Damour era una cittadina accanto all'autostrada Beirut-Sidon, circa
20 kilometri a sud di Beirut, nell'area pedemontana del massiccio libanese. Sull'altro
lato dell'autostrada, al di là di una striscia pianeggiante di terra, c'era il
mediterraneo. Era una città di 25.000 abitanti con 5 chiese, tre cappelle, sette scuole
tra pubbliche e private ed un ospedale, ove, a spese del comune, vennero curati, assieme
ai cristiani, anche i mussulmani dei paesini circostanti.
Il 9 di gennaio 1976, tre giorni dopo la Befana, il parroco di Damour, Don Mansour Labaky,
stava praticando il rito maronita della benedizione delle case con acqua santa. Quando
stava di fronte a una casa vicina all'adiacente villaggio mussulmano di Harat Na'ami, una
pallottola fischiò accanto al suo orecchio e colpi la casa. Poi udì delle raffiche di
mitra. Si rifugiò all'interno della casa e apprese presto che la città era stata presa
d'assedio. Poco dopo seppe da chi: le truppe di Sa'iqa (terroristi dell'OLP affiliati alla
Siria), 16.000 terroristi tra palestinesi, siriani, unità di Mourabitoun, rafforzati da
mercenari provenienti dall'Iran, dall'Afghanistan, dal Pakistan e dalla Libia.
Don Labaky chiamò subito lo sceicco mussulmano del distretto e li chiese, a mo di collega
spirituale, cosa poteva fare per venire in aiuto della popolazione. "Non ci posso
fare nulla", li fu detto, "vogliono distruggervi. Sono i palestinesi. Non posso
fermarli."
Mentre le raffiche di mitra e i colpi di mortai continuarono per tutta la giornata, Don
Labaky chiamò una lunga lista di politici sia della destra sia della sinistra, chiedendo
aiuto. Tutti risposero, con scuse e rimpianti, che non potevano farci nulla. Poi chiamò
Kamal Giumblat, rappresentante parlamentare druso del distretto di Damour.
"Padre", disse Giumblat, "non ci posso fare nulla, perché tutto dipende da
Yassir Arafat." E diede il numero personale di Yassir Arafat al sacerdote.
Quando Labaky chiamò il numero in questione, gli fu risposto da un aiutante di Arafat e
non potendo raggiungere lo stesso Arafat, Labaky li disse, "i palestinesi stanno
sparando colpi di mortaio e raffiche di mitra contro la mia città. Posso assicurarvi come
esponente religioso che non vogliamo la guerra e che non crediamo nella violenza." E
aggiunse che quasi la metà degli abitanti di Damour aveva votato per Kamal Giumblat, un
uomo che stava vicino all'OLP. "Padre, non si preoccupi. Non vogliamo farvi del male.
Se vi stiamo distruggendo, lo facciamo solo per pure ragioni strategiche."
Don Labaky non pensava che non ci fosse da preoccuparsi, anche se la distruzione era
"solo per pure ragioni strategiche" e insistette nel chiedere ad Arafat di
richiamare i suoi combattenti. Alla fine, l'aiutante disse che loro, il quartiere generale
dell'OLP, avrebbero detto loro "di cessare il fuoco".
Erano già le undici di notte, e il fuoco non aveva cessato, quando Don Labaky chiamò di
nuovo Kamal Giumblat per dirgli cosa aveva detto l'aiutante d'Arafat. Il consiglio che
Giumblat diede al sacerdote era di continuare a chiamare Arafat e altri amici suoi,
"perché", disse, "non mi fido di lui".
Mezz'ora più tardi furono tagliate le linee telefoniche, l'acqua e l'elettricità. La
prima ondata d'invasione avvenne mezz'ora dopo la mezzanotte, dal lato della città da cui
è stato sparato al sacerdote prima. Gli uomini di Sa'iqa assalirono le case e
massacrarono quella notte una cinquantina di civili. Don Labaky udì le grida e scese
nella strada. Donne in camicie da notte stavano correndo verso di lui "strappandosi i
capelli e urlando 'Ci stanno massacrando!' I sopravissuti, evacuando quella parte della
città, si rifugiarono nella chiesa più vicina. All'alba, gli invasori avevano già preso
il quartiere. Don Labaky descrisse la scena come segue:
"La mattina riuscii, nonostante i colpi di mortaio, ad arrivare all'unica casa non
occupata per recuperare i cadaveri. E mi ricordo qualcosa che ancora mi fa rabbrividire.
Un'intera famiglia, la Famiglia Can'an, quattro bambini tutti morti, e la madre, il padre,
e il nonno. La madre stava ancora abbracciando uno dei bambini. Era incinta. Gli occhi dei
bambini erano stati cavati e i loro arti amputati. Erano senza gambe e senza braccia. Li
abbiamo portati via in un Apecar. E chi m'aiutava a portare via i cadaveri? L'unico
sopravissuto, lo zio dei bimbi. Si chiamava Samir Can'an. Egli portava con me i resti del
suo fratello, del suo padre, della sua cognata e dei poveri bambini.
Li abbiamo sepolto nel cimitero, sotto i colpi di mortaio dell'OLP. E mentre li
seppellivamo, trovammo altri corpi ancora nelle strade."
La città cominciava a difendersi. Duecentoventicinque giovani, la più parte di loro
sedicenni, armati di fucili da caccia e senza addestramento militare, resistettero per
dodici giorni. La popolazione si nascose nelle cantine con sacchi di sabbia davanti alle
porte e alle finestre dei pianterreni. Don Labaky fece spola tra nascondiglio e
nascondiglio per visitare le famiglie e portare loro latte e pane. Spesso incoraggiò i
giovani a difendere la città. L'assedio senza sosta alla città causò gravi danni. Dal 9
di gennaio 1976, i palestinesi avevano tagliato l'acqua e qualsiasi rifornimento di viveri
e rifiutavano alla Croce Rossa di evacuare i feriti. Neonati e bambini morirono di
disidratazione. Solo tre altri cittadini caddero sotto il fuoco dell'OLP tra il primo e
l'ultimo giorno dell'assedio che terminò il 23 gennaio del 1976. Però, quel giorno,
quando avvenne il massacro finale, centinaia di cristiani furono ammazzati, come racconta
Don Labaky:
"L'attacco cominciò dalle montagne. Era un'apocalisse. Vennero in migliaia, urlando
a squarciagola 'Allahu akbar! Iddio è grande! Attacchiamoli in nome degli arabi, offriamo
un olocausto a Maometto'. E massacrarono chiunque li si metteva sul cammino, uomini, donne
e bambini".
"Intere famiglie sono state uccise nelle loro case. Molte donne furono violentate in
gruppo, alcune di loro furono lasciate vive. Una donna salvò la sua figlia adolescente
dalla violenza sessuale spalmando la sua faccia con dell'indaco per farla apparire
ripugnante.
Mentre le atrocità continuavano, gli invasori si scattavano delle foto e le offrirono,
più tardi, per soldi ai giornali europei."
"Alcuni sopravissuti testimoniarono l'accaduto. Una ragazza sedicenne, Soumaya
Ghanimeh, testimoniò la fucilazione del padre e del fratello da parte di due degli
invasori, e vide la propria casa, assieme alle case dei vicini, saccheggiata e bruciata.
Ella disse:
'Quando mi stavano portando in strada, tutte le case intorno a me stavano bruciando. Di
fronte alle case erano parcheggiati dieci camion nei quali erano stipati i bottini. Mi
ricordo quanto ero spaventata dal fuoco. Stavo urlando. E per molti mesi non riuscii a
sopportare che qualcuno accendesse un fiammifero accanto a me. Non ne sopportavo il
puzzo.'
"Lei e sua madre, Mariam, assieme alla sorella più piccola e al fratellino neonato,
sono stati risparmiati dall'essere fucilati in casa quando si nascose dietro a un
palestinese cercando protezione da un fucile puntato contro di lei. Urlò: 'Non
permettergli d'ucciderci!' e l'uomo accettò il ruolo di protettore che la ragazza gli
aveva inaspettatamente assegnato. 'Se li ammazzi, devi ammazzare anche me, disse al suo
commilitone. Così vennero risparmiati, radunati con altri nelle strade e caricati sui
camion che li portarono al campo palestinese di Sabra a Beirut, ove vennero imprigionati
in una prigione sovraffollata. 'Dovevamo dormire per terra, e faceva un freddo
cane.'"
Quando Don Labaky trovò i corpi carbonizzati del padre e del fratello in casa Ghanimeh
non poteva neppure distinguerne il sesso. Nella frenesia di voler, a tutti costi,
infliggere il massimo dell'umiliazione alle loro vittime, come se neppure i limiti
assoluti della natura umana potevano fermarli, gli invasori devastarono le tombe e
sparsero le ossa dei defunti nelle strade. Chi era riuscito a scappare dal primo attacco
continuava a scappare con ogni mezzo, con le macchine, con i carri, con le bici e con le
moto. Alcuni si rifugiarono sulla spiaggia sperando di poter scappare con le barche a
remi. Ma il mare era in tempesta e l'attesa della salvezza era troppo lunga, erano
consapevoli dell'eventualità che i loro nemici potevano accanirsi contro di loro a
qualunque momento.
Circa cinquecento persone si radunarono nella chiesa di Sant'Elia. Don Labaky arrivò lì
alle sei del mattino quando i tumulti dell'attacco l'avevano svegliato. Predicò un
sermone sul significato del massacro d'innocenti. E quando non sapeva che consigliarli li
disse: "Se vi dicessi di rifugiarvi sulla spiaggia, so che vi ammazzeranno. Se vi
dicessi di rimanere qui, so che vi ammazzeranno".
Un vecchietto suggerì di esporre una bandiera bianca. "Forse ci risparmieranno se ci
arrendiamo." Don Labaky gli diede il suo benestare e mise una bandiera bianca sulla
croce processionale che stava davanti alla chiesa. Dieci minuti tardi sentirono bussare
alla porta, tre colpi in successione rapida, poi altre tre volte tre colpi in successione
rapida. Rimasero impietriti. Don Labaky disse che andava lui a vedere chi ci fosse. Se era
il nemico, magari li risparmiavano. 'Ma, se ci ammazzano, perlomeno moriremo tutti insieme
e avremo una bella parrocchia in cielo di 500 persone senza posti di blocco che ci
separano". Risero e il sacerdote aprì la porta.
Non era il nemico, ma due cittadini di Damour che erano riusciti a scappare e che avevano
visto la bandiera bianca dalla spiaggia. Erano venuti per metterli in guardia sul fatto
che la bandiera bianca non sarebbe stata di nessun aiuto. 'Anche noi abbiamo issato una
bandiera bianca davanti a Nostra Signora e ci hanno sparato addosso.'
Di nuovo discussero quello che c'era da fare. Labaky li disse che una sola cosa sarebbe
rimasta a fare, anche se era 'impossibile': pregare affinché Iddio perdonasse coloro che
stavano per venire a ucciderli. Mentre che pregavano, due dei giovanissimi difensori della
città che, a loro volta, avevano visto la bandiera bianca entrarono e dissero 'Correte
verso la spiaggia adesso, vi copriremo.'
I due giovani stavano davanti al portale della chiesa e spararono nella direzione dalla
quale proveniva il fuoco dei fedayin. Ci vollero dieci minuti finché tutte le persone
presenti nella chiesa poterono lasciare la città. Tutti e cinquecento sono riusciti, meno
un vecchietto che non poteva camminare e che avrebbe preferito morire davanti alla propria
casa. Non è stato ucciso. Don Labaky lo trovò settimane più tardi in una prigione
dell'OLP e sentì quello che è successo dopo che lui era scappato.
Un paio di minuti dopo che erano scappati, 'venne l'OLP e bombardò la chiesa senza
entrarvi. Buttarono giù la porta e gettarono le granate. Sarebbero rimasti tutti uccisi
se non fossero scappati.
Don Labaky aveva condotto la sua congregazione lungo la spiaggia di Camille Chamoun.
Quando arrivarono lì, videro che era stata già saccheggiata e parzialmente bruciata.
Trovarono, comunque, protezione in un palazzo di un mussulmano che 'non era d'accordo con
i palestinesi', e successivamente riuscirono a prendere il mare in piccole imbarcazioni,
nelle quali salparono verso Jounieh. 'Una povera donna doveva partorire in una piccola
barca nel mare invernale in tempesta'.
In tutto, 582 persone morirono nell'assalto a Damour. Don Labaky tornò con la Croce Rossa
per seppellirli. Molti dei cadaveri erano stati smembrati e dovettero contare le teste per
stabilire il numero delle vittime. Tre delle vittime maschili furono trovati con i loro
genitali amputati, messili nel cavo orale. (pratica mussulmana d'umiliazione postmortem
assai nota dalla guerra d'Algeri in poi, NdT).
Ma l'orrore non finì lì, anche il vecchio cimitero cristiano venne profanato, i
sarcofaghi aperti, i morti spogliati dei loro vestiti, le cassette delle elemosina
saccheggiate, e le ossa e gli scheletri sparsi sul campo sacro. Dopo Damour fu trasformata
in un baluardo di Al-Fatah e del PFLP (Fronte Popolare per la Liberazione della
Palestina). Le rovine di Damour divennero uno dei maggiori centri dell'OLP per la
promozione del terrorismo internazionale. La chiesa di Sant'Elia è stata trasformata in
un autorimessa atta alla riparazione dei veicoli dell'OLP, così come in un poligono di
tiro con i bersagli dipinti sul muro orientale della navata.
Il comandante delle forze terroristiche che si accanirono, il 23 gennaio del 1976 era
Zuhayr Muhsin, capo di al-Sa'iqa, noto d'allora alla popolazione cristiana libanese come
il 'macellaio di Damour'. Fu assassinato il 15 luglio del 1979 a Cannes, nel sud della
Francia.
tradotto dall'inglese da Motty Levi
fonte:http://www.geocities.com/CapitolHill/Parliament/2587/damour.html |