Due soldi di speranza (1951)
Al Festival di Cannes del 1952 vinse il Gran premio della giuria, ex aequo con
“Otello” di Orson Welles, “Due soldi di speranza” di Renato Castellani, un film
che rappresenta una tappa importante per il cinema italiano, dando origine ad
una nuova corrente che all’epoca, con intenti dispregiativi, venne definita
“neorealismo rosa”. Si rimproverava agli autori
di far leva più sul privato delle persone che sul sociale, affrancandosi
dall’impegno civile e politico del neorealismo propriamente detto, pur se veniva
mantenuto uno stile documentaristico, affidandosi sempre a volti presi dalla
vita e non ad attori professionisti. Castellani, con “Sotto il sole di Roma”
(1948 ) e con “E’ primavera” (1952 ), aveva tentato di dar vita ad una commedia
neorealista, ma soltanto con “Due soldi di speranza” riuscì a darvi concreta
realizzazione. Su soggetto suo e di E.M. Margadonna, avvalendosi di Titina De
Filippo alla sceneggiatura e per la revisione dei dialoghi, ambientò in un
piccolo paese campano la storia del contrastato amore tra Antonio Catalano (
Vincenzo Musolino ), unico sostegno di una numerosa famiglia cui cerca di
provvedere con ogni tipo di lavoro, e Carmela Artù ( Maria Fiore), figlia del
pirotecnico del paese, contrario alla loro unione. Dopo alterne e movimentate
vicende e vani tentativi di convincere il padre, compresa la classica fuga dal
paese, Antonio, con un moto di orgoglio prenderà con sé Carmela per recarsi in
chiesa e sposarla, tra la gioia di tutti i compaesani. Sullo sfondo di quello
che a prima vista potrebbe sembrare niente altro che un ameno e folcloristico
bozzetto, risaltano prepotentemente le innovative ed illuminanti figure dei due
protagonisti: Carmela è l’emblema e il prototipo cinematografico di un nuovo
tipo di donna, dalle molteplici sfumature, fiera nella sua bellezza e nel suo
aggressivo anticonformismo, ma sempre fondamentalmente onesta, che verrà
ripreso e sviluppato negli anni seguenti (come “La Bersagliera” interpretata da
G. Lollobrigida in “Pane, amore e fantasia”); Antonio è ben lontano dalla
solita figura del meridionale rassegnato al suo triste destino,arrabattandosi
in tanti mestieri, non scoraggiandosi mai, invocando solo in ultima analisi
l’intervento salvifico della divina Provvidenza (“Se Dio vuole che continuiamo
a vivere, dovrà pur darci da mangiare, se no che ci ha messo a fare al mondo?”,
grida nella scena finale), simboleggiando, in definitiva, un sud che dovrebbe
darsi da fare per abbandonare il suo tragico fatalismo. Dietro la
bucolica,arcadica facciata che rende il film genuino e godibile con la sua
spontanea allegria, vi è sempre e comunque rappresentato, con abile tratteggio,
un meridione cui sono estranei politica e lotta di classe, pronto veramente a
lottare soltanto per risolvere le più elementari questioni quotidiane.
(02.02.2009)
Antonio
Falcone
La Riviera