POESIA DELL'ESODO A DUE VOCI
di
Gianclaudio de Angelini                                                          Marino Micich
 

 
 
PRESENTAZIONE

     C'è chi costruisce poesie scrivendole e chi se le sente dentro; c'è chi, sentendosele dentro, avverte a volte la necessità di scriverle dando a ciò che sente l'immagine e il suono delle parole. I semplici costruttori di poesie stanno dietro l'angolo di casa, vi piombano addosso con i lro foglietti in mano e vi costringono a leggerle, peggio ancora a sentirle. Io li evito come la peste. Quelli che se le sentono dentro e basta non le scriveranno mai. Coscienti dei propri limiti, non s'avventurano nei meandri di un linguaggio che non è quello di tutti i giorni nè di tutte le letture ma un patrimonio che nasce dalla miniera inesauribile di accostamenti, sfumature, adattamenti e perfino invenzioni che piegano il vocabolario alle esigenze dell'anima. Anche una sola parola può essere poesia. Io li comprendo, sono come quelli che avvertono una musica ma non conoscono il valore delle note.
     Molti, forse troppi, invece s'arrischiano e da qui nasce il cumulo delle poesie che stanno nel cassetto. La presunzione unana che non farà mai fallire gli inventori dei premi letterari spinge eserciti di poeti al traguardo della carta stampata. I costruttori che non sono poeti e i poeti che strapazzano il vocabolario inseguono il consenso altrui come le formiche il miele.
     Beato chi sa trasformare in parole quello che sente dentro. E' un vero poeta. Tra questi, raggiungendo la perfezione, nasce ogni tanto qualche genio che lascia il segno nella cultura dell'uomo in ogni tempo e in ogni paese. Ma se abbiamo bisogno di questi per afferrare in parte i segreti della vita abbiamo anche bisogno dei veri poeti che non sono dei geni per sentirci vivi. Avvertire la loro presenza intorno a noi ci fa riscoprire il valore dell'esistenza. I veri poeti o sono buoni, anche senza essere dei geni, o non sono poeti. Leggiamoli, quando vincendo il pudore che loro deriva dalla presenza di quell'esercito in marcia che poeta non è, ci propongono i loro versi e siamo loro grati per averceli dati!
     Faremo del bene a noi facendo una breve sosta nel pelago della materia per appagar lo spirito e forse, dico forse perchè quasi mai succede, potremmo dare un modesto contributo a chi percorre, magari senza saperlo, cosa rara nel genio, l'aspra via dell'immortalità.
     Non credo di poter vincere proprio io questo gran terno a lotto proponendovi i versi di Gianclaudio e Marino, ma sono convinto che nei loro versi ci siano gli ingre- dienti necessari per la buona poesia. Faccio un favore a chi mi legge e incoraggio gli autori a continuare a scrivere. La cultura dell'esodo, di poeti, ne ha pochi forse perchè in quella che la precedette nelle terre adriatiche perdute, i poeti non sono mai stati legione. L'esodo, poi, suscita sentimenti e risentimenti troppo forti per potersi sposare facilmente alla poesia. Queste due voci così pacate e serene hanno il privilegio della giovinezza e un vantaggio enorme su chi sopportò il peso d'aver lasciata la "sua" giovinezza nella terra abbandonata, quello di poterla rivivere più come un sogno che come una realtà: "In me talvolta (scrive Angelini) - dalla perduta riva - rinasce un sogno". Nel sogno d'un giovane d'oggi sia pure con sfumato sarcasmo che non suona offesa, c'è anche l'accettazione consapevole di una realtà presente molto meno respinta di quella che i giovani, ora invecchiati di mezzo secolo, rifiutarono lasciando ad essa, con legittimo rancore, la parte migliore della propria individuale storia: "Il mare, le pietre, i pini - e mel(o)diose voci croate". La rabbia dei vecchi sogna ritorni che sanno di rivincita, il sogno dei giovani ama anche una felice realtà che non conosca mai più la sofferenza degli esodi imposti e dei ritorni di vendetta: "Terra mia abbandonata - mai stanca d'attendere impossibili ritorni". E la "terra abbandonata" parla come se fosse viva, stanca anche del suo passato, guardando a un fututo che non conosca l'odio per chi ora riesce a vivere in essa rispettando l'inguaribile dolore di chi per lei andandosene, ha iniziato ogni giorno a morire un pò: "Terra promessa, non più ritrovata". Una terra per la quale oggi mancano gli eroi per rivendicarla e il tempo degli eroi per riscattarla: "La mia gente (dice Micich) ricorda i suoi eroi - ad essa sola - appartengono - eroi contesi - eroi silenziosi - eroi dimenticati". La sua gente li ha visti passare nei giorni della storia fatta dagli eroi ed esaltata dai poeti, egli vive nei giorni che non producono eroi ma solo schiere genuflesse di falsi poeti e lui che è poeta vive anche per la sua storia: "Io non credo agli eroi - ma so che esistono". Un poeta riesce nella realtà più triste a cogliere la fede e la speranza. Anche in quella Fiume che un genio definì "olocausta" e dove, per Marino Micich, la luce della fiamma accesa illumina il mare in un giorno in cui la pioggia gli bagna l'anima: "Ravvolto di solitudine - in fuga - guardavo la pioggia - cadere - sul Carnaro - arso - di luce".

     Istria, Dalmazia e Fiume in questi giovani poeti dell'esodo avranno sempre un futuro se la storia non resta inchiodata alla croce del passato.
     Leggeteli e ve ne renderete conto. 

IL PRESIDENTE 
DELLA SOCIETÀ DI STUDI FIUMANI 
Dr. AMLETO BALLARINI 

  
E subito riprende 
il viaggio 
come 
dopo un naufragio 
un superstite 
lupo di mare 

("Allegria di naufragi" 
di G. UNGARETTI

 


 
Gianclaudio de Angelini

IL BIMBO ERA LI'

Il bimbo era lì
(povero vecchio consunto)
Con negli occhi lo stupore
D'essersi ritrovato
In panni odorosi di tempo
Senza erba tra le mani
Senza fiori tra i capelli.
 

Quasi degli HAIKU
ovvero
Echi da una terra perduta

I

Un melograno 
Della terra perduta 
Vago richiamo. 
 

II 

In me talvolta 
Dalla perduta riva 
Rinasce un sogno. 
 

III 

Echi nella sera 
Rincorrono malie 
Di un canto ondoso. 
 

IV 

Risuona ancora 
Nelle strette stradine 
Qualche antica eco. 
 

V 

Solo percorro 
Calli notturne, con me 
Voci perdute. 
 

VI 

Assorto ascolto 
Lo sciabordio del mare 
Immutabile. 
 

VII 

Cullano le onde 
I sogni del passato 
Liquido azzurro. 
 

VIII 

Nero granchietto 
Invano fuggi l'onda 
Che ti ricopre. 
 

IX 

Il mare, le pietre, i pini 
E mel(o)diose voci croate. 
 

X 

Zanestra in fiur 
Sul i ma ramanìo 
A Ponta Cruz. 

traduzione: 

Ginestra in fiore 
Solo, senza meta, vago 
A Punta Croce. 
 

XI 

Passi smarriti 
Nell'esilio eterno 
Dei giorni. 
 
 
XII 

Alla mia età 
Padre, eri già morto 
Notte di luglio. 

 



  
"Ancura i favalemo a Monto 
par nui rastà scuoio; 
parchì pioûn in puochi, 
da quando i vemo lassà 
Ceîssa" 
Ligio Zanini 
 
I

I zèmo sparendo 
Ne la pioûn cunpleta indifarensa 
E 'l sìgo da dulur 
Piza intù la gula cume oûna pera. 
 

II 

Anca el racuordo s'infuoiba 
Int'el sango de la tuova tiera rusa. 

Ne l'aria riesta el sìgo da cucal 
De la tuova zento daspiersa 

E la voûz del mar, senpro la stisa. 
 

III 

Tiera mieîa, bandunada 
Mai straca da spatà 
Inpuseîbili raturni. 

Vanamentro ti ciami i fioi daspiersi 
Ca da luntan ta sugna 
E da rento ta piura. 

Tiera prumisa, no pioûn ratruvada. 
 

IV 

I son  oûn viecio tronco malazanbà 
Cun puoche fuoie e doûto tavarà. 

Ma basta paruò oûn lanpo d'uoci 
Oûna ridulada, oûna buca viludada. 

Ch'i son cume el nuvo virdo al preîmo sul. 
 

V 

Quista zì la nuoto scoûra e mala nuoto 
E vui signì quila ca ma dà turmento. 

Quista zì la nuoto da i panseri 
La nuoto ca nu durmiriè int'el lieto. 

Quista zì la scoûra nuoto, anama mieîa 
Ca ma indurminsariè sul tuovo dulso pito. 
 

VI 

I nu iè pioûn paruole, 
Iè pierso el canto cume el coûco. 

Sul i ma ramanìo intù ganbare 
Da culpo masa grandi. 

A riesta nama racuordi 
Coûguli par fà maziere. 

Roma 15-5-1997 
 

VII 

Zì zà el tramonto, cala li tienabre 
El vento feîs'cia intù li cali dazierte. 

L'ieco de i miei balighi rabonba lento 
Soûn li pere fruade dal tenpo. 

A ma par da scultà int'el silensio 
Oûn sunsoûro, oûna liema ca ma ciama, 
O ma fà li rice, cun la voûz raguza dei miei zensi. 

Favalìde, favalìme pioûn foûga ch'i nu va uoldo... 

I sento nama oûna cunduolma, oûn pianto dasparà 
Ca ma dazmeîsia da buoto lagandume sul, incucalì 
Cui uoci loûstri da sal e 'l cor ingrupà. 
 

VIII 

Bazileîsco, Daviscuvi, Sigariol 
Binoûsi, Bareîcio, Maluzà 
Dandolo, Zorzi, Venier 
Buorme, Rizmondo, Chireîn 
Fagarasi, Zorzeti, Zbrisai 
Custanteîni, Caleîfi, Angileîni 
Boûrla, Caenaso, Maraspeîn 
Eîve, Piergulis, Abà 
E puoi Masaruoto, Caloûci, Dapiran 
Sponza, Bubeîcio, Giuriceîn... 

Cari cugnumi de la nostra sità 
Ura i signì sparnisadi a miera par doûta la tiera. 
Ma int'el cor cantìde cun li nuote s'ciasoûze 
De oûna viecia canson. 

Viecia pioûn de la "Viecia Batana" 
Viecia cume li pere, viecia cume el mar 
Viecia cume teî, Ruveîgno mieîa. 



 
"Quando trovo 
in questo mio silenzio 
una parola 
scavata è nella mia vita 
come un abisso". 
G. UNGARETTI


  

I

Andiamo scomparendo 
Nella più completa indifferenza 
E l'urlo di dolore 
Grava nella gola come una pietra. 
 

II 

Anche il ricordo s'infoiba 
Nel sangue della tua terra rossa. 

Nell'aria rimane l'urlo di gabbiano 
Della tua gente dispersa 

E la voce del mare, sempre uguale. 
 

III 

Terra mia, abbandonata 
Mai stanca d'attendere 
Impossibili ritorni. 

Vanamente richiami i figli dispersi 
Che da lontano ti sognano 
E da vicino ti piangono. 

Terra promessa, non più ritrovata. 
 

IV 

Sono un vecchio tronco contorto 
Con poche foglie e tutto tarlato. 

Mi basta però un lampo d'occhi 
Una risata, una bocca vellutata. 

Che sono come il nuovo verdo al primo sole. 
 

V 

Questa è la notte scura e mala notte 
E voi siete quella che mi dà tormento. 

Questa è la notte dei pensieri 
La notte che non dormirò nel letto. 

Questa è la notte scura, anima mia 
Che mi addormenterò sul tuo dolce petto. 
 

VI 

Non ho più parole, 
Ho perso ogni voglia di cantare. 

Solo mi rigiro tra stanze 
Improvvisamente toppo grandi. 

Restano soltanto ricordi 
Ciottoli per erigere confini. 

Roma 15-5-1997 
 

VII 

E' già il tramonto, calano le tenebre 
Il vento fischia tra le stradine deserte. 

L'eco dei miei passi rimbomba lento 
Sulle pietre consumate dal tenpo. 

Mi sembra di udire nel silenzio 
Un sussurro, una nenia che mi chiama, 
Forse è un inganno dei sensi, 
Con la voce rauca del mio popolo. 

Parlate, parlatemi più forte  che non vi sento... 

Si ode soltanto un lamento indistinto, 
Un pianto disperato che mi risveglia di colpo 
Lascandomi solo, inebetito, 
Con gli occhi lucidi di sale, il cuore pesante. 
 

VIII 

Basilisco, Devescovi, Segariol 
Benussi, Baricchio, Malusà 
Dandolo, Zorzi, Venier 
Borme, Rismondo, Cherin 
Fagherazzi, Zorzetti, Zbrizzai 
Costanteini, Califfi, Angelini 
Burla, Caenazzo, Maraspin 
Ive, Pergolis, Abbà 
E poi Masserotto, Calucci, Dapiran 
Sponza, Bobicchio, Giuricin... 

Cari cognomi della nostra città 
Ora siete sparsi a migliaia per tutta la terra. 
Ma nel cuore cantate con le note squillanti 
Di una vecchia canzone. 

Vecchia più della "Vecchia Battana" 
Vecchia come li pietre, vecchia come il mare 
Vecchia come te, Rovigno mia. 




VIAGGIO

  

I

Si frangono rumorose le onde 
A pieni polmoni respiro 
L'azzurro terso del cielo. 

II 

Lentamente declina il sole 
Più sordamente ansita il mare 

Nel cielo la mia anima 
Continua il suo viaggio. 

III 

Negli occhi dischiusi 
Come fresca preghiera 
A sorsi si versa la sera. 
 

IV 

Nel notturno silenzio 
Lenti sciabordano i pensieri 
Al ritmo sordo dei remi. 

FUGGENTE RIVA 
 

Quando la sera dalla profonda tenebra 
Esala evanescente primavera 

Del sogno all'onda viva cullato giaccio 
Sino ad intravedere d'Itaca la fuggente riva. 

 


 
L'ESODO IN POESIA

Recensione
di
Gianna Dallemulle Ausenak

    Due poeti - profugo dalla terra d'Istria in tenerissima età l'uno, figlio di profughi l'altro - intrecciano il loro canto esternando la percezione del ricordo ed il ricordo stesso che accompagnano l'immagine onirico-reale della piccola patria perduta, fissando la parola poetica ai luoghi e al microcosmo fonetico e armonico dell'infanzia. Gianclaudio de Angelini, studioso delle cose istriane, scrive in dialetto rovignese che coltiva con passione, in uno slancio volto al recupero di ciò che si è lasciato alle spalle. Interessarsi, occuparsi, scrivere e "coccolare" l'istrioto per chi da sempre vive e si muove in una città come Roma, potrebbe essere considerato dai più un esotismo, magari una voglia di stranezza. Non da noi, come il poeta, palesamente affetti da irriducibile passione nei confronti del paradiso vocale che fu quello dei nostri padri e, per bizzarre ragioni della storia meno nostro, come lo è stato il rovignese per la famiglia del poeta, che ne fa uso con attente tenerezza e delicata sensibilità. Lo scrivere in dialetto è bisogno che colma una carenza affettiva, è il fluire della linfa vitale che scorre attraverso un cordone ombelicale, mai reciso, è il cullarsi nella lingua matria divenuta ormai lingua dell'identità di uno sparuto gruppo etnico.
    Gli echi dalla terra perduta - un'Itaca dalla fuggente riva, il sogno che talvolta rinasce, il richiamo sotteso di struggente nostalgia, le voci perdute, lo smarrimento, sono emozioni che ammantano questa voce di accoramento, mentre l'anima rimane dolorante e indolenzita. L'amarezza dell'ora è nella consapevolezza del vano, reciproco anelito della terra abbandonata e dei suoi figli dispersi per le contrade del mondo, che sognano ambedue un impossibile ritorno. Talvolta il canto del poeta si dipana in un alternarsi di sensazioni tormentose che una risata o uno sguardo amoroso riescono ad attenuare, ma il lenimento è di breve respiro ed egli ripiomba nel malessere che spegne la speranza, lasciandolo (...) solo, inebetito,/Con gli occhi lucidi di sare, il cuore pesante/.
    In sintonia con il suo sentire è la poesia di Marino Micich, dottore in Lingue e letterature straniere, impegnato nella salvaguardia della cultura italiana di queste terre nonchè studioso dei problemi storici che vi fanno riferimento. Come il De Angelini richiama anche lui la memoria del Villaggio Giuliano di Roma che raccoglie profughi giuliano-dalmati, uniti nel ricordo e nel dolore per la patria perduta.
    Romano di nascita, anche per il Micich la lontananza dal suolo avito è radice di mestizia e sconforto. Gli aspetti vistosi di cui la vita è pur prodiga non bastano a germinare incondizionatamente luce e gioia, la quotidianità del profugo ha sempre un aspetto sussidiario che limita e coinvolge. Il prius, anche viaggiando da fermi nella visione apocalittica di Zara nel più duro periodo bellico (Zara, 1944), riflette e rimanda la proiezione psichica dell'eden tanto amato e perduto per sempre.
    Eppure, nell'inquietante fluire dei ricordi che si traducono in malinconica eredità, allorchè sembra che la speranza sia sorda e cieca, l'incredibile bellezza della nostra terra gratifica il poeta ad occuparsi del suo prossimo, di specularne i sentimenti facendo propria la frequenza emozionale dell'altro. Il riconoscersi nel dolore che accomuna, illumina le coscienza e apre le porte alla comprensione: così per il poeta, lo sguardo devoto e fiducioso dell'ignoto pellegrino che abbraccia con la sua carezza la Santa protettrice di Rovigno, rimarrà indelebile nel suo cuore, quasi un amuleto consolatorio che irradia speranza.
    Poesia del ricordo, poesia della sofferenza. Immagini che inseguono un sogno lontano, che rimandano echi, riverberi cromatici, sensazioni, profumi di erbe aromatiche. L'eterna canzone di un mare che non ha eguali. La nicchia materna che non è più a consolare, a proteggere. Che non è più salvifica.
    Noi siamo sempre e comunque le scelte che facciamo. Interrogarsi sui perchè è vano e non scioglie il bolo di angoscia e dolore che rende l'esistenza opaca.
    Ma nessuno irrida questo dolore.

    Il volume, in gradevole veste grafica, stampato grazie al contributo della Società di Studi Fiumani e l'Associazione per la cultura fiumana, istriana e dalmata nel Lazio, si avvale della presentazione ispirata del dott. Amleto Ballarini. La postfazione dedica una nota esplicativa sul Villaggio giuliano di Roma.
 
 

La Battana - rivista trimestrale di cultura - Anno XXXV ottobre - dicembre 1998 - numero 130

 
 
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