di |
C'è chi costruisce
poesie scrivendole e chi se le sente dentro; c'è chi, sentendosele
dentro, avverte a volte la necessità di scriverle dando a ciò
che sente l'immagine e il suono delle parole. I semplici costruttori di
poesie stanno dietro l'angolo di casa, vi piombano addosso con i lro foglietti
in mano e vi costringono a leggerle, peggio ancora a sentirle. Io li evito
come la peste. Quelli che se le sentono dentro e basta non le scriveranno
mai. Coscienti dei propri limiti, non s'avventurano nei meandri di un linguaggio
che non è quello di tutti i giorni nè di tutte le letture
ma un patrimonio che nasce dalla miniera inesauribile di accostamenti,
sfumature, adattamenti e perfino invenzioni che piegano il vocabolario
alle esigenze dell'anima. Anche una sola parola può essere poesia.
Io li comprendo, sono come quelli che avvertono una musica ma non conoscono
il valore delle note.
Istria, Dalmazia e Fiume
in questi giovani poeti dell'esodo avranno sempre un futuro se la storia
non resta inchiodata alla croce del passato.
|
E subito riprende
il viaggio come dopo un naufragio un superstite lupo di mare ("Allegria di naufragi"
|
|
IL BIMBO ERA LI'
Il bimbo era lì
(povero vecchio consunto)
Con negli occhi lo stupore
D'essersi ritrovato
In panni odorosi di tempo
Senza erba tra le mani
Senza fiori tra i capelli.
Quasi degli HAIKU
ovvero
Echi da una terra perduta
I
Un melograno
II In me talvolta
III Echi nella sera
IV Risuona ancora
V Solo percorro
VI Assorto ascolto
VII Cullano le onde
VIII Nero granchietto
IX Il mare, le pietre, i pini
X Zanestra in fiur
traduzione: Ginestra in fiore
XI Passi smarriti
Alla mia età
|
"Ancura i favalemo a Monto
par nui rastà scuoio; parchì pioûn in puochi, da quando i vemo lassà |
Ceîssa"
|
|
I
I zèmo sparendo
II Anca el racuordo s'infuoiba
Ne l'aria riesta el sìgo da cucal
E la voûz del mar, senpro la stisa.
III Tiera mieîa, bandunada
Vanamentro ti ciami i fioi daspiersi
Tiera prumisa, no pioûn ratruvada.
IV I son oûn viecio tronco malazanbà
Ma basta paruò oûn lanpo d'uoci
Ch'i son cume el nuvo virdo al preîmo sul.
V Quista zì la nuoto scoûra e mala
nuoto
Quista zì la nuoto da i panseri
Quista zì la scoûra nuoto, anama
mieîa
VI I nu iè pioûn paruole,
Sul i ma ramanìo intù ganbare
A riesta nama racuordi
Roma 15-5-1997
VII Zì zà el tramonto, cala li tienabre
L'ieco de i miei balighi rabonba lento
A ma par da scultà int'el silensio
Favalìde, favalìme pioûn foûga ch'i nu va uoldo... I sento nama oûna cunduolma, oûn pianto
dasparà
VIII Bazileîsco, Daviscuvi, Sigariol
Cari cugnumi de la nostra sità
Viecia pioûn de la "Viecia Batana"
|
||
"Quando trovo
in questo mio silenzio una parola scavata è nella mia vita come un abisso". |
G. UNGARETTI
|
I
Andiamo scomparendo
II Anche il ricordo s'infoiba
Nell'aria rimane l'urlo di gabbiano
E la voce del mare, sempre uguale.
III Terra mia, abbandonata
Vanamente richiami i figli dispersi
Terra promessa, non più ritrovata.
IV Sono un vecchio tronco contorto
Mi basta però un lampo d'occhi
Che sono come il nuovo verdo al primo sole.
V Questa è la notte scura e mala notte
Questa è la notte dei pensieri
Questa è la notte scura, anima mia
VI Non ho più parole,
Solo mi rigiro tra stanze
Restano soltanto ricordi
Roma 15-5-1997
VII E' già il tramonto, calano le tenebre
L'eco dei miei passi rimbomba lento
Mi sembra di udire nel silenzio
Parlate, parlatemi più forte che non vi sento... Si ode soltanto un lamento indistinto,
VIII Basilisco, Devescovi, Segariol
Cari cognomi della nostra città
Vecchia più della "Vecchia Battana"
|
I
Si frangono rumorose le onde
II Lentamente declina il sole
Nel cielo la mia anima
III Negli occhi dischiusi
IV Nel notturno silenzio
FUGGENTE RIVA
Quando la sera dalla profonda tenebra
Del sogno all'onda viva cullato giaccio
|
Due poeti - profugo dalla terra
d'Istria in tenerissima età l'uno, figlio di profughi l'altro -
intrecciano il loro canto esternando la percezione del ricordo ed il ricordo
stesso che accompagnano l'immagine onirico-reale della piccola patria perduta,
fissando la parola poetica ai luoghi e al microcosmo fonetico e armonico
dell'infanzia. Gianclaudio de Angelini, studioso delle cose istriane,
scrive in dialetto rovignese che coltiva con passione, in uno slancio volto
al recupero di ciò che si è lasciato alle spalle. Interessarsi,
occuparsi, scrivere e "coccolare" l'istrioto per chi da sempre vive e si
muove in una città come Roma, potrebbe essere considerato dai più
un esotismo, magari una voglia di stranezza. Non da noi, come il poeta,
palesamente affetti da irriducibile passione nei confronti del paradiso
vocale che fu quello dei nostri padri e, per bizzarre ragioni della storia
meno nostro, come lo è stato il rovignese per la famiglia del poeta,
che ne fa uso con attente tenerezza e delicata sensibilità. Lo scrivere
in dialetto è bisogno che colma una carenza affettiva, è
il fluire della linfa vitale che scorre attraverso un cordone ombelicale,
mai reciso, è il cullarsi nella lingua matria divenuta ormai lingua
dell'identità di uno sparuto gruppo etnico.
Il volume, in gradevole veste
grafica, stampato grazie al contributo della Società di Studi Fiumani
e l'Associazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio,
si avvale della presentazione ispirata del dott. Amleto Ballarini. La postfazione
dedica una nota esplicativa sul Villaggio giuliano di Roma.
|
|
|
"); //-->