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AWMR Italia - Associazione Donne della Regione Mediterranea

7a Conferenza Internazionale, Italia - Gallipoli 8-12 luglio 1998

Donne e Lavoro nel Mediterraneo

AWMR - Association of Women of the Mediterranean Region

2. Sessione
Il diritto al lavoro nel contesto dei diritti umani delle donne

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2.1. Le donne per nuove strategie di sviluppo:
il ruolo dell'ente locale tra riforma e vita quotidiana

di Katia Bellillo
Assessore alle Pari Opportunità e Vicepresidente della Provincia di Perugia

L'Assessorato alle Pari Opportunità istituito dalla Provincia di Perugia è da tempo impegnato a superare i limiti rivelati dalle azioni rivolte solo alle donne, identificate come componente debole della popolazione, perché possano raggiungere la "parità" rispetto alle più favorevoli condizioni attualmente ancora riservate agli uomini.

L'acquisita consapevolezza della sterilità della contrapposizione uomo donna apre nuovi scenari in cui l'intelligenza, la creatività e la volontà delle donne siano spese non tanto per raggiungere la parità con la condizione maschile, quanto per conquistare migliori ed uguali condizioni per tutti.

Se cento anni fa ci si poneva il problema di come governare i processi di industrializzazione, oggi dobbiamo affrontare la questione di come governare un'economia che oltre alla globalizzazione e alla massificazione ha tra i suoi capisaldi l'informatizzazione, la gestione di reti telematiche e dei flussi di informazione.

I capitali e soprattutto le informazioni non hanno più confini ed è evidente che i processi da gestire si dilatano oltre i confini nazionali ed ancora più rispetto ai singoli territori locali delle Amministrazioni territoriali.

A fronte di una crescita delle attività produttive la disoccupazione oggi aumenta.

La ripresa non è più sinonimo di nuova occupazione, perché è possibile produrre sempre di più con un numero sempre minore di lavoratori.

La crescita della ricchezza di molte nazioni ha prodotto anche la crescita delle disuguaglianze, della disoccupazione, della povertà, dell'esclusione e del degrado ambientale.

Il culto della concorrenza, della competitività e del libero scambio aggravano sempre più la situazione.

I milioni di disoccupati europei, il disastro urbano, la precarizzazione generale, la corruzione, la tensione nelle periferie delle città, il saccheggio ecologico, il ritorno dei razzismi e degli integralismi, la marea degli esclusi non sono miraggi, colpevoli allucinazioni in grave discordanza con questo migliore dei mondi edificato dal pensiero unico per le nostre coscienze anestetizzate.

Accanto alla disperazione esistono immensi bisogni insoddisfatti che costituiscono fonti potenziali di nuovi posti di lavoro.

Si assiste infatti ad una crescente penuria dell'offerta dei servizi, non solo dei classici servizi pubblici: istruzione, sanità, giustizia, trasporti collettivi ed altro, nei quali certamente un aumento degli addetti migliorerebbe la sicurezza e la qualità della vita di tutti i cittadini, ma anche in una categoria che potremmo definire eco-sociale: assistenza agli anziani e agli handicappati, sostegno ai giovani in difficoltà, miglioramento dell'habitat e protezione dell'ambiente.

Soddisfare la domanda di questo tipo di servizi potrebbe creare posti di lavoro ed evitare i guasti prodotti dall'emarginazione e dal degrado sociale e ambientale.

A fronte del crescente disagio generato dall'inadeguatezza delle politiche e degli strumenti messi in campo per fronteggiare situazioni sempre più gravi che ci affliggono non è sufficiente trovare comunque una soluzione alla crisi dell'occupazione, che costituisce forse l'aspetto più appariscente, ma è soprattutto necessario trovare rimedio alla progressiva disgregazione del tessuto sociale, denunciata dalla perdita di identità delle comunità locali e dal degrado degli ambienti di vita.

Sembra quindi che il punto centrale è come a partire da una situazione così complessa e nuova si può caratterizzare il ruolo del governo locale, in un percorso che porti al cambiamento. Limitare l'attività amministrativa alla gestione del quotidiano e dell'esistente non può che essere perdente.

Le istituzioni pubbliche, confinate troppo spesso in ruoli anacronistici, impastoiate in procedure farraginose quanto inutili, che sembrano concepite più per giustificare la propria esistenza che per reale utilità, devono ridisegnare il proprio spazio e ridare appunto un senso alle loro azioni.

E il processo di riforma della P.A., al quale i provvedimenti Bassanini hanno dato una forte accelerazione, apre spazi del tutto inediti a opportunità di trasformare lo stato sociale in senso europeo: riorganizzazione della macchina burocratica, semplificazione del procedimento amministrativo, decentramento.

Il superamento dell'autoreferenzialità della Pubblica Amministrazione si deve perseguire sia attraverso l'individuazione di nuove procedure burocratiche tendenti a semplificare internamente la vita amministrativa, sia offrendo l'opportunità di percorsi lavorativi esterni nuovi ed immettendo forza lavoro disoccupata per realizzare uno scambio che contribuisca alla creazione di un nuovo modello di sviluppo del lavoro e dell'economia solidale.

E in questa direzione si muove il progetto sperimentale "IL RIUSO DEL TEMPO" della Provincia di Perugia con l'obiettivo di "creare condizioni organizzative e culturali che permettano di migliorare la qualità delle prestazioni e l'ottimizzazione delle risorse, individuando soluzioni di lavoro innovative e gratificanti che offrano nuove opportunità di impegno e di conciliazione dei propri tempi di vita".

Tra le azioni previste nel progetto: "Il cittadino ed il tempo ritrovato, il lavoro ed il tempo liberato, la/il dipendente ed il tempo scelto".

Siamo partite dalle donne perché sono proprio loro a vivere con maggiore intensità la dimensione del tempo, spesso conflittualmente ripartito fra tempo di lavoro e tempo di cura.

Sono quindi le più sensibili a raccogliere la sfida della riprogettazione del tempo di lavoro in una pubblica amministrazione ricercando soluzioni innovative che, da un lato eliminino i disagi ormai insopportabili imposti al cittadino e dall'altro offrano nuove opportunità di impegno e di conciliazione dei propri tempi attraverso esperienze di Tempo Scelto.

Tale Azione di propone di rendere disponibili nuovi posti di lavoro, di promuovere lo sviluppo locale e di curare lo scambio di saperi e di progetti, grazie alla divisione volontaria del lavoro fra un'occupata che rinuncia a metà del proprio tempo impegnato in prestazioni e relativa retribuzione scegliendo di impegnarsi in un progetto utile socialmente ed un disoccupato che viene assunto per il tempo liberatosi.

Attraverso un confronto interno ed esterno all'ente si è costituita l'Associazione del tempo scelto che raccoglie al suo interno persone provenienti da una molteplicità di orizzonti socio-professionali e correnti di pensiero.

L'Associazione del Tempo Scelto vuole scoprire le virtù di un'economia di scambio non monetaria, ancora presente per quanti sanno ancora vederla: l'economia del dono e delle reciprocità, dove il legame è tanto importante quanto il dono. Lo slogan "Lavorare meno, lavorare tutti" andrebbe aggiornato con "Lavorare meglio (e nel meglio è compreso anche il meno), impegnarsi tutti (e nell'impegno è ricompreso non solo il lavoro necessariamente utile per sé, ma anche il lavoro e soprattutto il tempo dedicato alla comunità)".

È stata stipulata un'apposita convenzione con l'Associazione del Tempo Scelto finalizzata alla realizzazione di azioni positive rivolte alle /ai dipendenti della Provincia (5°/6°/7° livello funzionale) che offrano nuove opportunità di impegno e di conciliazione dei propri tempi, attraverso esperienze di tempo scelto.

Strettamente correlato alla realizzazione di tali azioni è stato sottoscritto un Protocollo d'intesa fra la Provincia di Perugia, l'Agenzia Regionale per l'Impiego dell'Umbria e l'Associazione del Tempo Scelto al fine di favorire la creazione di nuova occupazione attraverso lo strumento del Tempo Scelto, anche utilizzando le normative nazionali e locali relative ai lavori socialmente utili, in mancanza di specifici riferimenti legislativi.

È stato quindi elaborato un apposito progetto per lavori socialmente utili il cui obiettivo principale è la produzione di un bene o di un servizio sociale e la creazione di impiego. Destinatari del progetto sono 6 giovani residenti nella provincia di Perugia e che non abbiano mai usufruito di ammortizzatori sociali, iscritti nell'elenco dei disoccupati di lunga durata, che verranno utilizzati per un periodo di 12 mesi.

Queste/i giovani condividono con le/i dipendenti, portatrici/ori di progetti di Tempo Scelto, il tempo di lavoro all'interno dell'Ente e l'opportunità di seguire un percorso formativo di 100 ore per la formulazione di un progetto di tempo scelto da realizzare all'esterno.

Promotrice del progetto insieme alla Provincia di Perugia è la Cooperativa Sociale ASAD che si è impegnata, in un apposito protocollo sottoscritto con l'Ente, ad assumere alla fine del progetto almeno il 50% delle/i disoccupati utilizzati nel progetto.

Vorrei sottolineare come la sfida del Tempo Scelto abbia coinvolto non solo il livello politico, ma anche quello tecnico e come abbia permesso di ricostruire anche all'interno di un'amministrazione pubblica quel circolo virtuoso di relazioni sociali e di condivisione di obiettivi che hanno fatto diventare possibile quello che a priori sembrava improbabile.

A partire da questa esperienza, si è sviluppato il confronto alla ricerca di "nuove opportunità per le pari opportunità" ed abbiamo preso in considerazione lo strumento organizzativo del telelavoro.

La prospettiva del telelavoro oggi si pone come una particolare opportunità organizzativa e di sperimentazione sociale, uno dei "siti" privilegiati ove verificare lo sviluppo di prassi alternativa in risposta a problematiche nuove della vita economica e sociale.

Cambia la concezione del tempo di lavoro, meno rigido e più sintonico alle esigenze individuali e della vita extralavorativa.

Gli sviluppi delle tecnologie dell'informazione e le loro applicazioni su vasta scala consentono oggi rapidi collegamenti comunicativi, dando vita, consequenzialmente, a sistemi relazionali del tutto nuovi.

Sistemi che estesi all'organizzazione della vita lavorativa prefigurano radicali cambiamenti negli stili e negli orientamenti dei singoli e della collettività.

È questa la prospettiva del Telelavoro: ovverossia di quella particolare modalità di esecuzione del lavoro, effettuata in luoghi decentrati rispetto alla sede tradizionale e che utilizza le tecnologie telematiche permettendo di realizzare Azioni positive nei confronti delle/dei dipendenti e agevolare l'accesso ai servizi da parte dei cittadini.

Tali tecnologie, infatti, consentono di realizzare il massimo decentramento "real-time", onde per cui il luogo di lavoro non costituisce più una costante del teorema organizzativo e l'orario rigidamente sincronizzato non è più la condizione fondamentale per l'erogazione dei servizi, intesi naturalmente, questi ultimi, nella loro accezione più vasta.

Questa nuova modalità di lavoro, inoltre, potrà essere una soluzione a cui ricorrere in risposta a particolari esigenze dei lavoratori (cura dei figli, studio) oppure diventare l'opportunità di continuare a lavorare o di inserirsi nel mondo del lavoro per le persone handicappate con difficoltà nella mobilità.

La diversa ristrutturazione dei modelli organizzativi comporta il rifondare la centralità della risorsa umana, viene riconosciuta maggiore importanza al talento, alla creatività, alla responsabilizzazione ed autonomia del singolo, migliorando il rapporto tra processo decisionale ed esecutivo.

Un cauto ottimismo ed un'altrettanta cauta concessione alla retorica ci consentono di asserire, senza tema di smentita, che il telelavoro per la Pubblica Amministrazione è una grossa sfida per il futuro.

Il telelavoro è stato finora confinato nella riduttiva versione del lavoro a domicilio e per questo è stato anche decisamente e comprensibilmente avversato, ma in realtà si tratta di un fenomeno ben più complesso come mostrano le forme diverse e più evolute che si stanno affermando attraverso la creazione di "centri di telelavoro" nel territorio che possono favorire l'accessibilità sia dei cittadini ai servizi, sia dei dipendenti al lavoro, riservando la scelta del lavoro a domicilio ai casi di impedimento temporaneo o permanente.

È una scelta di lavoro che investe e coinvolge la qualità della vita, consente di gestire autonomamente il proprio tempo, di ridefinire gli ambiti della propria socialità.

Una valutazione dei reali vantaggi e degli effettivi limiti di queste modalità di lavoro è possibile solo sulla base di concrete esperienze e la Provincia di Perugia può contribuire, con l'avvio di una sperimentazione di forme di telelavoro, ad una necessaria verifica della loro validità sia per dare risposte più adeguate alle esigenze di popolazioni che vivono nelle aree terremotate, sia per migliorare le condizioni di lavoro dei propri dipendenti, dando così piena attuazione a quel principio di pari opportunità che costituisce uno degli impegni dell'ente.

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2.2. Donne e cooperazione nel Mediterraneo
"Noi vagabonde delle parole"

di Nella Condorelli
Rete delle giornaliste del Mediterraneo

La rete delle giornaliste del Mediterraneo è nata in Sicilia e ne fanno parte colleghe professioniste residenti nei quindici paesi dell'Unione Europea e nei dodici paesi partner mediterranei.

La nostra organizzazione è nata come associazione di fatto nel 1991, in seguito alla guerra del Golfo.
Molte di noi impegnate per la prima volta come giornaliste inviate al fronte, si chiesero se la notizia di guerra poteva essere trattata da donne giornaliste alla stessa maniera come era stata trattata, sino a quel momento, da uomini giornalisti, e se c'era una guerra che poteva essere raccontata, oltre a quella che era combattuta dai militari, con le riflessioni sulle sue ripercussioni nelle case, nella vita della gente. Se si poteva farne, come si dice, cronaca bianca. Da qui è partita la nostra riflessione, come giornaliste, sulla professione e sul dialogo che è nato tra noi perché potessimo meglio conoscerci, per meglio lavorare insieme.

Nel Mediterraneo questa è una realtà, è un'esigenza, è una necessità.

La prima riflessione che viene in mente, quando si parla di Mediterraneo, riguarda la parola e la sua concettualizzazione come spazio: spesso ancora oggi parlando di Mediterraneo noi parliamo del mare, senza fare riferimento alle società e alle civiltà che ci sono intorno.

Riflettete su questo: il Mediterraneo si porta dietro echi di memoria, di tradizioni, di grandi religioni e di grandi civiltà che intorno a questo mare sono nate, ma non si parla quasi mai alle donne, agli uomini, alle civiltà diverse che su questo mare si affacciano e che hanno necessità di collaborare, di dialogare, di conoscersi e di cooperare.

Io apprezzo moltissimo iniziative come questa conferenza, rivolte a creare reti di donne che sviluppino conoscenza, dialogo: sono fondamentali per noi che nel Mediterraneo ci viviamo. Partendo dall'esperienza della Rete delle giornaliste del Mediterraneo cercherò di sviluppare il tema che mi è stato assegnato: "Donne come cooperatrici", anche se non è esattamente la mia specializzazione professionale. Io faccio cronaca bianca, sono una vagabonda delle parole, giro tra la riva nord e la riva sud del Mediterraneo forse alla ricerca delle mie radici, in quanto siciliana. Come Rete delle giornaliste abbiamo partecipato a tutte le iniziative relative al partenariato euro-mediterraneo promosse dalla Comunità Europea, a partire dalla Conferenza di Barcellona e dal successivo Forum Euro-Med Civil che hanno posto le premesse della cooperazione che si sta sviluppando fra le società civili del Nord e del Sud.

Penso che capire che cosa è stata la conferenza di Barcellona sia importante perché ha definito la cooperazione euro-mediterranea anche in termini di accesso alle risorse. E nessuno meglio di noi che abitiamo i paesi che s'affacciano sul Mediterraneo sa come una democrazia stabile si realizza soltanto quando le due componenti della società, donne e uomini, hanno le stesse opportunità di accesso allo sviluppo economico.

Nei nostri paesi la piena occupazione femminile, e quindi il godimento dei diritti da parte delle donne, sicuramente è ancora una cosa da venire nei suoi termini completi.

All'interno di quest'area c'è poi da considerare tutta la differenza tra la sponda sud e la sponda nord. Vi riferisco soltanto un dato: l'occupazione femminile in Francia raggiunge una media del 46%; in Algeria la media è del 2%. Francia ed Algeria si guardano, sono due terre di fronte, due sponde dello stesso mare - e si guardano non soltanto perché l'immigrazione algerina in Francia e la presenza francese in Algeria ancora oggi hanno significati e ripercussioni che tutte conosciamo.

Dunque, la conferenza di Barcellona. Nel 1995 i 27 ministri degli esteri dei Paesi dell'Unione Europea e dei paesi partner mediterranei s'incontrano prima in una riunione informale a Tabarka (Tunisi) e successivamente in una riunione formale, istituzionale, a Barcellona, nella quale lanciano le politiche euro-mediterranee di sostegno alla stabilizzazione di una zona di pace nell'area, di stabilità e di sviluppo economico. Queste politiche si traducono, in termini molto concreti, in risorse economiche e finanziarie messe a disposizione dell'Unione Europea, a partenariati che coinvolgono in maniera piramidale sia le istituzioni che le società civili del nord e del sud del Mediterraneo. Perché nel tempo si possa sanare il disequilibrio esistente tra la sponda nord e quella sud, vengono lanciate politiche di distribuzione delle risorse che offrono maggiori opportunità alla sponda sud di creare sviluppo economico. I fondi messi a disposizione sono tanti: si parte da 4,862 milioni di euro nel 1995, cresciuti negli anni e distribuiti in tre grandi aree, delle quali una c'interessa particolarmente: quella dei diritti umani e della democrazia, e quindi della distribuzione di risorse alle "società civili".

Collegato alla Conferenza di Barcellona, si tenne infatti il primo Forum Euro-Med Civil, al quale parteciparono mille rappresentanti di tutto quel tessuto di organizzazioni non governative, associazioni, gruppi che operano nella società civile. Fino al 1995 quando si parlava di europartenariati ci si riferiva alle istituzioni, alle grandi imprese, al grande mondo economico-finanziario, mai la distribuzione di risorse aveva toccato la società civile, le ong, le piccole e medie imprese, le piccolissime imprese individuali che, stando alle statistiche, ci coinvolgono di più come donne.

Distribuiti in undici forum di lavoro, i partecipanti discussero di tutto ciò che riguarda la nostra vita: dalla pesca all'immigrazione, alle telecomunicazioni, ai media. Dal forum n.9, che era specificatamente riservato alle donne, emersero alcune risoluzioni che riguardavano i temi che ora stiamo trattando: i diritti delle donne e la possibilità di creare europartenariati tra donne del nord e del sud su progetti che fossero finalizzati all'acquisizione dei diritti, alla pratica della democrazia, dello sviluppo, alla presenza delle donne nello sviluppo economico.

La presenza delle donne nei luoghi decisionali, secondo il criterio del mainstreaming, era trasversale a tutte le sezioni di lavoro del Forum. Però avvenne che nella risoluzione finale la condizione femminile non fu oggetto di un'analisi specifica, ma venne diluita nel discorso generale. Invece sarebbe stato utile riservare una riflessione particolare alla situazione delle donne: ad esempio al rapporto tra donne e legge nei paesi della sponda sud, dove esse sono strette fra una legge laica fatta dai governi e dai parlamenti usciti dalle guerre di liberazione nazionale da una parte e la legge islamica dall'altra.

Si decise allora di dar vita ad un gruppo di pressione, composto dalle associazioni presenti, con l'obiettivo di spingere affinché la Commissione europea ed i Ministri degli Esteri dei diversi paesi prestassero maggiore attenzione alla presenza femminile nei programmi di stabilizzazione democratica nei paesi della sponda sud, programmi ai quali le donne hanno accesso soltanto in parte.

Voglio ricordare infine che a settembre a Lisbona si svolgerà la prima conferenza euromediterranea per lo sviluppo delle donne, che darà seguito alle risoluzioni di Barcellona e di Malta. Sarà la prima volta che le donne della sponda nord e sud s'incontreranno per stabilire gli europartenariati, come fare i progetti e premere sugli Stati dell'UE perché una fetta sostanziosa dei finanziamenti venga riservata ai progetti che riguardano lo sviluppo economico delle donne.

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2.3. Lavoro domestico, genere ed etnia

Carolina Cardenas e Vicky Franzinetti

Il lavoro domestico retribuito si trova all'incrocio di molti problemi di crescente importanza: il lavoro domestico non retribuito, la sostituzione di molti servizi sociali e l'immigrazione.
Quest'ultimo aspetto, l'incrocio tra lavoro domestico retribuito e immigrazione è abbastanza recente: infatti è vero che la maggior parte delle donne che svolgono ufficialmente questo lavoro (gli uomini sono pochi) sono italiane, è altresì vero che in alcuni gruppi (nazionalità) di immigrate questa è l'occupazione prevalente.

Il lavoro di colf si trova quindi all'incrocio di perlomeno due dei problemi più scottanti di questo periodo, quelli dell'immigrazione e dello stato sociale, eppure se ne parla molto poco.

Se ne parla poco discutendo di stato sociale, come se fosse irrilevante chi sono le persone che forniranno i servizi "di prossimità" o "alla persona" come vengono detti i lavori di cura che includono il lavoro di colf, o che cosa succederà delle lavoratrici quando raggiungeranno l'età della pensione.

Altresì, nei dibattiti sull'immigrazione ha un ruolo molto di secondo piano, anche se in realtà per le caratteristiche, il numero e il fatto che l'entrata della colf è stata l'unica eccezione alle limitazioni dell'immigrazione legale in Italia fino ad ora, questo settore meriterebbe una attenzione particolare.

Quando si discute dello stato sociale spesso si fa riferimento al lavoro del terzo settore e del volontariato, meno allo svilupparsi di situazioni caratterizzate da basse retribuzioni con contributi minimi, se non figurativi, che sembrano suggerire un diffondersi dell'invincibilità delle persone che svolgono servizi e lavori di cura e l'affermarsi del modello sociale di lavoro rappresentato.

In altre parole la discussione pare soffermarsi più sul "che cosa", l'oggetto del lavoro, e nel caso specifico sui servizi e sul chi li riceve (quindi per esempio sulla possibilità di dedurre dalle tasse servizi di cura e assistenza, cosa più che benvenuta), mentre si analizzano assai poco le condizioni di lavoro delle persone che tali servizi forniscono.

Come già detto questo "oblio sociale e politico" è aiutato dal fatto che le lavoratrici sono in stragrande maggioranza donne, e sempre più frequentemente donne immigrate: è come se l'idea sociale che le accompagna fosse che queste donne resteranno nell'ombra, torneranno alle loro famiglie, ai loro paesi. In realtà poi questo non succede, queste donne non possono essere più viste solo come il famoso esercito delle casalinghe che passano dallo svolgere il lavoro di cura gratuitamente nella famiglia, a svolgerlo a poco prezzo per altre famiglie. Altri studi si chiedono come mai le donne anziane siano il gruppo di poveri più consistente in Europa; passate esperienze di altri paesi e degli italiani immigrati dovrebbero insegnarci che molti e molte restano nei paesi di immigrazione e che nell'ignorare questi problemi, ossia nell'ignorare l'impatto di un lavoro su di un ciclo di vita e la sua invisibilità, stiamo seminando una tempesta che raccoglieremo tra 20-25 anni.

Non è irrilevante che il lavoro domestico retribuito si trovi all'incrocio con il lavoro domestico non retribuito. Dal punto di vista delle lavoratrici il fatto di svolgere una parte consistente del proprio lavoro senza retribuzione crea un rapporto completamente diverso nelle donne, sia verso il lavoro domestico retribuito sia nel loro comportamento soggettivo sul mercato del lavoro, rompendo quella relazione forte tra tempo, lavoro e denaro che il lavoro - soprattutto maschile - in una società industriale. Inoltre questo influenza anche l'aspettativa degli altri soggetti del mercato del lavoro. Ossia il fatto che, per esempi, le donne svolgeranno lavoro domestico e di cura non retribuito condiziona i datori di lavoro nei confronti della forza lavoro femminile e viene conteggiato nell'approccio al lavoro retribuito.

Una delle ironie dell'esperienza delle donne adulte è che per la sua invisibilità il lavoro domestico (retribuito e non retribuito) non viene riconosciuto e descritto neanche quando diventa il modello di molti latri lavori, o modello di conduzione sociale. I lavori che vengono descritti come "nuovi" quali ad esempio il lavoro precario giovanile, il nuovo lavoro, un pò dipendente un pò in proprio, il parasubordinato o cooperativo, spesso preceduto da periodi di lavoro non retribuito.

In queste situazioni la persona non guadagna abbastanza da essere indipendente, valore un tempo assoluto nel negoziare il presso della forza lavoro (ossia non si poteva guadagnare meno di quello che serviva per vivere). Il lavoro quando c'è non è sicuro, dipende da tempi "forti", ossia da lavori strutturati a tempo pieno o svolti da persone con ruoli sociali più forti; non pare esserci carriera, uno di deve adattare a fare tanti lavori; ci sono dei periodi di uscita dal mercato del lavoro e la maggior parte delle persone in questa situazione avrà una pensione molto bassa se non interverranno fattori favorevoli. La descrizione di questi lavori nuovi si adatta perfettamente alle migliaia di donne italiane che hanno fatto le casalinghe e pò le "ore" e qualche lavoretto. Questo fatto di rompere la corrispondenza tra lavoro e indipendenza, tra lavoro e autonomia economica potrebbe portare per esempio a grossi mutamenti nei rapporti interfamiliari. Tuttavia, nonostante quello del lavoro domestico e di cura sia un modello sociale e di lavoro emergente, raramente viene studiato se non come marginale.

Altresì va detto che se è vero che il lavoro genera rapporti sociali, allora c'è da chiedersi quali rapporti genererà la reintroduzione del lavoro domestico retribuito residenziale.

poiché questo lavoro è invisibile nessuno lo qualifica, e per esempio raramente si confrontano gli standard nei vari paesi: l'Italia, come sappiamo dalla conferenza ONU di Pechino, è il paese sviluppato in cui le donne svolgono in assoluto il maggior numero di ore di lavoro no retribuito ed in cui gli uomini ne svolgono il minore. È un paese in cui lo standard e le aspettative di servizio domestico (pulizia della casa, cura della persona, qualità del cibo) sono assai alte, e non a caso avendo avuto una classe media che ha goduto di servizi domestici a basso costo fino agli anni 70 ed ora di nuovo.

Questa caratteristica (che faceva sì che fino alla fine degli anni 70 ci fossero un milione di donne italiane iscritte come colf all'INPS, cifra poi scesa ad un quarto e che solo ora riprende a salire) è dovuto alla tarda industrializzazione, alla povertà, all'alta natalità ed a modelli familiari estremamente tradizionali riversatisi poi nello stato sociale.

A questo si aggiunga una complicità politica dei sindacati che hanno accettato il fatto che le domestiche non potessero iscriversi al Sindacato per anni, e che ci fosse un contributo massimo, qualunque fosse la somma pagata e versata. Questo ha voluto dire che insieme all'invisibilità sociale, le colf hanno sofferto anche di invisibilità politica. Questo è uno dei motivi per cui le uniche associazioni di domestiche per anni sono state quelle legate alla chiesa, o alle Acli, che riconoscevano l'importanza del lavoro, e delle lavoratrici, in parte perché corrisponde ad un modello di sostegno alla famiglia a loro consono, ed in parte perché il collocamento avveniva principalmente tramite organizzazioni religiose.

A quanto detto va aggiunto che in particolare il lavoro domestico residenziale è un altro incrocio particolare: tra il pubblico e il privato, tra la Chiesa, la famiglia e lo stato. Come detto la Chiesa è la grande collocatrice, organizzatrice, accoglie e colloca le immigrate, anche illegali e lo Stato delega a questa rete una parte di lavori non più svolti dalla famiglia estesa, non più svolti dai servizi sociali, lasciando a queste reti la politica.

È un incrocio tra spazio di casa e spazio pubblico, in cui sul lavoro domestico retribuito pesa l'invisibilità del lavoro domestico non retribuito.

Nel corso del nostro lavoro abbiamo verificato che il grosso del collocamento a Torino - ma anche altrove - avvenga tramite associazioni etniche e religiose che spesso hanno avuto un ruolo attivo anche nel reclutamento, così come per altri versi avveniva con le donne della Sardegna e del Veneto fino ancora alla fine degli anni 70.

Per alcuni gruppi etnici la rete più forte è quella etnica o nazionale ed il rapporto che l'associazione o rete etnica o nazionale nel suo insieme stabilisce con il volontariato è prevalentemente anche se non esclusivamente cattolico.

Anche qui sorgono delle domande che non sempre hanno delle risposte: per fortuna che questi luoghi di accoglienza esistono, ma qual è la loro politica, che modelli di reclutamento di forza lavoro, di preparazione e di collocamento, quali modelli sociali promuovono?

In ultimo, nell'incrocio tra immigrazione e lavoro a volte si fanno diversi fenomeni:

1) che l'immigrazione più discussa è quella maschile o quella femminile legata alla prostituzione, ossia si evita di discutere quella femminile più invisibile;

2) che le donne di etnia e nazionalità non italiana, in nome del rispetto della loro diversità culturale sono escluse dall'arena che discute o discuteva i modelli sociali, i ruoli.

Ossia le discussioni sui ruoli delle donne nella famiglia, nella prostituzione e nel lavoro paiono svolgersi in maniera non universale, ma riferita ai soggetti, come se dai diritti universali per soggetti passate ai soggetti universali con diritti specifici.

Anche all'interno del gruppo che ha svolto questa ricerca sono rimasti molti non detti, molte situazioni ambigue, come se per esempio alcune divisioni di ruoli fossero più accettabili per persone di altre etnie, come se le donne e gli uomini non si misurassero più né sui lavori né sui diritti, ma in realtà sulle persone che portano i diritti. In altre parole, il gruppo non ha affrontato, né questo gli era stato richiesto quell'incrocio difficile tra diritti, tra diritti universali e comunità, tra eguaglianza ed il possibile riversarsi nel lavoro delle diversità culturali. Il gruppo non ha altresì, né era suo compito, discusso quali sono i modelli sociali che emergono dalla reintroduzione in Italia del lavoro servile e domestico, e di quali saranno prezzi che lasceremo da pagare a generazioni future di donne - in termini di ruoli, modelli e lavoro - e ai figli, sia agli immigrati di seconda generazione che ai residenti da più generazioni.

Le domande restano, anche se non formulate: c'è da chiedersi per esempio se la presenza e la promozione di lavoro domestico e di cura retribuito, nelle forme che sta assumendo oggigiorno, non contribuisca al rafforzamento dei modelli stereotipati della struttura familiare, e a sua volta che modello societario ne emerga.

Ci si chiede anche quante di queste donne non abbiano avuto la libertà di scegliere altri lavori, oppure quanto il modo in cui è organizzata questa società incida su questa scelta. Hanno accettato questi lavori con rassegnazione e senza aver avuto la spinta, partendo da sé per cercare altro lavoro? Se questo è vero, quali sono le implicazioni di un inserimento con ruolo subalterno con un'identità debole? Come si tradurrà in termini sociali il fatto che il mercato del lavoro domestico sempre di più è un mercato di donne immigrate, e certamente quasi esclusivamente di donne?

Credo che uno dei motivi per cui il gruppo non ha discusso questi aspetti è che vi sono delle incertezze e delle differenze di opinione, e forse, nel concludere questo lavoro l'unica cosa che si può dire è che è ora di iniziare dei dibattiti più fondati sulle diverse opinioni e teorie sul lavoro domestico, l'immigrazione e lo stato sociale in questo incrocio, invece di restare ingabbiati tra l'essere pro o contro. La discussione forse deve andare oltre al razzismo e all'antirazzismo, modelli sul lavoro e diritti delle donne.

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2.4. Fatima Ahmed Ibrahim

Sudanese Committee against Violation of Women's Human Rights

A proposito del diritto al lavoro e della nostra via all'eguaglianza, ricorda che già Maurice Morgan - l'antropologo americano - parlava del sistema schiavile come radice dell'ineguaglianza delle donne. La maggioranza delle donne europee è oggetto di discriminazione. Riguardo alla situazione nel suo paese, ricorda che secondo il Corano le donne sono inferiori agli uomini perché ne sono economicamente dipendenti. Alcuni dicono che di ciò è responsabile l'Islam, altri che è a causa della concentrazione di potere politico nelle mani di uomini che discriminano - e lei è d'accordo con questa posizione. Sta di fatto che la disuguaglianza è profondamente radicata nella struttura della società. Le organizzazioni femminili non sono unite ed i mass media si occupano più delle differenze di genere che dell'importante ruolo delle donne nella società.

Ricorda il colpo di stato del 1958, sostenuto dalla Cia, in cui tutti i partiti politici furono interdetti. Nel 1962 si costituì l'associazione delle donne sudanesi. Nel 1996 diventò autonoma e reclamò la presenza di ostetriche qualificate nei villaggi, aiutando inoltre le donne ad organizzarsi e a lottare per la democrazia ed i diritti umani. Nel 1965 Fatima fu eletta al Parlamento e chiese uguali diritti per le donne, uguale retribuzione e pari opportunità. Nel 1969 erano già stati compiuti dei passi in questa direzione, ma ora i fondamentalisti al potere hanno riportato l'orologio indietro e la loro battaglia deve ricominciare.

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2.5. Il lavoro delle donne: liberazione o alienazione?

di Djouer Amhis, Algeria

Quando parliamo del lavoro delle donne, abitualmente ci soffermiamo sui rapporti economici e sociali. Forniamo cifre, facciamo riferimenti storici. Presentiamo percentuali, diagrammi, e così via.

Ma i numeri non danno conto della vita reale. La storia delle donne è la storia della loro oppressione attraverso i secoli.

Sarebbe tuttavia interessante osservare la percezione del lavoro femminile da parte della società e le sue manifestazioni nella relazione di coppia, nei paesi di cultura patriarcale.

Come percepiscono gli uomini il lavoro fuori casa delle donne?

Come risentono, nel loro intimo, dell'intrusione delle donne nello spazio maschile?

Perché nel loro inconscio la partecipazione finanziaria delle donne alla vita familiare in qualche modo li disturba?

Quali sono gli effetti sulla vita di coppia a livello psicologico e del rapporto interpersonale?

Quali possibilità hanno gli uomini di adattarsi a questa nuova immagine? Come possono integrarvisi, senza traumi, senza perdere la loro identità?

Quello che dobbiamo sempre tener presente è che una dotta deve sempre più lottare per acquisire - non il potere - ma il diritto ad essere una persona indipendente.

Le donne nel mercato del lavoro sono davvero poche. Su un totale di 14.036.000, cioè il 48,69% della popolazione complessiva dell'Algeria, solo il 13,17% delle donne algerine hanno un lavoro, come rivela un censimento dell'ufficio nazionale di statistica. Esso mostra una "debole" presenza delle donne nel mercato del lavoro, al contrario dell'impressione generale secondo cui esse occupano scale più alte. Questo tasso nelle aree urbane è due volte più alto di quelle rurali, vale a dire il 17,5% contro il 6,2% secondo i risultati di un'indagine condotta dall'ONS nel 1996 su un campione di 6.146 famiglie, pubblicati su El Watan dell'8 marzo 1998.

Peraltro il giornalista afferma che le donne sposate non investono nell'ambiente di lavoro per ovvie ragioni "data la preminenza delle responsabilità e carichi familiari, come anche la mancanza di qualificazione" (1).

La disparità relativa alle opportunità di lavoro è flagrante. A parità di competenze, agli uomini viene data la priorità.

Come in grammatica, "il maschile prevale sempre".

Nell'ambito delle istituzioni scolastiche, ci sono misure disgustose: per passare alla seconda classe della scuola secondaria, la priorità viene data ai ragazzi, anche se le ragazze ottengono risultati migliori. Limiti prefissati prescrivono un'ingiusta selezione.

I genitori - specialmente quelli delle classi sociali inferiori - danno la priorità agli studi dei figli maschi.

Nell'ambito delle classi rurali, in particolare, le ragazze lasciano la scuola all'età di dodici anni, perché rappresentano una minaccia per l'onore della famiglia.

Assegnate a....

In ogni società e in ogni tempo, alle donne viene assegnato uno status del tutto "inamovibile".

Nell'Epistola ai Corinzi, San Paolo dice:"Come in tutte le assemblee dei Santi, le donne devono stare in silenzio..., dato che non è consentito loro di parlare. Devono essere obbedienti... e se desiderano un'informazione su qualche cosa, devono chiederla al marito, una volta a casa, dal momento che è inappropriato per una donna parlare durante un'assemblea".

L'8 marzo 1966, in occasione della giornata internazionale della donna, Boumedienne espose all'uditorio uno dei problemi che il governo algerino doveva affrontare in questi termini: "C'è il problema della disoccupazione. Quando c'è disponibilità di un lavoro, dev'essere offerto ad un uomo o a una donna? L'uomo deve starsene a casa mentre la donna va fuori a lavorare? Questo è il problema".

In un'intervista su Alger Republicain dell'aprile 1991, Ali Belhadj, leader del FIS, dichiara: "Il luogo naturale per una donna è la sua casa. In una società veramente islamica, alle donne non dovrebbe essere permesso di lavorare... Esse non producono beni materiali, ma quella cosa primordiale che è un Musulmano. La promiscuità è contraria alla moralità islamica. Le ragazze ed i ragazzi devono stare separati". (2)

Quando Khomeiny chiese alle donne iraniane di indossare il chador, di essere velate, ha inteso dare al velo un significato preciso. "Esso rappresenta il ripudio della dimensione economica delle donne".

Quando Ali Belhadj dice che "le donne non dovrebbero lavorare", che cosa fanno allora in casa?

Una risposta alla domanda posta alle donne è stata fonte di riflessione, il motivo di un questionario sul lavoro delle donne.

Una donna di casa alla quale chiediamo "Lavori?", risponde "No, non lavoro". Il che significa due cose: primo, che non lavora fuori casa, per un salario; secondo, che il lavoro di casa non è visto come un lavoro.

La nozione di lavoro è riferita solo alla produzione, al punto di vista economico?

Non è tempo che noi cogliamo l'aspetto meritorio di un lavoro assunto nel fiore dell'esistenza di una persona?

Lavoro di casa

Nelle società tradizionali - quelle patriarcali per la precisione - una rigorosissima organizzazione gerarchica usava stabilire la divisione dei compiti.

Una donna deve prendersi cura della famiglia, governare le faccende quotidiane, educare i figli e accudire il marito, essendo questi il pilastro della casa, colui che fa vivere. Spesso ho sentito dire: "Il cus-cus bianco fatto di grano era per gli uomini, perché lavoravano, mentre le donne venivano dopo, condannate a mangiare cus-cus di orzo". Così stavano le cose, una specie di contratto e nessuno avrebbe pensato di trasgredirlo. Era un modo di funzionare - ingiusto certamente - che assicurava l'equilibrio familiare e attraverso esso l'ordine sociale... Nelle società patriarcali, spesso chiuse, le evoluzioni ed i cambiamenti erano molto lenti; le donne non erano consapevoli della parte decisiva nella quale erano confinate. Col sorgere di nuove idee, rivendicazioni sociali, il movimento di liberazione delle donne ed i media, le donne affrontano la loro condizione con uno sguardo nuovo e allora una risoluzione di cambiamento romperà le immagini, i diagrammi abitualmente ammessi.

Le donne non vogliono più essere viste come oggetti, strumenti, ad uso altrui. Non accettano più la condizione di dipendenza che le aliena e le tiene in uno stato d'inferiorità. Una nuova percezione di sé stesse e della propria vita le aiuterà a farsi consapevoli di nuove prospettive.

Le nostre madri - donne del dovere - nate nelle società patriarcali, non avevano altra scelta che la sottomissione. Non avevano altri mezzi di sopravvivenza e di sicurezza. L'immagine della donna obbediente, "tagliata e manipolata a piacere", sta per lasciare il posto - sebbene molto lentamente e ancora parzialmente - all'immagine della donna economicamente indipendente.

Le difficili condizioni economiche obbligano le donne a praticare una professione per provvedere ai bisogni della famiglia: sia sul mercato, nel campo della salute, dell'educazione, dei media, sia in casa nei mestieri non riconosciuti di pasticciera, tessitrice, sarta, ricamatrice, fornaia.

Il patriarcale

Nel corso della storia delle società troviamo una evidente relazione tra padre, potere e Dio. Le donne sono state costantemente e deliberatamente escluse dalla conversazione, dagli spazi sociali...

Le monarchie basate sulla legge divina hanno visto diminuire o sparire il proprio potere. "L'assassinio del Re è un simulacro dell'uccisione di Dio, esso stesso essendo il simulacro della morte del padre". (3)

Le donne che vogliono emanciparsi attraverso il lavoro prima dovevano affrontare l'autorità e lo sguardo del padre, del fratello, dello zio, dei vicini, di tutta la comunità maschile.

La lotta delle donne algerine non può trascurare tutto ciò che è società, l'importanza delle tradizioni, dell'atavismo, delle esperienze culturale, tutto ciò che forma la personalità e definisce la gerarchia sociale. Questa lotta non può essere paragonata a quella di altri paesi di differente contesto. È importante adattare a ciascun paese differenti forme di lotta.

Ad andare troppo veloci si corre il rischio di pericolosi contraccolpi che possono sfociare in effetti opposti a quelli desiderati. I mutamenti devono avvenire progressivamente, disponendo le strutture dell'apprendistato e dell'educazione che porteranno all'autoconsapevolezza.

La liberazione della donna è vista come un'assoluta violazione dell'ordine: quello divino, quello maschile. La religione è importante, tanto mentalità è compenetrata della paura di Dio. Il dibattito religioso perpetua il potere del sistema patriarcale. Questo aspetto dev'essere tenuto in considerazione. Le credenze religiose impediscono di discernere chiaramente e obiettivamente i veri problemi sociali. La paura dell'Altro è così forte che si pone come ostacolo insormontabile per molte donne... La maternità - che nelle società patriarcali conferisce uno status privilegiato alle donne - no può essere messa in discussione in un giorno.

Solo il miglioramento dei livelli di esistenza e l'aspirazione ad una migliore qualità della vita possono cambiare le cose.

La sessualità, ristretta nei tabù sociali, sfugge al controllo degli uomini, una perdita di autorità percepita come un attentato alla "rejla", alla "virilità".

La scelta delle donne di decidere della propria vita, della loro maternità, della loro sessualità, "turba" l'ordine, e come in ogni cambiamento, la paura genera aggressività, violenza, meccanismi di autodifesa. Ancor più degli uomini che picchiano le mogli - purtroppo - la violenza più difficilmente tollerata, la più distruttiva, è quella delle parole che uccidono.

Alla sottrazione all'autorità, alla sovversione viene opposta un dialogo svalutante.

L'angoscia dell'identità e la paura di perdere la virilità accentua negli uomini la virulenza della discussione.

Il ruolo delle donne è sempre stato "naturalmente" assegnato. Questa nuova immagine di donna che decide di se stessa disturba nel profondo.

Come Souad Khadjia giustamente nota in "Per le donne d'Algeria": "Oggi, la giovane donna svelata deve prima lottare con se stessa per distruggere i clichés della superiorità maschile impressi nel suo immaginario sin dalla prima infanzia, dell'uomo violento, indiscutibile padrone e cercare in qualche modo di farlo apparire troppo comune, costringere se stessa a trionfare sulle paure dell'infanzia... Ma l'uomo algerino non può vederla... nel senso che neppure lui può vederla com' è, ma come la sua educazione gli ha fatto credere che ella sia".

"Invece, se l'uomo algerino lotta oggi contro le donne che sono realmente o simbolicamente svelate, è perché teoricamente parlando, le donne diventano reali. Esse cessano di essere totem e tabù nello stesso tempo. Svelandosi, esse sconsacrano se stesse. Diventano reali e chiedono di essere viste come sono. La loro immagine di donne fantasma che l'uomo può trasformare a suo piacimento, si muta in una realtà concreta con un corpo, una volontà, forse opposta alla propria, libere di scegliere l'immagine che esse vogliono avere". (4)

Una donna che rifiuta di essere rinchiusa, che rifiuta la riproduzione e la sottomissione, è vista come provocatoria. In ogni momento della sua vita si trova in situazioni conflittuali che la inchiodano, la alienano sempre più. Molestie, umiliazioni, pubblico disprezzo, ogni suo passo avanti è considerato un indebolimento del potere maschile.

È evidente, comunque, per le nostre società tradizionali, l'indipendenza economica è stato il primo passo verso la liberazione delle donne.

Ma la loro lotta non riguarda solo se stesse. Il fatto che le donne cambino, fa cambiare anche gli uomini? Questo, in un sistema sociale patriarcale, non è palese. Come si può accettare di perdere potere?

Il lavoro delle donne: un'alienazione?

Nelle nostre società in via di sviluppo, l'esempio del modo di attraversarle delle donne rivela quanto l'economia è importante.

Una donna lavora tutto il tempo. Si fa carico del lavoro in casa e fuori. È esausta ma rifiuta di smettere di lavorare fuori; ha un sacco di difficoltà. Non si fa niente per facilitare la vita alle madri lavoratrici: trasporti, asili nido, orari dei negozi..., come nota Djamila Amrane: "Una condizione da pariah nel mondo del lavoro". (5)

"Lavorare per le donne algerine non è un segno di progresso, né una conquista del mondo esterno, è solo una dura necessità di sopravvivenza".

Il suo supporto economico è necessario per migliorare le condizioni di vita della famiglia. Ma accade che l'uomo si appropri del suo salario e lo spenda a suo piacimento, sebbene la legge islamica permetta alle donne di disporre interamente dei propri beni.

Il lavoro delle donne non è apprezzato nelle società arabe del Nord Africa. Una legge araba promossa nel 1957 (articolo115) afferma:"Tutte le persone provvedano ai propri bisogni coi propri mezzi, ad eccezione delle mogli i cui bisogni sono a carico dei mariti" (6)

Il marito è così depositario della sua posizione di mantenitore dal momento che il suo ruolo è di mantenere la moglie. Se la sua identità è minacciata, tollera a fatica questa situazione: "Se la moglie parla e non obbedisce più al capo, l'identità culturale soffrirà uno shock mortale".

Come può un uomo accettare tale umiliazione? Il suo comportamento cambia in modo insidioso. Diventa odioso, insopportabile, aggressivo. La moglie si sente colpevole e si sforza di fare ogni cosa in maniera perfetta: lavorare fuori casa e allo stesso tempo compiacere il "capo". La paura di non essere piacenti... non è un'altra forma di sottomissione che depriva le donne e le coppie di miglioramento? Desiderio e potere vanno alla pari?

Anche la preparazione delle donne disturba. Prima le donne erano escluse dal sapere in generale. Non avevano neppure accesso al sapere religioso. Non andavano in moschea. L'eroina Fadhma N'Soumeur (7) si nascondeva dietro la porta per poter ascoltare le lezioni del maestro del fratello e raggiungere quella conoscenza che le era vietata.

C'è un unico detentore del sapere: lui. Solo lui sa. Un marito una volta disse alla moglie: "Non devo insegnarti niente, sai quanto basta". Secondo lui, parte della sua supremazia sarebbe svanita se qualcun altro avesse condiviso il suo potere. E dal momento che neppure prima condivideva alcun potere, la moglie diventava la causa della sua nullità.

A questo punto inizia una discussione svalutante e le donne si trovano imprigionate nel VERBO.

È comunque evidente che le donne non desiderano conquistare il potere. Vogliono solo affermare la loro identità di esseri umani indipendenti e cessare di essere ridotte ad oggetti sessuali. Cercano di migliorarsi fisicamente ed intellettualmente. Diventano soggetti attivi, determinati ad affermarsi.

L'indipendenza economica è certamente un passo verso la liberazione. Le condizioni delle lavoratrici le trasformano in personalità emergenti. Per essere donna, avere accesso alla propria identità, deve affrontare un sacco di ostacoli: ella è "depositaria" del suo ruolo di moglie e madre. La nuova immagine si compone con molta difficoltà.

Dopo tutto, continuano ad assumere la doppia giornata. Sebbene apparentemente il lavoro delle donne non è sempre liberante, resta non di meno una determinazione a resistere che fa del lavoro un passo nella lotta delle donne.

(1) El Watan, 8.3.1998

(2) Journal Horizons, 23.3.1989

(3) Jean Lacroix, Paternité et democratie, Revue Esprit, maggio 1947

(4) Souad Khodja, A comme Algériennes, pag.8

(5) Danièle Djamila Amrane Minne, Femmes au combat, La Guerre d'Algérie 1954-1963, pag.19

(6) Citata da Fatma Ait Sabbah in La femme dans l'incoscient musulman, pag.132

(7) Fadhma N'Soumeur nacque all'incirca nel 1830. Organizzò la difesa contro la penetrazione coloniale francese nella sua regione e lottò coraggiosamente.

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