibile a chi abita qui: "Come toglierci l'acqua, oppure scaricare le fogne dei coloni sopra le case palestinesi o sradicare gli olivi: azioni che servono a combattere il terrorismo o piuttosto ad alimentarlo?".

Mentre stiamo superando il "confine" di Gaza, fra i soldati israeliani scatta l'allarme. Sapremo poi, in serata, che alcuni palestinesi sono morti. Lì vicino. Perché? Come? Ci chiediamo se davvero importa a qualcuno saperlo.

Ci sono altri incontri per molti di noi: quello ufficiale con gli enti locali israeliani e l'altro lungo e coinvolgente a Gerusalemme con la piccola comunità ebraica di origine italiana. Nel primo caso proprio la delegazione emiliana che è tutta femminile sa trovare spiragli per il dialogo: non era scontato che una proposta di progetti "trilaterali", ovvero con israeliane e palestinesi, trovasse ascolto in questo momento. Ma il quadro non è uniforme: molti rappresentanti israeliani mostrano di pensare che le ragioni siano tutte con Sharon e che chiunque lo critichi sia filo-terrorista e/o antisemita.

Venerdì, penultimo giorno: l'intera delegazione decide di andare a Betlemme. Spieghiamo agli israeliani che bloccano l'accesso alla città di avere un appuntamento con il sindaco Hanna Nasser. Aspettando la risposta alcuni di noi (sindaci, vice-sindaci o assessori con delega a rappresentarli) indossano le fasce tricolori, per sottolineare la veste ufficiale. Arriva la risposta ufficiale: "No, non potete passare; per la vostra incolumità, sarebbe troppo pericoloso". Si discute ma senza successo. Il pullman fa marcia indietro ma 16 di noi hanno deciso di scendere dopo la prima curva: tenteranno di entrare comunque, per vie traverse, sfidando il coprifuoco. "In silenzio e concentrati" ammonisce il capofila. Vicino alla "Natività assediata" e anche a due passi dalla meta, la casa del sindaco, il gruppo si ferma presso un ospedale (su un cartello si può leggere che ha contribuito la cooperazione italiana), scambia due chiacchiere con medici e infermieri palestinesi che vorrebbero curare qualcuno ma, ci dicono, "è vietato soccorrere i feriti e persino i malati hanno paura a venire qui". Poi, in qualche modo, arriviamo in una struttura dei francescani proprio mentre giunge un grande Tir di aiuti. Lì ci sono pochi ragazzi, un po' di suorine e pochi altri: "perché non ci date una mano a scaricare?". Una trentina di persone, in una catena sfilacciata eppur frenetica, riusciamo a scaricare un terzo del camion mentre un sacerdote italiano ci racconta: "questo Tir aveva il permesso di entrare e infatti è passato senza problemi ma, subito dopo, un' improvvisa sventagliata di mitra gli ha bucato tutte le ruote. Perché? Non c'è spiegazione. Così si sono perse altre ore". Arriva intanto la conferma, il sindaco ci aspetta. Ci dice poi un giornalista che siamo stati gli unici a vederlo: altre delegazioni hanno fatto dietro-front senza "aggirare" il divieto. L'incontro con il sindaco è straziante. Dietro la sua gentilezza, i ragionamenti, l'appigliarsi alle speranze si avverte un lucido pessimismo. Racconta degli orrori di Betlemme e Jenin, delle censure, dei pacifisti, della disperazione quotidiana e dei calcolati balletti politici… "Non ho alcuna autorità per invitare qui il papa ma mi piacerebbe che venisse; forse lui riuscirebbe a impedire che l'assedio alla Natività finisca nel sangue o nella morte per fame e sete". Si parla con lei di politica, strategia, diplomazia ma il cuore e la testa di molti faticano a crederci. Invitiamo il sindaco alla marcia straordinaria per la pace. "Oh sì, conosco bene la Perugia-Assisi" risponde "ma credo che stavolta non potrò venirci".

L'ultimo incontro ufficiale è con il nunzio apostolico Pietro Sambi, come dire l'ambasciatore ufficiale del Vaticano, uno dei pochi Stati che ha scelto di avere un solo rappresentante presso israeliani e palestinesi. "Grazie per essere qui". Dice. " Forse non vi rendete neppure conto di quanto sia importante che oggi qualcuno venga a vedere, a parlare, a capire". Nella terra dove tutti continuano a salutarsi con "salam" e "shalom" (cioè parole di pace) e a fare la guerra, chiediamo dov'è il bandolo della matassa. "Il 30 novembre '47 fu deciso che doveva esistere uno Stato d'Israele ed è giusto che sia così" risponde: "ma deve restare nei confini decisi e intanto deve nascere lo Stato dei palestinesi che invece non c'è. I fili bisogna cominciare a sgrovigliarli da qui". E siccome la comunità internazionale è stata con-responsabile dell'una e dell'altra decisione, ora deve impegnarsi invece di stare alla finestra. "Solo se si costruisce lo Stato di Palestina, se Israele si ritira dai territori occupati nel '67, molti problemi si risolvono e si può affrontare gli altri, con calma, a partire dagli insediamenti e dai profughi del '48, dalla giusta divisione dell'acqua e dallo status di Gerusalemme". Alla domanda se siamo tornati indietro di 50 anni, il nunzio non risponde direttamente ma ricorda che nel '44 nessuno avrebbe pensato che Francia e Germania avrebbero potuto far parte d'una stessa comunità politica... Ottimismo subito bilanciato da un triste realismo: "Da entrambe le parti ora non c'è più qualcosa di sacro: c'è una decadenza morale che richiederà un lavoro enorme di ricostruzione. E intanto rinasce l'antisemitismo, un grande pericolo per Israele. Ma io credo che il legittimo desiderio di sicurezza d'Israele potrebbe essere soddisfatto se non si considerasse più un corpo estraneo, se capisse che la via giusta è riconoscere i diritti dei palestinesi e rinunciare all'idea che la forza può risolvere tutto. No, da sola, la forza non basta…".

Il nunzio ricorda il dramma della Natività assediata a Betlemme, condanna il terrorismo ma poi, sollecitato dalle domande, prova a tornare alle radici dei problemi. Tanti. Che travagliano Israele, ancora senza Costituzione perchè incapace di decidere se è uno Stato religioso o no. Che affliggono gli Usa (oggi troppo schierati con Sharon) e l'Europa (senza una politica comune rispetto al Medio Oriente). Che riguardano il mondo… sotto forma di energia, ricchezza, giustizia, democrazia. Nel salutarci il nunzio ci ripete di tornare. Cercheremo di farlo.

Torniamo a casa con il cuore pesante e la riconferma del nostro impegno a testimoniare quanto abbiamo ascoltato e visto qui. I palestinesi umiliati, sconfitti e soli hanno perso. Gli israeliani forti, duri, inarrestabili e con il paese più potente del mondo alle spalle, militarmente hanno stravinto ma sul piano della dignità umana e della società che stanno costruendo anch'essi hanno perduto. Sulle rovine di Oslo il mondo sta perdendo e noi non possiamo girarci dall'altra parte.

La nostra missione di pace aveva anche il compito di costruire relazioni, intrecciare conoscenze ed è quello che abbiamo fatto, abbiamo stabilito contatti, raccolto informazioni, preso indirizzi, con attenzione particolare alle donne nelle istituzioni locali.

La Regione ha un suo ruolo preciso che svolge attraverso il tavolo di cooperazione internazionale, di messa in rete e di coordinamento delle amministrazioni locali. Occorre che l'esperienza di questa missione di pace in Palestina venga integrata nelle azioni già programmate. L'adesione alla marcia Perugia Assisi del 12 maggio o il campo di pace di Montesole, di luglio e agosto, con l'allargamento del progetto Socrates alla presenza di educatori e studenti palestinesi e israeliani oltre che di italiani e tedeschi devono aiutare a far avanzare processi di pace.

Il Consiglio regionale, dopo un intenso dibattito, ha approvato il 18 aprile scorso una Risoluzione che chiede al Governo italiano di attivarsi nei confronti degli altri paesi europei per giungere ad una forte iniziativa di pace dell'Unione europea che porti al ritiro dell'esercito israeliano dai territori palestinesi; all'avvio di un processo di pace sulla base delle Risoluzioni ONU prevedendo anche osservatori internazionali ed una forza di interposizione nei territori; la convocazione dell'Assemblea generale dell'ONU che affronti il problema della trasformazione della rappresentanza palestinese in Stato membro.

La Risoluzione condanna inoltre le manifestazioni di antisemitismo verificatesi in alcune città europee e sostiene la mobilitazione e le iniziative di pace, impegnando il Consiglio regionale a muoversi concretamente - e la missione svolta in Palestina rientra in questo percorso - per mettere in campo ogni possibile contributo alla risoluzione del conflitto e all'aiuto delle popolazioni colpite anche attraverso l'invito alla Giunta regionale affinchè abbia un ruolo propulsivo nell'ambito del coordinamento delle Regioni per la cooperazione allo sviluppo in Medio Oriente.

Il Consiglio regionale quindi, quale assemblea espressione di tutte le forze politiche, può diventare punto di riferimento delle varie amministrazioni locali e divenire soggetto propulsore di iniziative per:
Infine, nel concludere questo "diario di viaggio", vorrei ringraziare il Sig. Daniele Barbieri Albani, il quale ha seguito la delegazione in tutto il percorso svolto ed è rimasto in Palestina fino all'ultimo giorno, dando un contributo prezioso e fattivo anche alla stesura del racconto di questa esperienza.

Lia Amato
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