Zen e pittura
(da G. Bigliani, "Pittura zen", Ed. Stampa alternativa", Terni, 1994)

Esprimere l'inesprimibile, comunicare l'incomunicabile: non era forse questo l'intento apparentemente paradossale di Shâkyamuni il Buddha quando, riunitosi con i propri discepoli sul Picco dell'Avvoltoio, alla richiesta di pronunciare un sermone sulla Legge (l'Eterno) non fece che tenere sollevato un fiore e, rimanendo in perfetto silenzio, rigirarlo tra le dita? Se fu veramente questa l'intenzione di Shâkyamuni, possiamo intuire perché, secondo il leggendario racconto, nessuno dei numerosi presenti riuscì ad afferrare il significato profondo del gesto del Maestro: come qualsiasi altra cosa o evento dell'universo, esso non voleva e non poteva significare assolutamente niente - e perciò significava assolutamente tutto.

Nessuno fu in grado di comprendere, e nessuno parlò: soltanto Kashyapa il Grande, incontrando lo sguardo del Buddha, ebbe limpida la rivelazione di quell'immenso Nulla e, in disparte, ne sorrise; e per quel suo sorriso senza parole fu ritenuto il depositario dello 'speciale' messaggio del Risvegliato e di tutto il suo sublime insegnamento. Come dice una poesia del Mumonkan, la "Porta senza Porta" del celebre maestro zen Ekai, soprannominato Mumon ("Senza-porte"):

Nel mostrare un fiore
il suo segreto è rivelato.
Kashyapa si apre in un sorriso:
l'intera assemblea non sa cosa fare.

È questo il cuore antico dello Zen. Vitalissima e originale scuola buddhistica di meditazione 'ad alta tensione' (non sempre affidata all'atteggiamento meditativo formale dello zazen), essa sempre volle essere, e fu in realtà, espressione autentica e immediata della suprema esperienza del Risveglio: cioè di quella visione folgorante (satori) della propria vera natura -il Vuoto - capace appunto di 'ridestarci' dal grande sonno di sofferenza e d'angoscia dell'esistenza umana. Di quest'ineffabile esperienza, conducente al nirvana (la vera Saggezza ove nella coscienza cessano gli stati dolorosi), lo Zen proclamò la trasmissione diretta, "da mente a mente e senza dipendere da parole o lettere, guardando dentro la propria natura", secondo il tradizionale insegnamento del suo leggendario fondatore, Bodhidharma, e nella sincera convinzione che "se non lo trovi in te stesso, dove andrai a cercarlo?". Bisogna tenere presente queste considerazioni quando ci si trova innanzi ad opere di pittura zen (zenga), cioè a quei dipinti monocromi ad inchiostro nero (sumi) realizzati in Giappone, a partire dal XIV secolò, da monaci e patriarchi del Buddhismo Zen, o comunque da artisti imbevuti del suo spirito.

Esattamente come i kòan, le terribili 'questioni aperte' senza soluzione razionale, e al pari di tutte le varie espressioni artistiche e discipline direttamente derivate dalla "dottrina del cuore di Buddha" (ossia dallo Zen), queste che noi oggi riconosciamo come autentiche creazioni pittoriche di gran pregio in realtà altro non sono, essenzialmente, che suggestive "indicazioni dirette" di quell'inesprimibile natura del Vuoto, o Primo Principio, che 'tuonò' nel silenzio assoluto del Buddha e illuminò il volto del suo migliore discepolo.

L'origine di questi dipinti si rinviene pertanto sia nell'opera di monaci zen impegnati con entusiasmo nell'arte della pittura ad inchiostro, da essi ritenuta parte integrante (o, a volte,

sostitutiva) della pratica spirituale - e perciò detti gasô o "monaci pittori"; sia, soprattutto, in quella di maestri e patriarchi zen di grande rinomanza del periodo di Edo (1603 - 1868), i quali, convinti della necessità di rendere più esplicito ed accessibile il Dharma (la Legge, ovvero la dottrina buddhica) attraverso la suggestione di immagini figurative e brevi sentenze scritte (san), si avvalsero delle tecniche della "pittura ad inchiostro diluito" (suiboku-ga), d'origine cinese, in funzione di una propaganda religiosa attiva. È questa la pittura zen moderna, che va dal XVII al XIX secolo, le cui caratteristiche appaiono ben distinte da quelle della pittura ad inchiostro convenzionale: sfrondato drasticamente di ogni compiacenza estetica o stilistica, il dipinto zen d'epoca moderna trae il suo profondo significato e valore soprattutto in quanto espressione immediata di quella speciale condizione di "non-mente" o "vuoto mentale" (mu-shin; cin., wu-hsin), che si genera nel satori.

Esiste infine un terzo tipo di pittura zen, che potrebbe definirsi laica dovuta alle capacità creative di veri pittori professionali, o anche di cultori della pittura ad inchiostro nero, che, reputando la pratica dello Zen un veicolo adatto allo sviluppo spirituale e artistico del proprio stile, entravano in un grande monastero e studiavano sotto la guida di un maestro, o comunque allacciavano stretti rapporti con ambienti cenobitici zen (come fu spesso il caso in Cina di grandi pittori ch'an, quali Shih K'o e Liang K'ai).

In Giappone, già dall'epoca della sua introduzione ad opera di monaci-dotti ed artisti cinesi (fine del XIII secolo), la pittura ad inchiostro monocromo derivata dall'opera dei grandi maestri e pittori ch'an d'epoca T'ang e Sung sarà quasi esclusivo monopolio del Buddhismo Zen, tanto che per un lungo arco di tempo pittura ad inchiostro nero (sumi-e) e pittura zen (zenga) risulteranno pressoché inscindibili. L'unica sumi-e (o suiboku-ga) degna di tale nome era quella realizzata da buddhisti zen, o al più da zenisti convinti; ed anzi, l'arte del dipingere si identificava con la pratica stessa dello Zen, in quanto "pittura e Zen sono la stessa cosa" (ga-zen ichimi).

Così, proprio come nel cha-no-yu, o cerimonia del tè, si pratica deliberatamente il chadô (la "Via del tè"), nel campo della pittura ad inchiostro di matrice zen si può parlare di una vera e propria "Via del pennello", cioè di un Tao () o pratica di un metodo tradizionale inteso essenzialmente come valido tirocinio della coscienza, che nel maneggiare con suprema abilità il pennello - come pure l'arco e la freccia, o la spada, o la teiera e la tazza da tè - si esercita a superare se stessa e le proprie limitazioni egoiche, accordandosi armoniosamente all'inconscio nello stato di mu-nien ("non coscienza", o inconsapevolezza di Sé).

Se la pratica corretta di un Tao richiede l'apprendimento scrupoloso di tutte le cognizioni che ne sono alla base, la sola tecnica non è sufficiente a realizzare una creazione in stile zen, per quanto ne sia condizione indispensabile: nel nostro caso, l'artista deve 'dimenticare se stesso', e tutto ciò che ha coscienziosamente appreso, per gettarsi in balia dell'ispirazione e divenire tutt'uno con la perfezione della propria abilità tecnica. Allora "mente e corpo scompaiono", l'onda schiumosa si riconosce nel quieto abisso dell'Essere che la sottende, e l'opera d'arte (o la scansione armonica di ritmi e gesti) avviene da sé, liberamente e spontaneamente, senza dipendere dalla volontà personale di chi ne è autore: questi si limita ad 'assecondare' in modo naturale il processo di creazione secondo le esigenze del proprio gusto stilistico, senza compiere alcuno sforzo premeditato.

Per quanto riguarda specificamente la zenga, questa poi non si direbbe pittura nel senso in cui noi comunemente l'intendiamo: in realtà, i dipinti zen (soprattutto quelli più recenti) sono una specie di 'schizzi' in bianco e nero, dove il bianco (la carta) rappresenta l'universo stesso, e il nero (l'inchiostro di china nelle sue infinite sfumature) le forme materiali che in esso appaiono e scompaiono senza sosta. Esprimere visivamente l'essenza vitale di queste forme e il significato eterno che esse celano è il compito che si assume il vero maestro di pittura zen.

Per fare questo gli è in genere sufficiente un semplice rotolo di carta (per lo più di fibra di riso), qualche pennello di varia misura (ma ne può bastare anche uno soltanto), e naturalmente l'inchiostro, composto di fuliggine e colla e preparato in piccole stecche dure. Non occorrono colori: lo spazio bianco dello sfondo (yohaku), simbolo concreto del Vuoto quale realtà ultima, li rappresenta già tutti, essendo la loro somma totale - e dunque la totalità delle forme visibili. È da questo 'vuoto', che nella sua nuda purezza racchiude ogni possibile forma d'esistenza, che i tratti neri dell'inchiostro estraggono, in positivo, tutto ciò che la sensibilità e la fantasia dell'artista sono capaci di evocare, in uno slancio di pura creatività.

Questa operazione, che a prima vista potrebbe sembrare di una semplicità sconcertante, richiede in realtà una preparazione tecnica e, soprattutto, interiore davvero straordinaria, che solo pochi grandi maestri di Zen e di pittura possedettero pienamente.

Innanzitutto, il materiale impiegato è di una fragilità e delicatezza particolari: la carta, ruvida e piuttosto sottile, è per sua natura molto assorbente, e quindi si impregna d'inchiostro con facilità, come pure il pennello, morbido e leggero. L'inchiostro, preparato in bastoncini solidi, varia enormemente in qualità e tonalità di nero, e dev'essere sciolto con cura paziente sfregandolo con dell'acqua nell'apposita "pietra da inchiostro". Tutto ciò porta inevitabilmente a trasferire l'ispirazione nel più breve tempo possibile, in poche pennellate rapide e decise come colpi di sciabola: qualora il pennello indugi troppo sulla carta o si arresti, l'inchiostro fluisce in sovrabbondanza e si producono macchie e abrasioni.

Se tutto il rito dell'allestimento e della preparazione del materiale richiede assoluta calma e concentrazione, che può prendere anche molto tempo (durante il quale l'immagine da raffigurare dev'essere interamente presente alla mente dell'artista, sgombra di pensieri mondani), l'esecuzione del dipinto appare di un'immediatezza quasi fulminea: proprio come una folgore o un dardo, il pennello scatta spontaneamente non appena la tensione giunge da sé al suo culmine, in un processo molto simile a quello descritto nell'arte del tiro con l'arco.

Ogni singola pennellata è allora irrevocabile come un colpo ben assestato, e lascia impronte indelebili: non sono ammesse in alcun modo cancellature, ritocchi o ripensamenti; se l'artista non è del tutto soddisfatto dell'opera compiuta, getta via il foglio e ha inizio una nuova 'danza del pennello'. Come appare evidente, siamo ben lontani dai principi che governano la tradizione della pittura ad olio occidentale, dove il dipinto viene costruito sistematicamente attraverso ripetute correzioni, aggiunte e rimodellamenti, e secondo un piano progettato con cura dall'autore. In confronto ad un'opera del genere, un dipinto zen è il trionfo della povertà e della semplicità quale espressione concreta di quell'inalterabile purezza di cuore e letizia che, insieme a un profondo senso dell'umorismo, caratterizza l'esistenza di ogni uomo risvegliato. Ma è proprio in questa 'povertà' (meglio si direbbe sufficienza) che fa irruzione la ricchezza della vita stessa, informando di sé ogni linea, ogni macchia, ogni ombra e sfumatura: che non rappresentano mai la realtà oggettiva del mondo fenomenico, bensì SONO quella stessa irriducibile realtà.

Il punto cruciale di tale 'pittura' sembra essere proprio questo: non si tratta di rendere il più fedelmente possibile un determinato aspetto della natura (una figura umana, un oggetto o un paesaggio), cercando di copiarne le sembianze esteriori e di creare l'illusione del reale; ma di coglierne lo spirito che lo anima, identificandosi realmente con quello: per dipingere il bambù, bisogna prima spalancare le proprie porte della percezione e diventare il bambù medesimo, e poi dimenticarsi di esserlo mentre lo si ritrae. Questo è lo 'Zen del bambù', il pulsare in armonia con quel "movimento ritmico dello spirito" che risiede ab aeterno tanto nel bambù quanto nell'artista che lo raffigura - anzi, che lo fa vivere in un'immagine figurativa.

È appunto come a libere e affascinanti espressioni di questo profondo 'sentire', originato dall'esperienza del Risveglio, che bisogna guardare a tali immagini: dispiegate secondo un ritmo irrefrenabile e definitivo che è quello stesso del fluire della vita, esse traggono da questo carattere di assoluta necessità il principio della loro unicità ed intrinseca bellezza, che non rientra in alcun modo nelle comuni categorie estetiche, ancorate alla mutevole ed illusoria apparenza delle cose più che alla loro intima essenza.

E come nell'incessante ed inafferrabile flusso di ciò che i maestri zen chiamarono "Mente originaria", o la nostra "vera natura", non esistono interruzioni e ripensamenti, e neppure cose belle e cose brutte, così nella pittura zen libertà espressiva e spontaneità non significano irregolarità né indisciplina, e sincerità d'ispirazione non equivale a previdibilità - il risultato finale non essendo mai capriccioso e scontato, ma sempre piacevolmente sorprendente: come piacevolmente sorprende

il cuore di un bimbo, la faccia della luna piena, i colori dell'arcobaleno, o il volo di una farfalla.

Questa 'sorpresa' è poi spesso fatta di assenze o di incompletezze magistrali: dove ci si aspetta di vedere una certa linea o una massa, questa manca o è appena accennata, ma tale suggerimento, anziché deludere, rimanda immancabilmente a qualcosa che sta oltre, offrendo a chi osserva un punto di partenza per una visione da lui personalmente vissuta: soggetto e oggetto diventano così un unica realtà, nel superamento intuitivo di ogni antitesi e distinzione.

In questo gioco sapiente al di fuori del tempo e dello spazio l'artista zen è insuperabilmente esperto: maestro di vita prima ancora che di arte, ogni sua creazione vive in noi perché siamo noi a vivere in essa: "se vuoi vedere Bodhidharma, devi avere la sua faccia".

Con quella 'faccia' potremo varcare l'incomparabile "Porta senza Porta" dello Zen, svelando - qui ed ora - l'antico inganno che ci fa sognare d'essere la nostra ombra, prigioniera di nascita-e-morte, e dimenticare la nostra vera origine, che è il Grande Vuoto: allora saremo pronti a sorridere, in disparte, verso l'uomo che ci guarda in silenzio stringendo tra le dita un fiore.

L'inesprimibile può essere espresso, l'incomunicabile comunicato.