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Centri di permanenza temporanea : resoconti e testimonianze

 
 

Da Anna Brambilla(controilrazzismo@yahoo.it)

RELAZIONE VISITA AL CPT DI PONTE GALERIA

Ponte Galeria – 22 novembre 2002

Il Centro di Detenzione Temporanea di Ponte Galeria è in fase di ampliamento. Al termine dei lavori sarà in grado di offrire 3.00 posti, un centinaio in più di quelli attuali.

Al Centro si accede oggi da una strada laterale, in mezzo alla campagna (zona Fiumicino).

L’edificio che si affaccia direttamente sulla strada è attualmente adibito a scuola di polizia, la stessa dove, sembra, siano stati addestrati i poliziotti di Genova.

La delegazione è composta, oltre a me, da due deputate, Elettra Deiana e Silvana Pisa, Hamadi responsabile della Commissione immigrazione della Federazione romana del PRC,

Ci fanno parlare subito con il responsabile del Centro, capitano Bomba, che ci riceve in divisa verde. Il centro è infatti gestito dalla Croce Rossa e gli operatori anche se in abiti civili sono comunque militari (ad eccezione del personale femminile).

Dunque militari dentro e fuori.

La sicurezza esterna e i rapporti con la questura sono infatti di responsabilità del reparto interforze costituito da Polizia, Carabinieri e Guardia di Finanza.

Al colloquio si aggiunge anche la dott.sa Nero che coordina e dirige i servizi di assistenza sanitaria.

Quanto al resto del personale presente il tutto si riduce a 3 interpreti, una mediatrice, una psicologa e tre avvocati. Facciamo notare che forse è un po’ esiguo per una popolazione (mi viene da scrivere carceraria) che arriverà a 300 persone chiediamo se il personale impiegato segue corsi di formazione particolari. Ci rispondono che no, il personale così com’è è sufficiente e che eventualmente quando si arriverà a 300 allora forse chiederanno rinforzi e che no, non ci sono speciali corsi di formazione perché il personale è scelto in base alla sua sensibilità verso la situazione anche se certo episodi di razzismo ci sono stati perché anche nella Croce Rossa ci sono buoni e cattivi.

Al momento il Centro “ospita” (perché secondo i responsabili di ospiti si tratta) 64 donne e 53 uomini. Rumeni, albanesi, nigeriane, tunisini, marocchini al 99% sempre a detta di Bomba, provenienti dalla strada o dal carcere e in attesa di riconoscimento o di espulsione.

In applicazione di quanto dispone la direttiva Bianco – ci spiega Bomba – si cerca di rendere la permanenza degli ospiti il meno sgradevole possibile. Questo per loro significa dare abiti puliti all’arrivo (cercando di evitare colori troppo simili per non dare proprio l’impressione di essere in un carcere) e una tessera telefonica da 5 euro ogni dieci giorni. E poi un pacchetto di sigarette la settimana, la possibilità di ricevere visite da parte di parenti o conoscenti (con l’autorizzazione del prefetto) e di “far fare la spesa fuori” tre volte la settimana (con quali soldi????) e …. Poi….e poi c’è una biblioteca e un barbiere…..colpisce questo far pubblicità ad una serie di servizi che in una struttura che deve “ospitare” persone per 60 giorni (prima erano 30 ma in alcuni CPT le scadenze non vengono rispettate) dovrebbero essere scontate.

E invece evidentemente non è così.

La situazione qui è, a detta del personale idilliaca “da Grand Hotel”.

Si cerca sempre in base a questa famosa circolare Bianco di rispettare “le tradizioni e la cultura”degli ospiti. Ovvero dare riso scotto alle nigeriane perché a loro piace così (dare loro cous cous o semola diventa troppo complicato) e, dato che molti ospiti sono musulmani, cambiare gli orari della mensa perché possano festeggiare il Ramdan, offrire datteri per la rottura del digiuno e naturalmente mettere a disposizione copie del Corano. Hamadi chiede se per la conclusione del Ramdan è previsto qualcosa di particolare….o certo ….rispondono “qualche dolcetto”.

Tutto dunque si limita ad eccezioni e regalini alimentari.

Passiamo a vedere le strutture del Centro.

La sensazione è fortissima. Un colpo allo stomaco.

In tutto prevale il grigio (anche negli abiti degli “ospiti” al contrario di quanto avevano detto i responsabili) e la sensazione di disorientante e sconsolante spersonalizzazione.

Alte inferriate grigie, muti muri di cemento grigio, grigie stanze anonime (le pareti esterne ed interne non sono intonacate).

È triste, è triste perché affiora ancora una volta in chi ci lavora il tentativo di mostrare quanto è ben gestito il centro, il loro atteggiamento di (più o meno) celata superiorità verso “gli ospiti”.

I responsabili gongolano nel farci vedere il neonato “angolo bellezza”: un posto dove ci si può lavare i capelli, asciugarseli e, se non ho capito male, anche depilarsi (!) per fare in modo che le donne si possano sentire maggiormente a proprio agio (a noi donne sembra che si debba fare proprio poco per accontentarci !).

Alla dottoressa Nero dico che per assurdo in carcere ci sono più servizi lei mi risponde “ma qui hanno la libertà” (!!!!)

La libertà consiste in uno spiazzo grigio tra gli edifici adibiti a dormitorio e le sbarre, nel corridoio che separa le varie zone, o in un tuffo nella piccola biblioteca.

Qui come al Regina Pacis di Lecce, dove lo scorso sabato sono andati altri compagni, alle domande tecniche sono state date risposte adeguate e se si vuole anche di critica alla gestione del fenomeno immigrazione da parte dell’attuale governo ma la tristezza è tanta.

È triste vedere le donne fuori, negli spazi comuni (un corridoio che corre tra le alte sbarre di ferro) e gli uomini al di là delle sbarre, appena fuori dai piccoli edifici bassi dove si dorme.

È triste vedere donne e uomini che si parlano attraverso le sbarre, seduti su vecchi materassi o sul cemento (non vedo sedie in giro) donne e uomini che ci guardano con sguardi indecifrabili o quasi rassegnati. Nel pomeriggio sarà il contrario, donne dentro, uomini fuori. Il contatto, la “commistione” ha infatti dato luogo a problemi in passato. Ci viene da commentare che allora forse tanto vale tenerli completamente separati.

Probabilmente è vero che Ponte Galeria è una realtà migliore di altre ma rimane il fatto che realtà così non dovrebbero esistere. Non dovrebbero esistere perché non servano ad altro che a detenere persone che o hanno già pagato in carcere gli errori che hanno commesso o che di reati non ne hanno commessi affatto.

Nonostante il fatto che ci viene garantito che gli ospiti ricevono adeguate informazioni circa i loro diritti qualcosa non torna.

Come mai in tutto quest’anno c’è stato solo un ospite che ha ottenuto il riconoscimento dello status di rifugiato?

Come mai se la maggior parte delle donne presenti sono prostitute solo 4 o 5, sempre nel corso di quest’anno, sono riuscite ad accedere ai programmi ex articolo 18?

Come mai se a detta dei responsabili ci sono abbastanza interpreti una ragazza cinese si avvicina chiedendoci se qualcuno di noi parla cinese perché ha bisogno di comunicare (era “ospite” da due giorni)

A detta degli stessi responsabili del Centro ci sarebbero collusioni tra il personale di alcune ambasciate e chi gestisce il traffico della prostituzione: identificare le donne significa rimpatrio e rimpatrio significa un corpo in meno sulla strada, ovvero meno soldi.

E ancora, nella maggior parte dei casi gli “ospiti” non hanno un avvocato di fiducia e viene loro assegnato un avvocato d’ufficio che o non fa nulla o nel migliore dei casi si limita a svolgere un ruolo formale. Nessuna garanzia dunque del pieno diritto di difesa.

Per gli ospiti che non sono compatibili con il centro, perché minori o perché donne in stato di gravidanza o ancora perché affetti da HIV, vengono fatte le opportune segnalazioni e presi gli opportuni provvedimenti ma non si capisce bene poi che fine facciano.

Durante la visita chiediamo che tipo di patologie presentano normalmente le persone che arrivano e che tipo di assistenza viene garantita, anche a chi ad esempio ha in corso problemi di tossicodipendenza. Ancora una volta le risposte sembrano perfette.

Chi non viene identificato dalle ambasciate viene rilasciato e spesso ricapita poco tempo dopo nel centro.

Altro giro altro regalo.

Un volta fuori la sensazione è di aver voluto fare altre domande e di aver passato troppo poco tempo all’interno per poter capire e giudicare, di non aver parlato abbastanza con chi è dentro.

Crediamo dunque sia opportuno sostenere quanto già proposto in altri casi:

- introdurre un difensore civico all’interno dei centri di permanenza temporanea

- creare un “pool” di personale medico, legale e psico – sociale che possa entrare nei centri regolarmente oltre che per supportare il personale già presente ed evitare “forme di monopolio” anche per fare in modo che venga realmente garantito il diritto di difesa soprattutto ai richiedenti asilo e l’accesso a tutti i programmi di protezione e reinserimento

- organizzare visite periodiche ai centri da parte di deputati e ONG

- verificare in che modo avvengono i riconoscimenti e i rimpatri (cosa accade dopo???? Soprattutto, ad esempio, alle nigeriane?)

- Fare in modo che tutto il personale che opera nei centri segua programmi anche brevi di formazione continua (così come il personale delle forze dell’ordine) e che si organizzino incontri periodici e tavole rotonde con tutti i soggetti interessati (istituzioni, ONG, forze dell’ordine, associazionismo) – la buona volontà degli operatori e la loro presunta sensibilità non può considerarsi sufficiente.

Anna Brambilla








   
   
   
   
   

 

 

 

 

 

 
 
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