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AWMR Italia - Associazione Donne della Regione Mediterranea

AWMR - 5a Conferenza Internazionale
Donne migranti e profughe nella Regione Mediterranea
Cipro - Limassol 26 - 30 giugno 1996

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Gli aspetti economici, politici, sociali, giuridici, culturali e psicologici della condizione di donne e uomini migranti e profughi nell'area del Mediterraneo sono stati discussi in quattro giornate - dal 26 al 30 giugno - d'intenso confronto fra donne provenienti da una quindicina di paesi rivieraschi, riunite a Limassol (Cipro), nella quinta conferenza annuale dell'Associazione delle donne della regione mediterranea (Awmr).

I "luoghi difficili" della Palestina, dell'ex Jugoslavia e dei Balcani, del Maghreb, della stessa Cipro, sono stati ancora una volta al centro, con il loro carico di sofferenze, deprivazioni, violenze, tragedie. Ma ci si è misurate anche, con mente aperta e volontà di risposte positive, col fenomeno nuovo - l'immigrazione di massa dal Sud e dall'Est - che sta cambiando la fisionomia, i pensieri ed i colori del continente Europa.

Le cifre che oggi parlano di 25 milioni di profughi nel mondo, di cui 20 milioni sono donne e bambini, e di 100 milioni di persone migranti legalmente riconosciute (poi ci sono gli "irregolari"), consentono solo in parte di percepire le dimensioni del fenomeno che da alcuni decenni investe massivamente anche l'area mediterranea.

Nella ricerca delle cause - quelle soggettive e quelle oggettive - che inducono donne e uomini a cercare la salvezza, o condizioni di vita migliori, nella fuga dalla propria terra, si elencano le guerre, la povertà, i conflitti interetnici, le persecuzioni politiche e razziali, che sono in gran parte, nella regione mediterranea, gli effetti del "nuovo ordine mondiale" che l'Impero ha imposto a popoli ed individui, sovrapponendosi al vecchio ordine coloniale e accentuando disuguaglianze e povertà, eccitando nazionalismi, razzismi e guerre.

Fanno parte di questo ordine i milioni di profughi palestinesi ancora violentati, privati del diritto a ritornare, ad avere un'identità nazionale ed un passaporto; i milioni di persone espropriate e deportate dalla guerra del Golfo, scatenata per quel petrolio dichiarato "vitale per gli interessi economici degli Usa"; il disfacimento post-guerra fredda dell'ex Jugoslavia, che ha prodotto i massacri e gli stupri di massa cui abbiamo assistito impotenti, ed ha portato, lo scorso anno, a tre milioni il numero dei profughi solo nella Bosnia Erzegovina.

Ma non è solo il "capitalismo selvaggio" - quello della corsa sfrenata al controllo delle risorse - a perpetuare disuguaglianze e terribili povertà: anche quello "regolato" dell'Europa di Maastricht nega ad immigranti e profughi, considerati niente più che oggetti di sfruttamento economico, non diciamo il diritto al benessere, ma perfino l'accesso ai servizi socio-sanitari, all'istruzione, ad un lavoro, ad una casa,alla possibilità di tutelarsi contro la violenza dentro o fuori della famiglia: in una parola, il diritto ad essere cittadini.

Le donne immigrate e profughe sono quelle che maggiormente subiscono le conseguenze della precarietà dovuta all'assenza di una seria politica immigratoria dei paesi europei, le cui legislazioni, spesso del tutto inadeguate e discriminatorie, alimentano il mercato della clandestinità e lasciano milioni di donne e bambini alla mercè della nuova prosperante "industria" della schiavitù fisica e sessuale.

Che fare? La complessità del problema non può essere d'ostacolo alla sua risoluzione. Risposte positive stanno venendo nei paesi di accoglienza proprio dalle associazioni di donne immigrate e profughe che, in collaborazione con le native, lottano per il riconoscimento dei loro diritti umani - non derogabili dalle legislazioni dei singoli stati, come il Forum e la Conferenza mondiale di Pechino hanno stabilito - e stanno lavorando alla definizione di un nuovo concetto di cittadinanza, non più vincolato alla nazionalità, ma che riconosca a tutti coloro che vivono e lavorano su un territorio i diritti civili, politici e sociali, come primo passo verso la costruzione di una società multiculturale.

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Relazione presentata da Ada Donno

Da indagini statistiche risulta che approssimativamente la metà degli immigrati nei paesi europei sono donne e che circa il 70% delle donne immigrate si trova in una situazione di irregolarità, senza alcun tipo di riconoscimento legale da parte del paese di accoglienza. Questo vuol dire che il 70% della popolazione femminile immigrata in Europa vive in condizioni di "invisibilità", priva dell'accesso a qualsiasi diritto.

Dal punto di vista del paese che eufemisticamente si definisce "accogliente", queste persone, semplicemente, non esistono e pertanto la "società legale" non si pone neppure il problema se abbiano o no accesso ai servizi socio-sanitari, all'istruzione, alla casa, ad un lavoro. E' più probabile che ad occuparsi di loro siano le questure e le cronache più o meno nere. La loro vita quotidiana è una dura lotta per la sopravvivenza, nella precarietà e nell'ansia di essere scoperte, perseguite e ricacciate nel paese di provenienza.

Quello che le cifre statistiche non dicono è che, per sopravvivere nella condizione di irregolari, le donne immigrate hanno davanti a sé due vie obbligate: il servizio domestico e il mercato della prostituzione, detti anche "i nuovi modelli di schiavitù" della società capitalistica postmoderna.

In molti casi, legislazioni inadeguate - contravvenendo alle normative internazionali sui diritti umani e d'asilo - non guardano neppure alla provenienza e alle cause che hanno indotto queste persone ad emigrare. Ad esempio, in Italia, in base alla legge in vigore, le donne algerine che per sfuggire all'integralismo sono state costrette a lasciare il loro paese, non trovano asilo perché non viene loro riconosciuta la qualità di rifugiate politiche.

Né, in genere, ci si sofferma a pensare che, se masse di persone cercano la salvezza o migliori condizioni di vita in Europa, è per ragioni che hanno a che fare con l'iniquo rapporto fra nord e sud del mondo, nel quale abbiamo qualche responsabilità. L'emigrazione è spesso una risposta a problemi drammatici come le guerre, le crisi economiche endemiche dei paesi del cosiddetto terzo mondo, le persecuzioni etniche o dei fondamentalismi religiosi, che sempre più spesso colpiscono proprio le donne. Eppure l'immigrante, uomo o donna che sia, in Europa trova, indifferenza, spesso intolleranza, e comunque sentimenti non amichevoli, se non reazioni xenofobe e razziste. Ma anche anche quando non si raggiungono questi estremi, è molto difficile che un'idea semplice come la condivisione dei diritti passi nel cosiddetto "senso comune".

L'Europa economica finora ha visto gli immigranti ,in generale, come oggetti di sfruttamento, senza peraltro riconoscere la loro partecipazione all'economia dei paesi europei; l'Europa politica, nella migliore delle ipotesi, li ha visti come oggetti di politiche sociali assistenziali e di politiche legislative sull'immigrazione che interpretano i diritti di cittadinanza in modo così restrittivo, da non coincidere sempre con i diritti inalienabili della persona.

In una economia globalizzata dove capitali, merci e persone (se occidentali e benestanti) si spostano liberamente, l'unico movimento che si vorrebbe impedire è quello dei poveri del mondo, dopo che ai loro paesi è stato succhiato il sangue. Ed è significativo che siano proprio coloro che invocano a gran voce la libertà di mercato, a negare libertà alle persone che provengono dal cosiddetto terzo mondo.

Le donne immigrate sono quelle che maggiormente subiscono le conseguenze della precarietà causata dalla mancanza di una seria politica immigratoria, dovendo affrontare difficoltà che riguardano il loro status legale, la sicurezza sociale, la salute, la stabilità della famiglia, il lavoro, l'identità culturale.

Ma proprio le donne stanno rapidamente imparando a combinare, con grande forza politica, i bisogni quotidiani con la comprensione dei fenomeni economici e politici più complessivi. A partire dalla Conferenza del Cairo su Popolazione e sviluppo, passando per il Vertice di Copenhagen sullo sviluppo sociale, fino alla quarta Conferenza mondiale delle Nazioni Unite a Pechino, dove il Caucus sull'immigrazione è stato capace di portare validi emendamenti alla Piattaforma d'Azione, le stesse donne immigranti, in collaborazione con le donne native, si stanno organizzando per diventare interlocutrici dei governi nazionali e della comunità internazionale.

In Italia nel marzo scorso, si è costituito un Forum permanente di donne immigrate ed italiane, a conclusione del convegno nazionale "Migranti e native, cittadine del mondo", tenutosi a Torino, e si sta sviluppando una rete di gruppi ed organizzazioni di donne di diverse provenienze, interessate ad interagire tra loro e a diventare competenti interlocutrici delle forze di governo.

Seguendo un percorso che parte da desideri (di una società interculturale, non etnocentrica nè eurocentrica) passa per i bisogni, per arrivare ai diritti, le associazioni delle donne immigrate assieme alle associazioni delle native in Italia e in altri paesi europei stanno definendo una nuova "carta" dei diritti dei cittadini e delle cittadine, che comprenda i diritti delle immigrate e predisponga il terreno per una nuova definizione del concetto di cittadinanza, che sia comprensiva di tutti coloro che vivono e lavorano su un territorio, anziché essere vincolata ad una nozione giuridica di nazionalità.

Ripensare la cittadinanza richiede una riflessione che attraversi tutti i terreni: giuridico,sociale, economico, politico, culturale, e che coinvolga, sulla base di un effettivo rapporto di scambio e mediazione, gli immigrati e le immigrate, costituiti in soggetti sociali organizzati.

Il Forum di Torino ha segnato un punto alto del confronto e della riflessione delle donne italiane ed immigrate.Nel documento "Costruire l'Europa con occhi di donna", che esso ha presentato il 22 giugno scorso, in occasione della conferenza intergovernativa per la revisione del trattato di Maastricht, si dice:"...la costruzione di una nuova Europa deve partire dal riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali di tutte le persone che si trovano a vivere per nascita o per immigrazione sul territorio europeo.

E' inaccettabile che il Trattato di Maastricht escluda dalla cittadinanza europea gli immigrati che provengono dai paesi cosiddetti "extracomunitari". Ai governi dell'UE chiediamo che la politica sociale in Europa assuma valore obbligatorio nel nuovo trattato; che i diritti di tutte le donne vengano considerati diritti umani, non derogabili dalle legislazioni dei singoli stati e riconosciuti anche ai fini del diritto d'asilo, come il Forum e la quarta Conferenza mondiale di Pechino hanno stabilito; che le legislazioni europee si uniformino nel riconoscimento dei diritti civili, politici e sociali a tutte le persone che abitano nei paesi dell'UE, a prescindere dall'identità nazionale (e pertanto decadano le norme discriminatorie contenute nelle diverse legislazioni, compresa quella italiana, e si apra una fase di regolarizzazione effettiva di coloro che sono presenti clandestinamente sul territorio dei paesi europei; che i finanziamenti rlativi ai diversi fondi strutturali, occupazionali e per la formazione privilegino i progetti delle donne ...; che le autorità locali siano aiutate economicamente nelle politiche a favore dell'immigrazione e che siano sostenuti i progetti di cooperazione a favore delle donne.

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