42 ASCESA AL MONTE BIANCO.
!942,Malgrado
la guerra, la nostra famiglia si concesse il lusso di, abbandonare
Piano di Sorrento, dove abitavamo, ed attraversare in treno più che mezza
Italia per trascorrere una vacanza a Courmayeur, o come allora si chiamava, secondo
le direttive del governo fascista, Cormaiore. Le fortune dell'Asse e dei suoi alleati
giapponesi, sembravano all'apice. In Africa settentrionale le truppe italo-tedesche
si erano spinte in profondità nel territorio dell'Egitto fino ad El
Alamein , in Russia, era terminata l'avanzata facile, ma i tedeschi erano ancora,
spesso, all'offensiva e comunque ben dentro il territorio dell'U.R.S.S.. Nel Pacifico
i Giapponesi sembravano dominare ovunque. In realtà la situazione era tutt'altro
che rosea. Sui fronti africano ed occidentale, presto il coinvolgimento degli U.S.A.,
avrebbe capovolto la situazione, e costretto l'asse a continue sconfitte e ritirate.
In Russia la dissennata strategia di Hitler, che ostinandosi a sottovalutare la
saldezza morale degli "inferiori popoli slavi destinati a servire il popolo tedesco
per il prossimo millennio" perseverava nell'attaccare in tutte le direzioni. In
tal modo si disperdeva il potenziale offensivo delle armate dei tedeschi e dei loro
alleati, ancora allora, tutt'altro che trascurabile, sottoponendole, nell'immensità
di quel territorio, ad un irreparabile logorio, che non poteva che portare alla
sconfitta. I giapponesi sembravano avviati ad un successo inarrestabile, nei comunicati
imperiali, si annunciavano continue vittorie. Anche la
battaglia delle Midway, veniva dipinta come un successo, pur ammettendo la perdita
di una portaerei. La realtà era ben diversa! La fortuna aveva voltato le
spalle ai nipponici, ed il mutato rapporto di forze, non poteva che condurli alla
disfatta.
Nella beata ignoranza di tutto ciò, mi accingevo, con la mia famiglia, ad
una vacanza diversa, a scoprire la montagna, presso le sorgenti della Dora Baltea
il cui alto corso era dominato dalla catena del Bianco. Una bella audacia percorrere,
con tutta una masnada di bambini, più di mille chilometri in ferrovia!
Probabilmente per le lunghe dormite, conservo pochi ricordi della maggior parte
del viaggio, che deve essere stato interminabile; la memoria si riaccende, riguardo
all'ultimo tratto. Sbarcati dal treno Torino-Aosta
, ci trasportava nell'alta valle, un convoglio composto da materiale
rotabile leggero. Correvamo in un fondovalle fiancheggiato da montagne via via
più incombenti, tra le quali cominciava a tratti a rivelarsi il biancore,
per me nuovo, di vasti ghiacciai. Attraversavamo villaggi dove, sempre più
spesso, le pareti delle case erano fatte di muratura di pietre cavate da rocce cristalline
scistose, nude da ogni intonaco e dove i tetti erano coperti da grigie lose, splendenti
di mica, della stessa natura lapidea. Alle frequenti fermate, salivano e scendevano
passeggeri tanto diversi dai sorrentini, appena abbandonanti. Avevano visi segnati
o insolitamente rubicondi, abiti dimessi e dialogavano in un incomprensibile patoi.
Dal loro atteggiamento pareva trapelare se non ostilità, quantomeno un ironico
sprezzo per, chi come noi, estranei, irrompevamo in queste loro valli.
Durante quella vacanza a Courmayeur, dove vivevano i nonni materni, le
gite si moltiplicavano e l'allenamento me le rendeva sempre più agevoli da
affrontare. Quando appresi, in settembre, quasi al termine della nostra avventura
valdostana , del progetto di affrontare la scalata del Monte Bianco da parte di
Zia C. e del suo ospite, padre G. ,uno di quei preti, dell'Istituto germanico di
Roma vestiti, allora, con tonache rosse, mi proposi di parteciparvi. Avevo poco
più di quindici anni. Mamma acconsentì, e così si diede inizio
ai preparativi. Calzavamo allora scarponi, con la suola di cuoio, chiodati, spesso
dal calzolaio per rinnovare il ferro che si perdeva di continuo. Tutto l'abbigliamento
e l'attrezzatura, non solo nostre, ma anche delle guide e portatori, professionisti
della montagna, era ben lontano dalla specializzazione, e dalle pretese estetiche
di oggi, i sacchi da montagna, ad esempio, erano informi involucri a imitazione
degli zaini militari. Dubito, addirittura, che disponessi di una giacca a vento,
mancavo poi del tutto di attrezzi specifici per la salita sul ghiaccio. Corsi ad
affittare piccozza e ramponi.
alla Villette. Là i fratelli
Grivel, avevano la loro officina di fabbri, in un capannone di legno, presso
il corso turbinoso della Dora Baltea, il cui frastuono sovrastava ogni cosa. Dal
fiume era prelevata l'acqua che, incanalata, muoveva le macchine usate per costruire
gli attrezzi, principalmente: stupende piccozze, chiodi da roccia e da ghiaccio,
ramponi a dieci ed a dodici punte. Non dovetti dormire molto tranquillamente, l'ultima
notte, alle sette varcai il portoncino della nostra casa, con il mio sacco, gravato
di maglioni, guanti di lana, il ferro dei ramponi. Mi rivedo nitidamente su quella
soglia della nostra casa al Pussey, nel
silenzio e nell'aria fresca del mattino, con la piccozza
in mano, avviarmi, all'appuntamento, al ponte sulla Dora per la Val Veny, con
zia C, padre G. ed Aldo Ollier
la guida. L'Ollier, discendente da una famiglia di famosi montanari ed alpinisti,
non aveva niente di epico. Era un omettino minuto, con una voce acuta, un paio di
baffetti, alla ClarK Gable su un viso dal mento appuntito. Portava un feltro grigio
scuro, una giacchetta corta, pantaloni knickerbockers, ed una piccozza più
piccola e maneggevole della mia. Iniziava una lunga marcia, che, contando sui soli
nostri mezzi fisici, con brevi interruzioni, si sarebbe protratta per oltre un giorno
e mezzo. In quei tempi di guerra, non cerano disponibili automobili e, forse, era
lontana dalle nostre menti l'idea stessa di agevolare l'avvicinamento alla base
di un faticoso percorso alpinistico, che avevamo scelto di affrontare per diletto
e per una sfida con noi stessi. Percorremmo il fondo della Val Veny, famigliare,
fino al Lago del Miage, già oltre i 2000 m, un lago formato con l'acqua della
Dora di Veny trattenuta dal fronte del ghiacciaio e dagli ammassi morenici, che
sbarrano la valle. Là ci fermammo per rifocillarci. Poi cominciammo la salita
della morena. Procedendo in fila
indiana sul sentiero a tratti ripido e tortuoso, venni ad occupare la posizione
subito dietro quella di Aldo Ollier, ebbi così modo di osservare il suo passo,
così diverso da quello di noi inesperti, discontinuo, a piccoli balzi, inframmezzato
da sdrucciolate e brevi corse per ricuperare il tempo. Alzava da terra la pesante
scarpa, l'avanzava, la disponeva parallela al brano di suolo sul quale avrebbe aderito,
vi appoggiava su il peso, con un moto lento e continuo, senza scatti né variazioni
di velocità, con la massima economia di energie, ma quasi senza soste, ben
sicuro l'appoggio, prima di iniziare con l'altro piede il passo successivo. Provai
ad imitarlo, e poco a poco, senza che la fatica prevalesse, avanzavamo,
risalendo il declivio dolce del ghiacciaio, che montava con una pendenza media del
10%. Il sentiero, a tratti appena marcato, ci condusse alla base della croda rocciosa
(m 2808) che, scendendo dalle Aiguilles Grises divide la parte alta di quello del
Miage dal Glacier
de Dôme De Gouter . Qui prendemmo ad inerpicarci per il ripido percorso
che conduce al rifugio Gonella,
mentre il sole scompariva dietro le alte creste e là, dove il riflesso dei
ghiacciai non ne attenuava l'oscurità, ombre dai confini netti, sembravano
inghiottire le falesie, esposte a nord ed a levante. Ad un tratto si udì
lo scalpitio di passi pesanti. Qualcuno sveltamente, scendeva dalla montagna. Era
Belfrond, il portatore, custode del rifugio, che aveva deciso di tornare a passare
la notte a valle. La stagione avanzata, e la guerra, rendevano scarsi gli alpinisti,
quanto al nostro arrivo, non avevamo potuto avvisarlo, perché il rifugio
non disponeva di telefono. Si fermò a confabulare, nel loro incomprensibile
patois, con Aldo, poi prese a risalire il sentiero con noi. Strabico da un occhio,
era un uomo dalla corporatura possente. La sua forza era proverbiale a Courmyeur.
Di lui sentirò dire, in seguito, non so con quanta concessione all'iperbole,
che caricatasi la moglie, in doglie, sulle spalle, l'aveva portata fino al villaggio,
scendendo dal rifugio. Giungemmo verso le ventidue sul breve spiazzo, all'ingresso
del Gonnella, (m 3071) il buio ere già profondo, il cielo così nero,
forato da lucentissime stelle, come può esserlo solo a tremila metri. Qualche
straccio di nube, che non avevo notato, stazionava sul Glacier du Dôme, che
avremmo dovuto percorrere per continuare la nostra scalata, limitando troppo la
visibilità. Così, il breve riposo, di non più di due ore, che
avremmo dovuto concederci, si prolungò fino alle due di notte. Ci eravamo
coricati, vestiti, sui pagliericci, dopo aver mangiato una minestra calda, cucinata
da Belfrond. Il sapore era forte, conteneva, infatti, fette di salame un po' irrancidito,
e sul suo pelo galleggiavano grosse bolle di grasso. La durezza del giaciglio, l'alta
quota e l'emozione, impedirono che il sonno mi dominasse completamente, giacevo
in dormiveglia. I due montanari si alzavano spesso, ed uscivano per vedere, se "le
brouillard", si fosse diradato. Quando a loro parve che così fosse, ci destarono,
e dopo brevi preparativi, ci ritrovammo nel freddo e nel buio della notte, rotto
solo dal brillare delle stelle e dalle flebili fiammelle delle candele delle lanterne
delle quali erano dotati i nostri accompagnatori. Prendemmo a zigzagare legati in
cordata, nell'ordine: Ollier, zia C., Padre G., io ed il portatore. Vagavamo alla
ricerca di ponti sui crepacci, ridotti al minimo, in numero e consistenza, dalla
stagione avanzata. Nei tratti più ripidi e gelati, se era necessario, la
guida intagliava con la sua piccozza gradini nel ghiaccio. Di quando in quando,
i nostri montanari, si fermavano, scrutavano, frugando il buio con quelle loro lanterne
dalla luce tenuissima e si consultavano, per ritrovare le "trazze" - difficile rendere
i suoni gutturali e spigolosi del loro patois -. come chiamavano le tracce delle
precedenti cordate. Non sentivo la stanchezza, anche se cominciavo a provare quel
senso di soggezione verso la vastità dei quattromila, che mi andrà
prendendo sempre più, man mano che procederà l'ascensione, fino a
divenire quasi sgomento, sentimenti che perdureranno a lungo nel ricordo. Poco a
poco con le luci dell'alba si faceva chiaro. Non avevo quasi occhi per contemplare
lo splendore delle creste innevate che si tingevano di rosso, via via sbiancando
fino a divenire abbaglianti, preso com'era il mio sguardo ad individuare dove posare
il piede, con i ramponi da ghiaccio calzati. Ollier, ci aveva spiegato che il piede
va posato il più possibile parallelo al pendio, perché tutte le punte
facciano presa, che va levato ed avanzato ben discostato dalla gamba opposta, per
evitare che le punte si impiglino, nelle calze o nei calzoni, provocando inciampi
e ferite. La luce era piena quando raggiungemmo la cresta
di Bionassey, avevamo già superato i 4000. Mi sembrava di essere già
prossimo alla cima. Male si apprezzano, a quella quota, le distanze per la mancanza
di oggetti di dimensione nota, quali alberi o fabbricati, per l'assoluta trasparenza
dell'aria rarefatta priva di quelle velature che normalmente evidenziano le lontananze.
Ollier ci indicò una cordata sul crestone
delle Bosses. Mi aspettavo di vedere degli omini alti almeno quanto una falange
del mignolo, ma non scorsi che dei minuscoli puntini; quanto eravamo lontani ancora
dall'agognata cima!. Fu solo un momento di disappunto, poi ripresi con lena. La
cresta è affilatissima, vedevamo alla nostra sinistra, ci sembrava a picco
sotto di noi, le strade e le case della Vallée de Chamonix, a destra i ghiacciai
che avevamo risalito. Lo sguardo, poi, si perdeva su lontananze inusuali, interrotte
solo dalle nubi che stazionavano qua e la su crinali e vette. La nostra
ascensione ci portò, superata la cresta affilata, ai grandi mammelloni del
col du Dôme. Qui, valicammo il confine con entrambi i piedi, sulla cresta,
in precedenza, era come se il piede destro fosse straniero al sinistro, mi trovai
per la prima volta all'estero. Là, a 4362 m, sorge la capanna
Vallot. E' un rifugio
tutto in alluminio, elevato su uno sperone roccioso, unica eccezione in una distesa
dove dominano il ghiaccio, o meglio, la neve eterna che lo ricopre. Su quel dosso
convergono, con la nostra, le vie normali dal versante Francese, qui trovammo uomini
di quel Paese che avevamo trattato da nemico, ed invaso. Non che provassi rimorso,
poiché, condizionato dalla propaganda fascista, ritenevo la nostra guerra
giusta e sacrosanta, ma un leggero senso di imbarazzo doveva annidarsi nel profondo.
Tra i nostri montanari valdostani e gli chamoniards, c'era perfetta intesa, con
noi fredda cortesia. Più affabile l'incontro con una coppia di alpinisti
cittadini, francesi, che si intrattennero, a conversare, interrompendo per un prolungato
momento il cammino, con la zia ed il prete tedesco; mi sembrò di respirare
una consolante aria di pace, che contrastava con il mio animo modellato alla bellicosità,
bisognava essere proprio nemici?!. L'interno del rifugio, non era proprio caldo,
e vi stagnava una forte umidità, il fiato delle nostre narici si condensava
in nuvolette di vapore. Ci venne servito un te bollente, e ci rifocillammo e riposammo
per qualche momento. Ma a causa della nebbia della notte, eravamo in ritardo sul
programma di marcia e non potemmo indugiare a lungo. La cima pareva lì ad
un passo, mammellone di poco conto. Ma ancora una volta la prospettiva della montagna
mi aveva ingannato, c'erano, ancora, più di quattro chilometri da percorrere,
con un dislivello di poco meno di 450 m. Quest'ultimo tratto è senza alcuna
difficoltà alpinistica, ma eravamo vicini ai 5000, l'ossigeno a quelle quote
è rarefatto e la fatica si faceva sentire, più di quanto mai prima.
Era quasi mezzogiorno quando fummo in cima, la mia casa e tutto il villaggio laggiù,
erano nascosti dallo sperone del Monte Bianco di Courmayeur. Niente intorno, per
distanze smisurate, era più alto di noi, ma la calura aveva ispessito la
caligine nelle valli e lontano non si riuscivano a distinguere i dettagli del panorama.
Non ci fermammo che per un poco, Ollier ci sollecitava per il ritorno, e si riprese
a camminare, ora in discesa. Tornava ad abbondare sempre più, con il calare
della quota, l'ossigeno e tornavano come per miracolo le forze; la marcia di ritorno
così non ebbe storia. Forse ero un po' stordito dalla fatica, ma le gambe
andavano ormai da sole. Quando varcammo ancora una volta la soglia del rifugio
Gonella , ci accingemmo ad una breve sosta. Sbocconcellammo qualche vettovaglia.
Belfrond, raccolse le sue cose, ora avrebbe chiuso definitivamente il rifugio, e
sarebbe venuto in valle con noi. Aveva una bottiglia di grappa da svuotare e la
fece girare tra noi. Forse era la prima volta che bevo un sorso di acquavite, e
per me cominciò una tortura. Alcol e stanchezza mi giocarono un brutto tiro,
la testa mi girava, un senso di pesantezza mi perseguitava sgradevolmente per tutta
la discesa fino al Lago del Miage, obbligandomi ad una continua, faticosa, voluta
concentrazione, per mantenere l'equilibrio. Smaltita
l'ebbrezza ripresi a camminare, leggero, con i miei compagni di cordata, nel buio
della Val Veny. Era mezzanotte quando varcai finalmente la porta di casa. Mi accolse
mamma, che, se era stata ansiosa, lo celava assai bene. Non so quanto dormii, ma
il sonno la fece da padrone completamente, per lunghe ore; quando riaprii gli occhi
doveva essere già pomeriggio avanzato. La grande gioia e le emozioni provate
a causa della ascensione al tetto d'Europa mi avrebbero pervaso per lungo tempo.
Mi sembrava di aver compiuto una vera e propria impresa, io che venivo dal mare
e avevo appena cominciato a conoscere, la montagna, quella alta dei ghiacciai e
del respiro affannoso, anelante allo scarso ossigeno dei 4000. Ma non tutto consonava
con quella gioia. Papà, laggiù a Sorrentro, non era stato informato
in anticipo; la decisione era stata presa in tempi assai brevi; allora il telefono
era di difficile accesso, praticamente per noi un tabù. Il consenso di mamma
era stato immediato, senza tentennamenti. Per me l'autorità dei genitori
era una ed indivisa, l'approvazione dell'una comportava automaticamente quella dell'altro.
Forse, nell'intimo, troppo mi allettava la prospettiva dell'escursione e, paventando
difficoltà impreviste, mi ero buttato sulla cosa a corpo morto. Al ritorno
non mancai di comunicare a papà l'epica avventura, con poche righe piene
di entusiasmo, ma sciatte, come erano di solito i miei scritti. A stretto giro di
posta, arrivò la risposta, ma non fu di plauso. Papà, benché
amasse passeggiare, nuotare, godere della natura, non era un'entusiasta delle prestazioni
fisiche e non passò sopra a quello che riteneva un rischio. Ero poco più
che un adolescente, dal fisico ancora in sviluppo. Il mio cuore, che aveva, di fatto,
retto così bene, a quelle quote avrebbe potuto "scoppiare", furono proprio
queste le parole. Ne fui dispiaciuto, ma non tanto da impedirmi di continuare a
gioire.
Un'altra piccola ombra era proiettata dalla mancanza di una documentazione fotografica, che testimoniasse la mia presenza lassù. Ero ben lontano dalla passione per la fotografia che mi avrebbe poi dominato, ma evidentemente da un germe di quella febbre ero stato contagiato, seguendo l'esempio del nonno e di papà. Pietoso medico a quel male fu l'affettuosa zia G. che mi indusse ad un falso, e ne fu regista ed operatrice. Ricuperati, piccozza e ramponi, indossati gli abiti dell'ascensione, un lenzuolo fu steso su un dossetto nei prati, dietro la casa del nonno, sul quale posai, con occhi che guardavano lontano, mentre la zia mi ritraeva contro il cielo, tagliando fuori dall'inquadratura, fratelli e cugini che giocherellavano intorno, i panni stesi ad asciugare, le modeste staccionate, i fili d'erba e quant'altro non consono con i 4000.
Il Monte Bianco ancora una volta e mezzo
Sul Monte Bianco tornai ancora dopo molti anni, nell'estate del 1951.
Partiti dal rifugio, le prime luci ci trovano mentre arrampichiamo sul ripido pendio
del ghiacciaio, del Mont Blanc du Tacul, avanti
Panei, poi il pretino, io a chiudere la cordata. Eravamo
già un pezzo avanti, quando sul Mont Moudit, scoppiò un temporale.
Gigi ci diede l'ordine di invertire la rotta, ci girammo rapidamente, io che ero
in discesa il primo, fin troppo velocemente, tanto che inciampai con una punta dei
ramponi e presi a scivolare, ebbi, fortunatamente la prontezza di piantare con forza
il becco della piccozza nella neve dura arrestandomi prima che la corda andasse
in tiro coinvolgendo nella scivolata il prete rumeno che difficilmente mi avrebbe
tenuto. Ricordo l'occhiata di Gigi, ma non arrivai a sentire gli accidenti proferiti
o forse Panei riuscì a trattenersi. Il resto del ritorno fu senza alcunché
di rilievo. Gigi mi confidò, al rifugio Torino, che se l'era vista brutta,
dubitando di essere in grado di tenere due corpi in scivolata su quel ripido ghiacciaio.
Dando ancora una volta prova della sua generosità, la nostra guida non volle
alcun compenso.
Dopo una quindicina di giorni, il rumeno tornò a Courmayeur. Essendo Panei
occupato, mi rivolsi ad un altro amico,
Sergio
Viotto non meno di Gigi, disponibile a far favori, era altrettanto valido alpinista,
tanto da essere scelto, negli anni successivi, per la spedizione al K2. Sergio era,
oltre che guida, anche falegname. Allora gli sci erano tutti di legno, quasi tutti
senza soletta e richiedevano una frequente manutenzione. Spesso tornando dallo sciare
passavo dall'officina di Sergio, per farmi dare sotto gli sci una mano di quelle
speciali lacche che rendevano gli sci più scorrevoli. Se non era per la lacca,
sostavo nella falegnameria per sostituire qualche pezzo delle lamine, che era rimasto
su per i pendii, o anche solo qualcuna delle vitine che le fissavano agli sci ,
che spesso e volentieri saltavano o si troncavano. Questa volta tutto andò
per il meglio e, seguendo lo stesso percorso previsto con Panei, giungemmo in cima
e ritornammo a valle senza intoppi, od ostacoli salvo un poco di fatica supplementare
al ritorno per la neve molto bagnata e pesante. Ricordo, con nostalgia queste ascensioni
e non meno intensamente ricordo con affetto questi amici, gli ultimi due dei quali
, le guide Gigi e Sergio, che, purtroppo, amanti della montagna, dalla montagna
ebbero, negli anni a venire, strappata la vita.
Links
.
http://it.wikipedia.org/wiki/Via_normale_francese_(monte_Bianco)
http://www.caichatillon.it/SitoCai/relazioni/bianco.htm
http://www.montagneinvalledaosta.com/sito/pagine/alpinismo/032.asp
http://www.volomania.it/photogallery/Monte%20Bianco/photos/photo3.html
http://www.inmontagna.org/thumbnails.php?album=74&page=11
http://www.scuolascimontebianco.com/Storia.asp
http://gguzzardi.interfree.it/storia.htm
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