STORIE DI UN ESODO
FRA DESOLAZIONE E SOFFERENZA
di Anna de Angelini Dobrilla

     Mi riferisco ai diversi articoli apparsi sul giornale "L'Arena" con i quali alcuni compaesani hanno descritto la storia del loro esodo. La loro lettura mi ha commossa a tal punto che, riportandomi indietro nel tempo, mi ha fatto rivivere quei tristi momenti e mi ha invogliato a narrare anche la mia esperienza. Era il giorno 27 febbraio 1947. La nave "Toscana" imbarcava il IV scaglione, fra cui eravamo io, mio marito ed i miei tre figli. Il viaggio per mare fu tremendo. Ricordo che eravamo tutti stipati, il mare era mosso ed io dovetti stare per tutto il tempo in coperta, perchè avevo la nausea. Quelle ore furono eterne. Sembrava non si dovesse mai arrivare a terra ed io soffrivo ancora di più per il pensiero che mio marito era giù ad occuparsi da solo dei bambini.
     Finalmente arrivammo ad Ancona, dove facemmo una breve sosta. Poi, proseguimmo in treno per Firenze. Prima di salire sul convoglio, fecero prendere a ciascuno una balla di paglia che dovemmo riporre alla meglio nel carro bestiame e lì dovemmo salire. Il nostro viaggio fu accompagnato dai lamenti e dal rumore degli animali e penso proprio che fummo scambiati per bestie, perchè nemmeno il ferroviere che chiuse il portello del nostro vagone ci disse nulla e non aprì se non all'arrivo a Firenze. Passammo una notte bestiale. Il mio bambino più piccolo aveva 22 mesi; si svegliava piangendo per la sete e io non potevo aiutarlo. Eravamo al buio pesto, immersi nell'oscurità, tutti appiccicati; udivamo solo i lamenti delle bestie ed il loro acre odore stomachevole che aveva impregnato tutta l'aria.
    Arrivammo a Firenze a mattino inoltrato, distrutti dal viaggio, con ancora addosso le tracce di paglia che ci era servito per giaciglio. Eravamo disperati, non sapevamo cosa fare, né dove andare e non vi era un cane ad aiutarci. Si doveva pensare ad una sistemazione. Grosse lacrime cominciarono a cadere per l'angoscia,  quando si avvicinò, dopo non so quanto tempo, qualcuno che si presentò come quello "del Comitato profughi". Fummo accompagnati nel centro di Firenze e sistemati in una ex fabbrica di tabacchi, già tutta occupata da altri esuli. Le nostre reti per dormire furono sistemate in mezzo ai corridoi. Un tetto lo avevamo, ma si può comprendere lo strazio ed i pianti che ho fatto. In quelle condizioni, poichè ero sul passaggio, dovevo stare sempre vestita. Mio marito, già sofferente, si aggravò e si ammalò pure il più piccolo dei miei figli. Il dottore che riuscii ad interpellare mi assicurò che il bambino sarebbe guarito solo se fosse tornato a respirare aria nativa. Non mi restava altra scelta, prima che fosse troppo tardi, che riportarlo a Rovigno dove era nato e dove, fortunatamente, avevo ancora una sorella. Ella lo prese con sè e lo curò, prima del male per cui era tornato là e poi anche del group, che gli venne fuori in un secondo tempo. Il mio pensiero era sempre là con il mio bambino e soffrivo pensando che laggiù mancavano anche le cose più indispensabili. Da come scriveva mia sorella si dovevano arrangiare parecchio con la polenta ed il pane lo potevano trovare solo in qualche casa di contadini. Ogni tanto, quando potevo, inviavo loro dei pacchi senza valore, contenenti pane ed altre cose, pensando così di essere più vicina ai miei cari. Lo lasciai là sino a che non si cominciò a ventilare che avrebbero chiuso le frontiere. Allora scrissi a mia sorella che lo venisse a portare a Trieste dove mi sarei recata per aspettarlo. Ella pensando che vi fosse più tempo e forse anche perchè supponeva che non avrebbero fatto caso ad un bambino di due anni, temporeggiò e quando si decise le frontiere erano già chiuse. I partigiani non lo vollero far passare e a nulla valsero le proteste e le indignazioni di mia sorella. Allora ideò di trasportarlo a mezzo di una delle barche che facevano la spola tra le due zone. Così mi scrisse di recarmi a Trieste, dove le imbarcazioni si fermavano ed aspettare lì il piccolo.
     Passai 15 giorni in quella città e tutti i giorni ero al molo in attesa e del mio bambino nemmeno l'ombra; tutte le volte tornavo indietro piangendo. Seppi poi che anche questo tentativo era fallito. Il piccolo era stato imbarcato, ma ad Isola la finanza jugoslava lo aveva scoperto e lo aveva rimandato indietro. Mia sorella non sapeva più come fare; in un certo senso si sentiva in colpa per non averlo rimandato indietro in tempo. Non si perse d'animo e dopo qualche giorno supplicò, dopo avergli raccontato la storia del piccolo, un diplomatico jugoslavo, che sapeva avrebbe dovuto passare la frontiera, di condurlo con sè. Ma nemmeno lui riuscì nello scopo e dovette lasciare il bimbo in custodia ad una famiglia del posto di frontiera, con l'assicurazione che si sarebbe preoccupata di riportarlo indietro. Dopo qualche giorno, il bambino fu messo su una corriera, affidato al conducente e riportato da mia sorella che, preoccupata ed avvilita, rivide il piccolo tutto piangente e talmente spaurito che dallo schock non riusciva più a parlare. Fu solamente dopo che furono riaperte le frontiere che potei riabbracciare mio figlio e passò molto tempo prima che si potesse riprendere dalla triste avventura.
    Nel frattempo, passsato un anno che eravamo a Firenze, morì mio marito, senza neppure avere la gioia di poter rivedere suo figlio.Rimasi così sola, lontana dai parenti, fuori di casa e con tre figli a cui pensare, senza alcun aiuto e comprensione dalla gente del luogo che avrebbe dovuto ospitarci, con solo le spalle per lavorare e una gran forza di volontà per tirare avanti. Nonostante tutto sono riuscita a superare tante traversie, a sistemare i figli ed oggi posso dire di essere contenta. Anche se in modo un pò sconclusionato, ho potuto esprimere i miei tormenti comuni anche ad altri articolisti dell'Arena che più o meno hanno vissuto lo stesso triste esodo.
 
 
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