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L’OLOCAUSTO ARMENO
1914-1918
Storia di un genocidio
dimenticato che, tra la fine del XIX e l’inizio del XX secolo, provocò la morte
di più di due milioni di persone, colpevoli soltanto di appartenere ad un’etnia
e ad una cultura diverse e di
professare un culto di minoranza
.
La persecuzione scatenata, tra il 1915 e il 1918, dai
turchi nei confronti del popolo armeno residente in Anatolia e nel resto
dell’Impero Ottomano rappresenta forse il primo esempio dell’epoca moderna di
sistematica soppressione di una minoranza etnico-religiosa. Una campagna di
eliminazione che non scaturì soltanto dell’ideologia, scopertamente razzista, del
sedicente Partito “modernista e progressista” dei Giovani Turchi, ma
trasse le sue origini più profonde anche dall’innata, anche se inconfessabile,
insofferenza che i mussulmani ottomani e curdi di Anatolia hanno sempre
manifestato nei confronti di una minoranza cristiana, quella armena, portatrice
di valori religiosi e culturali semplicemente diversi.
Ma andiamo per ordine e cerchiamo di
capire le motivazioni e la genesi di uno dei più orribili e meno pubblicizzati
fenomeni di intolleranza etnico-religiosa del XX secolo. Lo sterminio degli
armeni, verificatosi tra il 1915 e il 1918, in realtà non rappresenta che il
completamento di una lunghissima campagna di persecuzioni e di discriminazioni
che ebbe inizio a partire dalla seconda metà dell’Ottocento all’interno dei
confini del decadente Impero Ottomano. Tra il 1894 e il 1896 ‘Abd ul-Hamid,
l’ultimo sovrano, o meglio despota, della Sacra Porta, diede il via ad
un programma di sterminio che, sotto molti aspetti è possibile paragonare a
quello nazista nei confronti del popolo ebraico (1). Fu proprio in
questo periodo, infatti, che il governo turco iniziò ad applicare nei confronti
degli armeni - già discriminati in molti settori della vita civile ma ancora in
grado di sopravvivere più o meno decorosamente - una serie di leggi volte non
soltanto a perfezionare l’isolamento civile della minoranza, ma a decretarne e
a renderne possibile, in buona sostanza, lo sterminio legale: una manovra che
in buona misura venne attuata anche per scaricare sugli armeni - popolo, o
meglio nazione, tradizionalmente molto attiva e mediamente colta - la
responsabilità dei fallimenti di una politica di governo, quella dei sultani,
assolutamente deficitaria ed arretrata. La persecuzione contro gli armeni,
infatti, va anche vista come il risultato di quei complessi e traumatici
processi storici che tra la seconda metà del XIX secolo e i primi tredici anni
del XX determinarono lo sgretolamento dell’Impero Ottomano.
intellettuali
armeni
Dopo avere dovuto rinunciare (in seguito alla
guerra con l’Italia del 1911/12 e alla Prima Guerra Balcanica del 1913) a gran
parte dei suoi possedimenti (Libia, Albania, Macedonia e parte delle isole
dell’Egeo), il governo di Costantinopoli, entrò in una fase di crisi molto
acuta. Temendo la completa dissoluzione dell’Impero, prima la Sacra Porta e poi
il Partito dei Giovani Turchi, iniziarono ad assumere un atteggiamento sempre
più sospettoso nei confronti delle minoranze (come quella greca, bulgara,
ebraica, beduina e armena), colpevoli - scendo i vertici di Costantinopoli - di
tramare nei confronti dell’Impero, minandone le fondamenta. E complice
quest’ottica distorta ed inesatta, fu proprio la minoranza armena quella a
destare le maggiori attenzioni. Ma la ragione di tanta diffidenza da parte dei
turchi nel confronti degli armeni scaturiva anche da precise considerazioni e
timori di carattere politico internazionale. La Sacra Porta, infatti, vedeva in
questa minoranza, che in gran parte abitava l’area anatolica nord orientale,
una possibile se non sicura alleata dell’Impero Russo cristiano ortodosso, il
più feroce e tradizionale nemico della Sacra Porta. Un Impero che, fino dai
tempi di Pietro il Grande (1682-1725) e di Nicola I (1825-55), aveva sempre
cercato di sottrarre alla Turchia le regioni confinanti del Caucaso,
guadagnandosi la simpatia delle comunità armene ormai stanche di sottostare al
dispotico dominio ottomano. Diverse furono le guerre che, tra il XVIII e il XIX
secolo, contrapposero i turchi ai russi. Nel 1876, le forze zariste, che erano
intervenute a sostegno della Bulgaria, costrinsero Costantinopoli ad una resa
umiliante, imponendo alla Sacra Porta il Trattato di Santo Stefano. Un
documento, quest’ultimo, che sancì tra l’altro la cessione alla Russia di
alcune aree dell’Anatolia nord settentrionale, abitate da armeni.. Tuttavia, il
Trattato, non divenne mai del tutto operativo, anche a causa delle pressioni
esercitate dal Primo Ministro inglese Benjamin Disraeli, da sempre ostile ad
una eccessiva espansione politica e militare russa, soprattutto sui Balcani. E
in seguito all’intromissione di altre potenze occidentali (come la Francia e la
Prussia) avverse anch’esse alla Russia, il documento venne così parzialmente
modificato, con l’eliminazione della clausola relativa alla tutela della
minoranza armena. In buona sostanza, nessuna potenza occidentale volle spendere
una parola in favore della popolazione cristiana, preferendo orientarsi verso
una real politik. Anche se, pochi anni dopo, nel 1878, l’articolo 61 del
successivo Trattato di Berlino del 1878, sancì, almeno sulla carta, il diritto
alla sopravvivenza di questa sfortunata comunità. Il sostanziale disimpegno
delle nazioni europee permise al dispotico Sultano Abdul Hamid di sopprimere la
fragile Costituzione concessa nel 1876, abolendo tutte le libertà più
elementari, istituendo nuove, severe leggi contro le minoranze religiose del
Paese e costituendo nel contempo un’efficientissima polizia segreta incaricata
di schiacciare il neonato Movimento Indipendentista Armeno. Non contento,
il Sultano incoraggiò inoltre le tribù curde mussulmane ad emigrare verso le
tradizionali zone rurali armene della Turchia orientale, aizzandole contro i
cristiani. Forti dell’appoggio della Polizia Segreta e dell’Esercito Ottomano,
i curdi iniziarono così ad insediarsi in territorio armeno, scacciando con la
forza la locale popolazione. Costretti alla fuga, gli armeni furono quindi
obbligati a trasferirsi sempre più a nord est in direzione delle regioni
caucasiche russe: una manovra che la Sacra Porta, con notevole malafede, volle
interpretare come un atto di slealtà nei suoi confronti e di connivenza con il
nemico zarista. Fu a quel punto che il Movimento Indipendentista Armeno iniziò
a frantumarsi in diversi gruppi politici e società segrete, tra cui l’Armenakan
(fondato nel 1885), il partito socialdemocratico Hunchak (1887) e il più
radicale “movimento” Dashnak (1890), con lo scopo di combattere i
turchi. Ma la risposta del Sultano non si fece attendere. Il despota di
Costantinopoli organizzò i membri delle tribù curde nei cosiddetti reggimenti
di cavalleria Hamidye: autentiche bande armate di predoni autorizzate dal
governo a perseguitare e a massacrare gli armeni dell’Anatolia Orientale.
membri del partito armeno Dashnak
Ma se gli armeni rimasti incapsulati in
territorio ottomano se la passavano male, occorre dire che anche quelli che
erano riusciti a rifugiarsi nelle zone russo caucasiche non poterono certo
considerarsi in salvo. Nel 1881, in seguito all’assassinio dello zar Alessandro
II, il primo ministro liberale di origine armena Loris Melikov, dovette
rassegnare le dimissioni, in quanto ritenuto incapace di governare il sempre
crescente malcontento dei nazionalisti georgiani e armeni del Caucaso. Dopo
l’uscita di Melikov, i successivi governi di San Pietroburgo iniziarono quindi
a manifestare una certa diffidenza se non ostilità nei confronti degli armeni,
sia quelli residenti in Turchia che quelli stanziati in territorio zarista (2).
Nel 1903, lo zar Nicola II tentò perfino di confiscare le proprietà della Chiesa
Nazionale Armena, ordinando la chiusura delle scuole e delle altre
istituzioni della Transcaucasia russa. Questo drastico cambiamento di rotta
russo, consentì al Sultano Abd ul-Hamid di alzare il tiro contro l’odiata
minoranza, prendendo a presteso, tra l’altro, alcuni gravi ed insensati
attentati compiuti, tra il 1890 e il 1894, dalle frange estremiste del
Movimento Indipendentista Armeno. La situazione stava precipitando. Nel 1894,
un affiliato del Hunchak, un certo Murat, convinse le popolazioni di montagna
armene del distretto di Sassun a non pagare ai capi curdi locali l’odioso
“hafir”, o contributo per la protezione. L’“hafir” era in realtà una forma di
estorsione regolarizzata dal governo turco a tutto beneficio dei curdi che in questo
modo potevano arricchirsi alle spalle dei contadini e dei montanari armeni.
L’11 marzo 1895, Gran Bretagna, Francia e
Russia, scandalizzate dall’inasprirsi delle misure anti-armene, cambiarono
improvvisamente atteggiamento, intimando al Sultano di concedere alla minoranza
cristiana una forma di seppur limitata autonomia. La richiesta venne respinta
da Hamid che per contro intensificò la sua politica repressiva, giungendo a
compiere vere e proprie stragi di armeni, anche nelle principali città dell’Impero.
Secondo precise testimonianze dell’epoca, riportate da diplomatici italiani,
francesi, inglesi e americani, in più di un’occasione, le truppe turche e curde
saccheggiarono villaggi, rubarono bestiame, violentarono donne e bambini,
costringendo non di rado i prelati armeni a riunirsi nelle loro chiese alle
quali appiccarono fuoco dopo averne inchiodato le porte. Tra il 1894 e il 1896,
le forze ottomane e curde eliminarono nei modi più barbari dai 200 ai 250.000
armeni. Questa ondata di violenza raggiunse livelli tali da indurre
l’Inghilterra, la Francia e gli Stati Uniti, ad invocare la destituzione del
Sultano. Dal canto suo, sia lo zar che il kaiser Guglielmo II, che nel 1889
aveva già effettuato una visita di stato nella capitale del Bosforo, decisero
invece di mantenere un atteggiamento neutrale nei confronti del Sultano.
L’atteggiamento del kaiser scaturiva da ben precise considerazioni di carattere
politico ed economico. Guglielmo II era infatti desideroso di portare a termine
la costruzione della linea ferroviaria Berlino-Baghdad: un’arteria che, una
volta ultimata, avrebbe consentito alla Germania di intensificare i suoi scambi
commerciali con la Turchia e, soprattutto, di consentire all’Impero tedesco di
allargare la sua sfera di influenza verso il Medio Oriente, la Mesopotamia e il
Golfo Persico.
fanteria
turca
L’ultimo decennio del regno di Abd
ul-Hamid fu caratterizzato da una situazione politica, economica e sociale
interna molto incerta densa di difficoltà, destinata a sfociare in gravi sommosse.
Verso la fine dell’800, in alcuni circoli di Salonicco, un gruppo di giovani
ufficiali dell’esercito, i Liberi Massoni, assieme ad alcuni esiliati
politici turchi confluiti nella società segreta di Unione e Progresso,
iniziarono a tramare contro il vecchio potere centrale assolutista. In seguito,
il cosiddetto Movimento dei Giovani Turchi andò però ben oltre,
auspicando l’eliminazione del sultano e avviando un ambizioso, rapido e
radicale processo di modernizzazione socio-politica, economica e culturale
dell’Impero. La rivolta, capeggiata da un gruppo di giovani ufficiali
favorevoli ad una sorta di “occidentalizzazione” dell’Impero, scoppiò nel 1908,
a Monastir. Il 23 luglio dello stesso anno, il Comitato Centrale di Unione e
Progresso intimò al Sultano di ripristinare immediatamente la Costituzione del
1876 (da lui soppressa nel 1878), intimando di marciare con l’esercito su
Costantinopoli. Il Sultano questa volta cedette e la Costituzione venne
ripristinata ufficialmente il 24 luglio 1908. Seguì un breve periodo di euforia
con grandi festeggiamenti a Costantinopoli, Damasco, Baghdad e nelle città e
regioni popolate dalle minoranze etniche e religiose armene, ebraiche, slave e
arabe che vedevano nella rivolta militare contro il Sultano l’inizio di un nuovo
periodo caratterizzato da maggiori libertà. Effettivamente, in un primo tempo,
i giovani ufficiali turchi proclamarono che mussulmani, cristiani ed ebrei non
sarebbero più stati divisi e avrebbero contribuito, tutti insieme e su uno
stato di completa parità, alla gloriosa rinascita economica e sociale della
nazione ottomana.
Nel 1909, dopo un fallito tentativo
controrivoluzionario condotto dai sostenitori del regime assolutista di Hamid,
gli ufficiali “modernisti” guidati da Taalat Pascià deposero definitivamente
Hamid, costringendolo a lasciare il posto a suo fratello Muhammad (Mehemet) V. (3)
E quest’ultimo, non volendo seccature, accettò di buon grado le direttive degli
ufficiali rivoluzionari che, nel frattempo, avevano però cominciato ad elaborare
programmi a forte contenuto nazionalista e razzista, rimangiandosi tutte le
promesse di libertà (subito dopo la caduta di Hamid, i Giovani Turchi avevano
dato vita ad un regime parlamentare, concedendo ad elementi cristiani, ebrei e
arabi di entrare nella pubblica amministrazione e di prestare servizio
nell’Esercito). Tuttavia, dopo la sconfitta subita ad opera dell’Italia nel
1912 e i rovesci subiti nell’ambito della Prima Guerra Balcanica, il 26 gennaio
1913 si verificò a Costantinopoli un nuovo colpo di stato. Enver Pascià, Taalat
Pascià e Ahmed Jemal presero con la forza il potere dando vita ad una sorta di
triumvirato. Abbandonati ben presto gli ideali liberali e parlamentari, i
Giovani Turchi avviarono un capillare processo di “turchizzazione” dell’Impero
Ottomano (una strategia politica che faceva perno sui principi del
“pan-turanismo”, una corrente ideologica della “rinascita ottomana” sostenuta
da Ziya Gok Alp, discepolo del sociologo francese Emile Durkheim). Imbevuti di
questa dottrina, che magnificava le virtù degli antichi statisti, guerrieri e
condottieri turchi, il mai completamente sopito e sostanziale atteggiamento di
intolleranza dei Giovani Turchi nei confronti delle minoranze dell’Impero,
soprattutto quella armena cristiana, iniziò ad emergere con estremo vigore. E
verso la primavera del 1914, proprio alla vigilia dello scoppio della Prima
Guerra Mondiale, la Giunta dei Giovani Turchi, iniziò a pianificare
scientificamente quello che si sarebbe ben presto rivelato il primo “genocidio”
programmato dell’era moderna. Dopo l’entrata in guerra dell’Impero Ottomano (29
ottobre 1914) a fianco degli Imperi Centrali, la comunità armena, allo scuro
delle manovre segrete dei Giovani Turchi, volle dimostrare a Costantinopoli la
sua fedeltà alla nazione ottomana. E nell’estate del 1914, ad Erzerum, in
occasione dell’ottavo congresso del partito Dashnak, i leader del più forte
movimento indipendentista armeno invitarono tutti gli iscritti ad assolvere ai
loro doveri di fedeli sudditi e soldati dell’Impero. Nel giro di poche
settimane ben 250.000 armeni si arruolarono nelle forze armate turche,
dimostrando, già a partire dalla sfortunata campagna, scatenata nel successivo
mese di dicembre da Enver nel Caucaso contro i russi, una assoluta lealtà nei
confronti del governo che, nel frattempo, stava ultimando i preparativi per
scatenare contro di essi un vero e proprio massacro a sorpresa.
manifesto inglese di solidarietà agli armeni
All’inizio del 1915, nel corso di una
riunione segreta del Comitato di Unione e Progresso, il segretario esecutivo
Nazim concluse testualmente i lavori: “Siamo in guerra; e non potrebbe
verificarsi un’occasione migliore per sterminare tutta la popolazione armeno.
In un momento come questo è estremamente improbabile che vi siano interventi
da parte delle grandi potenze e proteste da parte della stampa; e se anche ciò
accadesse tutti si troverebbero di fronte ad un fatto compiuto”. Un altro
dei presenti, Hassan Fehmin, aggiunse poi. “Siamo nelle condizioni ideali
per spedire sul fronte caucasico tutti i giovani armeni ancora in grado di
imbracciare un fucile. E una volta là, possiamo intrappolarli e annientarli con
facilità, chiusi come saranno tra le forze russe che si troveranno davanti e le
forze speciali che piazzeremo alle loro spalle”. In quella data il Comitato
decise che “lo sterminio degli armeni” sarebbe stato affidato ad una speciale
Commissione a tre, comprendente lo stesso segretario esecutivo Nazim, Behaettin
Shakir e il Ministro della Pubblica Istruzione, Shoukri, sotto il diretto
controllo di Taalat Pascià. La commissione istituì a sua volta la cosiddetta
“Organizzazione Speciale” (Teshkilate Makhsusa) nella quale entrò a fare
parte una folta schiera di ex detenuti e di delinquenti ai quali venne promessa
la libertà in cambio di loschi servigi. All’inizio della primavera 1915, i capi
turchi scatenarono l’esercito e le solite bande curde contro gli indifesi
villaggi armeni che vennero depredati. Successivamente, bande armate curde e
reparti dell’esercito e della polizia, incominciarono ad arrestare -
accusandoli di connivenza con il nemico russo - tutti gli esponenti dei vari
partiti armeni. Nel giro di poche settimane, decine di migliaia di cristiani
vennero imprigionati e sottoposti a spaventose e documentate torture. I curdi
mussulmani si accanirono in modo particolare contro i sacerdoti ai quali
vennero strappati gli occhi, le unghie e i denti con punteruoli roventi e
tenaglie. Gevdet Bey, vali della città di Van e cognato del Ministro
della Difesa Enver Pascià, fu visto dare ordine ai suoi uomini di inchiodare
ferri di cavallo ai piedi delle vittime, costringendo poi quei disgraziati ad
effettuare improbabili danze mortali. Il 24 aprile 1915, a Costantinopoli, nel
corso di una gigantesca retata, circa 500 esponenti del Movimento Armeno
vennero incarcerati e poi strangolati con filo di ferro nel profondo di sordide
segrete. (4) Stando ad un rapporto ufficiale del console statunitense ad
Ankara, nel luglio 1915, duemila soldati di etnia armena, reduci dalla campagna
del Caucaso, vennero improvvisamente disarmati dai turchi e spediti in catene
nella regione della città di Kharput con il pretesto di utilizzarli nella
costruzione di una strada. Ma giunti in una vallata, i militari armeni vennero
circondati da un battaglione della polizia turca e massacrati a colpi di
moschetto. Tutti i cadaveri vennero poi scaraventati in una profonda grotta.
Identico destino toccò ad altri 2.500 militari armeni, anch’essi condotti nei
pressi di una cava di pietra, in località Diyarbakir, e lì trucidati da un
grosso reparto misto formato da soldati e miliziani curdi. Sempre secondo i
resoconti dei diplomatici statunitensi, i corpi delle vittime vennero
seviziati, spogliati e lasciati a marcire nella cava. Nel giugno 1916, dopo
avere eliminato circa 150.000 militari di origine armena, i turchi decisero di
fare fuori anche un terzo degli operai armeni impiegati nella costruzione e
manutenzione dell’importante linea ferroviaria Berlino-Costantinopoli-Baghdad.
Ma a questo punto, gli alleati tedeschi e austriaci, che da tempo avevano
palesato il loro disappunto per le orrende carneficine, denunciarono
finalmente, e in maniera ufficiale, le atrocità turche. L’ambasciatore tedesco
a Costantinopoli, il conte von Wolff-Metternich, si precipitò alla Sublime
Porta, accusando direttamente Taalat Pascià e il Ministro degli Esteri Halil
Pascià “di inutili crudeltà e persino di atti di sabotaggio”. Tuttavia,
le vibranti proteste dell’ambasciatore lasciarono impassibili i capi ottomani.
Fu allora che molti ufficiali e
sottufficiali armeni, scampati ai massacri, tentarono di organizzare sui monti
la resistenza. Nell’aprile 1915, nella città di Van, alcune migliaia di civili
armeni riuscirono a disarmare la locale guarnigione turca, barricandosi nel
nucleo urbano dove resistettero per molti giorni alla controffensiva ottomana e
curda; fino all’arrivo, provvidenziale, di una divisione di cavalleria russa
che nel mese maggio liberò dall’assedio quei disperati. Eguale successo ebbe
poi la storica e ormai famosa resistenza del massiccio montuoso del Musa Dagh,
nei pressi di Antiochia (Golfo di Alessandretta). Su questo acrocoro non meno
di 4.000 armeni si trincerarono decisi a vendere cara la pelle. Resistettero
per ben quaranta giorni agli attacchi dei reparti regolari dell’esercito
ottomano e dei “volontari” civili turchi, segnando una delle pagine più eroiche
della storia del popolo armeno. Alla fine, proprio quando la resistenza
sembrava dovere cedere di fronte alle preponderanza dell’avversario, i reduci
vennero salvati dal provvidenziale arrivo nel Golfo di Alessandretta di una
squadra navale francese che riuscì in gran parte a trarli in salvo (l’epopea
del Musa Dagh venne in seguito narrata da Franz Werfel nel suo celebre romanzo
storico “I quaranta giorni di Musa Dah”). Purtroppo, altri tentativi di
resistenza non ebbero la medesima fortuna, come accadde ad di Urfa. Qui, tutta
la guarnigione armena, composta di ex-militari e civili, dovette soccombere
alle soverchianti forze ottomane che, a battaglia conclusa, massacrarono tutti
i difensori ancora in vita, compresi i feriti.
Verso l’autunno del 1915, una volta
eliminata la parte più giovane e combattiva della nazione armena, il Ministero
degli Interni ottomano iniziò a pianificare lo sterminio di tutti gli adulti di
età superiore ai 45 anni, che fino ad allora erano stati risparmiati perché
ritenuti necessari al lavoro delle campagne, e degli ultimi prelati. Come
testimonia questo brano tratto da un dispaccio inviato dal Ministro Taalat
Pascià al governatore turco di Aleppo il 15 settembre 1915. “Siete già stato
informato del fatto che il Governo ha deciso di sterminare l’intera popolazione
armena…Occorre la vostra massima collaborazione…Non sia usata pietà per
nessuno, tanto meno per le donne, i bambini, gli invalidi…Per quanto tragici
possano sembrare i metodi di questo sterminio, occorre agire senza alcuno
scrupolo di coscienza e con la massima celerità ed efficienza”. Per
risparmiare denaro e per razionalizzare al massimo l’operazione, la Giunta dei
Giovani Turchi avviò una deportazione di massa (dalla quale talvolta vennero
però risparmiati i medici o i tecnici utili al governo, come accadde nella
città di Kayseri) in modo da concentrare in pochi siti isolati tutti gli armeni
ancora in vita. Una delle destinazioni prescelte fu la desolata e poverissima
regione siriana di Deir al-Zor, dove, dopo una marcia a piedi di centinaia di
chilometri, intere famiglie armene vennero ammassate e trucidate nei modi più
raccapriccianti, tanto da sollevare le inutili proteste di un gruppo di
ufficiali tedeschi e austriaci che assistette a quei tragici eventi. Queste
deportazioni vennero architettate anche per facilitare l’esproprio dei beni
immobili armeni. Abbandonata la precedente prassi della distruzione dei
villaggi, molti dirigenti del partito dei Giovani Turchi e moltissimi
funzionari di polizia e comandanti delle famigerate bande a cavallo curde
ebbero modo di arricchirsi proprio in virtù di questi lasciti forzati.
Nell’inverno del ’15 il rappresentante tedesco
a Costantinopoli, conte Wolff-Metternich - che, come si è già detto, non aveva
mai mancato di stigmatizzare “il crudele e controproducente comportamento
degli ottomani nei confronti delle minoranze cristiane” - denunciò, in una missiva inviata a Berlino,
questa “orribile prassi”, accusando nuovamente i Giovani Turchi di “tradimento
nei confronti della comune causa tedesco-ottomana”. L’ambasciatore tedesco
agì in maniera talmente diretta da indurre Enver Pascià e Taalat Pascià a
chiederne a Berlino la sua sostituzione, cosa che in effetti avvenne nel 1916.
A testimonianza delle dimensioni del fenomeno “espropriazioni”, dopo la
fine della guerra, nel 1919, lo scrittore e storico tedesco J.Lepsius nel suo
“Deutschland und Armenien” stimò che nel 1916 “i profitti derivati
all’oligarchia dei Giovani Turchi e ai suoi lacché dai beni rapinati agli
armeni fossero arrivati a toccare la cifra astronomica di un miliardo di marchi”.
Per onestà va comunque detto che, in certi casi, alcuni governatori (i vali)
turchi, (come quello di Angora, città nella quale vivevano 20.000 armeni),
mostrarono indubbia pietà nei confronti degli armeni, arrivando anche a
disubbidire alle direttive del governo. Tanto che, nel luglio del ’15, il
governatore di Ankara - che si era opposto agli stermini - venne subito rimosso
e sostituito con un funzionario più zelante. Come il vali Gevdet che,
nell’estate del ’15, a Siirt, a sud di Bitlis, “fece massacrare - come
testimonia Rafael de Nogales, un mercenario venezuelano che nel 1915 si era
arruolato nell’esercito turco - oltre 10.000 tra armeni, cristiani
nestoriani e giacobiti, lasciando i loro corpi ignudi in pasto agli avvoltoi e
ai cani randagi”. Identici resoconti possono riscontrarsi anche nei
documenti e nelle memorie di numerosi addetti diplomatici tedeschi, americani,
svedesi e anche italiani. Sull’edizione del quotidiano Il Messaggero di
Roma (25 agosto 1915) venne pubblicata la denuncia del console generale a
Trebisonda, Giovanni Gorrini. Costui affermò che “degli oltre 14.000 armeni
legalmente residenti a Trebisonda all’inizio del 1915 (dal punto di vista
religioso la comunità era composta da cristiani gregoriani, cattolici e
protestanti, nda) il 23 luglio dello stesso anno non ne rimanevano in vita
che 90. Tutti gli altri, dopo essere stati spogliati di ogni avere, erano stati
infatti deportati dalla polizia e dall’esercito ottomani in lande desolate o in
vallate dell’entroterra e massacrati”. E intanto proseguiva senza soste la
deportazione degli armeni destinati ai famigerati campi di raccolta (e di
sterminio) della città di Deir al-Azor. Questi, privi di baracche, servizi
igienici, iniziarono ad accogliere all’interno dei loro perimetri cintati da
fitti sbarramenti di filo spinato sorvegliato da guardie armate, decine di migliaia
di profughi. “Ben presto - come narra lo scrittore David Marshall Lang
nel suo eccellente e ben documentato “Armeni, un popolo in esilio” -
in questi recinti, rigurgitanti in gran parte di vecchi, donne e bambini,
scoppiarono terribili epidemie di tifo e vaiolo che si allargarono a gran parte
della popolazione siriana…Solo ad Aleppo, tra l’agosto 1916 e l’agosto 1917,
circa 35.000 persone morirono di tifo”. Epidemie che si rivelarono talmente
devastanti da mettere in allarme lo stesso generale Otto Liman von Sanders,
comandante delle forze turco-tedesche in Medio Oriente. Questi, nel 1916, cercò
di attivare, attraverso il suo Servizio Sanitario, una qualche forma di
assistenza, sempre contrastato dalle autorità ottomane che, accecate dall’odio
verso gli armeni, non si rendevano conto dell’immane disastro che avevano
provocato. In terra siriana, qualche centinaio di ragazzine e di bambini armeni
riuscì però a scampare alla morte per fame, malattia o alle fucilate degli
aguzzini turchi. Le ragazze, soprattutto le più giovani e graziose, vennero
infatti vendute per poche piastre ad alcuni possidenti arabi che le rinchiusero
nei bordelli, non prima di averle fatte convertire forzatamente all’Islam.
Nell’autunno del 1918, quando le forze inglesi del generale Edmund Allenby dopo
avere sconfitto i turco-tedeschi a Megiddo, occuparono la Palestina e la Siria,
trovarono ancora in vita alcune decine di queste derelitte, tutte marchiate a
fuoco dagli stenti e dalle malattie veneree. Sorte ancora peggiore toccò ai bambini
armeni rinchiusi nei campi siriani. Gran parte di questi vennero infatti
sottratti alle madri e inviati anch’essi in bordelli per omosessuali o in
speciali orfanotrofi per essere rieducati come turchi mussulmani da Halidé Edib
Adivart, una mostruosa virago alla quale il governatore della Siria aveva
affidato il compito di “raddrizzare la schiena alla ribelle gioventù armena”.
resti
di armeni uccisi
Nonostante tutto, il governo ottomano non
si reputava ancora soddisfatto della risoluzione del “problema armeno”. Nei
campi, “i cristiani infedeli morivano troppo lentamente”. Nel 1916,
Enver Pascià, Taalat Pascià e Ahmed Gemal diedero quindi un ulteriore giro di
vite alla loro politica di sterminio, intimando ai loro governatori e capi di
polizia di “eliminare con le armi, ma se possibile, con mezzi più economici,
tutti i sopravvissuti dei campi siriani e anatolici”. In questa seconda
fase del massacro ebbe modo di distinguersi proprio il governatore del
distretto di Deir al-Azor, certo Zekki, che ogni mattina era solito “cavalcare
nei campi tra i profughi, tirare su un bambino, farlo roteare in aria, e
scagliarlo contro le rocce”. Zekki - secondo quanto scrive J. Bryce (autore
di “The Treatment of Armenians”), “rinchiuse 500 armeni all’interno di una
stretta palizzata, costruita su una piana desertica, e li fece morire di fame e
di sete”. E a dimostrazione dello zelo di questo governatore, basti pensare
che, durante l’estate del 1916, i suoi uomini eliminarono oltre 20.000 armeni.
Taalat Pascià, divenuto Gran Visir, arrivò addirittura a vantarsi
dell’efficienza del suo governatore con l’esterrefatto ambasciatore americano
Morgenthau, al quale egli ebbe anche l’ardire di chiedere “l’elenco delle
assicurazioni sulla vita che gli armeni più ricchi (deceduti nei campi di
sterminio) avevano precedentemente stipulato con compagnie americane, in
modo da consentire al Governo di incassare gli utili delle polizze”.
Intanto, nelle regioni orientali e settentrionali dell’Impero Ottomano, la situazione delle comunità armene che erano riuscite a trovare rifugio nelle valli del Caucaso si fece improvvisamente drammatica. In seguito alla rivoluzione bolscevica del 1917, l’esercito russo aveva infatti iniziato a ritirarsi dall’Anatolia orientale e dalla Ciscaucasia, abbandonando gli armeni al loro destino. Rioccupata l’importante città-fortezza di Kars, le forze ottomane, ormai libere di agire, iniziarono una meticolosa caccia all’uomo, arrivando a sopprimere circa 19.000 persone in poche settimane. Identica sorte che toccò a quei profughi cristiani che, rifugiatisi preventivamente in Transcaucasia, soprattutto in Georgia e nella regione caspica di Baku, vennero massacrati dalle locali minoranze mussulmane tartare e cecene. Nel settembre del ’18, nella sola area di Baku furono eliminati 30.000 armeni.
Taalat Pascià
Ma la guerra stava volgendo ormai al
termine e nell’imminenza del crollo della Sublime Porta, i responsabili turchi
delle stragi iniziarono a sparire nell’ombra, onde evitare il peggio. Quando,
nell’ottobre 1918, la Turchia si arrese alle forze dell’Intesa, i principali
dirigenti e responsabili del partito dei Giovani Turchi e del Comitato di
Unione e Progresso vennero arrestati dagli inglesi e internati per un breve
periodo a Malta. Successivamente, un tribunale militare turco condannò a morte,
in contumacia, Enver Pascià, Ahmed Gemal e Nazim, accusati di avere
architettato e portato a compimento, tra il 1914 e il 1918, l’olocausto armeno.
Ormai espatriati, nessuno dei condannati finì però nelle mani della giustizia
regolare. Ci pensò il destino e, come spesso accade, lo spirito vendicativo
dell’uomo a colpire chi si era macchiato di tanti efferati crimini. Il 15 marzo
1921, Taalat Pascià, forse il più crudele dei tre triumviri di Costantinopoli,
venne assassinato a Berlino da uno studente armeno, tale Soghomon Tehlirian
(che venne processato da un tribunali tedesco e successivamente assolto); sorte
che toccò il 21 luglio 1922 anche ad Ahmed Gemal, ucciso da un altro giovane
armeno a Tbilisi, in Georgia. “Strana e sotto molti aspetti decisamente
consona al personaggio fu invece la fine di Enver Pascià, il più intelligente e
“idealista” dei tre: il “Piccolo Napoleone” dell’Impero, il propugnatore
fanatico e determinato del Pan-Turanismo” (D.M. Lang). Rifugiatosi tra le
tribù turche della remota regione asiatica centrale di Bukhara, dove pensava di
portare a compimento la realizzazione del suo sogno, cioè la creazione di una
Grande Nazione Turca, agli inizi degli anni Venti Enver si mise a capo di una
rivolta turco-mussulmana contro il potere sovietico. Ma il 4 luglio 1922, egli
venne circondato con il suo piccolo esercito da un grosso reparto bolscevico
(combinazione guidato da un ufficiale armeno) e ucciso. Con la morte di Enver
tramontava per sempre il progetto revanchista, di chiara matrice
nazionalista e razzista, che non soltanto aveva trascinato la Turchia nel
disastro del Primo Conflitto, ma che aveva contribuito a riaccendere l’atavico
e mai sopito odio della popolazione turca nei confronti della minoranza armena
cristiana. Oggi, a distanza di tanti anni, quell’impetuoso rigurgito di
intolleranza etnico-religiosa che scatenò la persecuzione contro gli armeni,
sta - paradossalmente - interessando un’altra minoranza, quella curda, che da
colpevole fiancheggiatrice di una strage si è trasformata a sua volta in
vittima di una logica di persecuzione assurda e spietata.
truppe armene russe
NOTE
(1)
La
storia del popolo armeno ha radici profonde. Gli armeni, intesi come etnia, derivano
da una commistione, avvenuta in tempi remoti, tra elementi indoeuropei (gli
“armenoi” che sia Erodoto che Eudossio collegano ai Frigi) ed elementi asianici
o anatolici, cioè quelle popolazioni che in antichità abitavano la parte
orientale della penisola anatolica, e che non appartengono né al ceppo semita
né a quello indoeuropeo. La prima apparizione degli armeni sul palcoscenico
della storia avviene, molto probabilmente, nel VII secolo a.C. quando gli
attacchi e le migrazioni dei cimmeri, degli sciti e dei medi da un lato e le
pressioni degli assiri dall’altro, contribuirono alla caduta del regno di
Urartù (Ararat, secondo gli scritti biblici). Da quel periodo, gli armeni, la
cui lingua era di origine indoeuropea, si stabilirono nella regione del lago
Van (Anatolia orientale), assumendo con rapidità una netta ed autonoma
fisionomia culturale. Gli armeni, che si autodefiniscono “haik” (dal nome di un
loro leggendario eroe nazionale) sono soliti chiamare la propria terra
Hayastan. Inizialmente vassalli dei medi e dei persiani, gli armeni cercarono
di rendersi indipendenti sotto Tigrane il Grande (I secolo a.C.) entrando a
fare parte prima dell’Impero Romano (e successivamente di quello bizantino) e
sasanide. Verso la fine del III secolo, gli armeni si convertirono al
cristianesimo che ancora oggi rappresenta l’elemento fondamentale della loro
autocoscienza etnica: peculiarità che ha assicurato a questo popolo l’odio di
tutte le popolazioni anatoliche mussulmane. Dal 639 d.C. gli armeni furono
dominati dagli arabi. Prima dal califfo Uthman (645) e poi dalla dinastia degli
Omayyadi, la cui dominazione fu più volte spezzata da violente rivolte. Dopo la
pesante sconfitta subita dai bizantini ad opera dei turchi selgiuchidi a
Manzikerk o Manazgherd (1071), la regione armena cadde sotto il dominio
dell’Impero selgiuchide. Sudditi dell’Impero Ottomano a partire dalla fine del
XIV secolo, gli armeni furono costretti ad adottare la lingua turca, pur
conservando la propria compattezza etnico-culturale grazie alla specificità
religiosa. Dopo la conquista di Costantinopoli da parte dei turchi (1453),
Maometto II il Conquistatore chiamò a sé nella capitale il vescovo armeno di
Brussa (Bursa), elevandolo alla dignità di patriarca, con prerogative pari a
quelle del patriarca greco-ortodosso. Nasceva così ufficialmente il “millet”, o
nazione degli armeni, che assunse presto grande importanza, soprattutto
economica e culturale, in seno all’impero. La comunità armena forniva infatti
ai sultani banchieri, imprenditori, mercanti, funzionari, ministri,
contribuendo molto alla rinascita economica di un Impero sostanzialmente
incapace, attraverso la classe di potere mussulmana, di badare al suo
ammodernamento interno. Fino dal XII secolo diversi missionari cattolici
inviati in Anatolia dal Papa cercarono di convincere gli armeni ad
abbandonare la Chiesa ortodossa e
questa politica (mal tollerata dagli ottomani) venne intensificata dopo il
Concilio di Firenze (1438-1445) e sotto Sisto V, fino a raggiungere un
significativo successo con la conversione , ad opera dei gesuiti, di Mechitar
(Sivas 1675 - Venezia 1749), fondatore dell’Ordine da cui prende il nome e che
ha sede nell’isola veneziana di San Lazzaro. Gli armeno-cattolici, perseguitati
a più riprese dalle autorità ottomane e criticati dagli armeno-ortodossi,
cercarono e spesso ottennero l’appoggio di potenze occidentali, prima fra tutte
la Francia che nel 1866 ottenne che questa minoranza armena venisse inquadrata
e tutelata sotto un’organizzazione ecclesiastica separata: il patriarcato
armeno-cattolico di Cilicia. In ogni caso, fino verso la metà del XIX secolo,
la nazione armena, nel suo complesso,
fu considerata dagli ottomani alla stregua di una minoranza “leale” nei
confronti del potere centrale di Costantinopoli, anche se, nell’ultimo scorcio
dell’Ottocento, l’intensificarsi della contrapposizione diplomatico-militare
tra l’Impero Ottomano e quello Russo e i sempre più frequenti attacchi delle
minoranze curde e circasse di recente immigrazione (appoggiate più o meno apertamente
da Costantinopoli) convinsero i sultani a comprimere sempre di più i diritti
elementari dell’intera etnia armena.
(2)
Secondo
fonti ufficiali armene fino agli inizi del XX° secolo in Russia non vi furono
sommosse da parte di nazionalisti armeni.
(3)
Sempre
secondo fonti armene, durante i torbidi della “controrivoluzione” del 1909 in Cilicia circa 30.000 armeni vennero
massacrati. Sembra che la responsabilità di questo eccidio, attribuita in un
primo momento ai circoli vicini al Sultano, sia invece da addossare al partito
dei Giovani Turchi.
(4)
I
maggiorenti di Costantinopoli, arrestati il 24 aprile 1915, furono divisi in
due gruppi e deportati in Anatolia dove molti di essi vennero uccisi. Tra
questi vi erano intellettuali e scrittori (come Daniel Varujan, la cui opera
poetica, recentemente tradotta anche in italiano, ha riscosso notevoli
consensi), giornalisti e sacerdoti. Tra gli uomini di chiesa il monaco Komitas,
padre della etnomusicologia armena. Komitas sopravvisse alla prigionia e alla
guerra, ma in seguito agli orrori patiti impazzì, finendo i suoi giorni in un
manicomio di Parigi.
BIBLIOGRAFIA
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Edizioni Calderini, Bologna 1989.
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Morgenthau, “Ambassador Morgenthau’s Story”, New York, 1919.
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Franz
Werfel, “The Forty days of Musa Dagh”, trans. G.Dunlop, London, 1934.