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Caro de Angelini,
ti mando finalmente la versione definitiva del mio intervento; ho eliminato
qualche ripetizione e spiegato meglio qualche passaggio, anche alla luce
delle tue osservazioni.
Il mio obiettivo è quello di dare un fondamento culturale e
civile scientificamente, culturalmente solido alle ragioni degli istriani
e dell’Italia e parlare, con la consapevolezza che oggi abbiamo, delle
caratteristiche di queste terre che costituiscono un capitolo complicato,
originale, ma autentico dell’identità nazionale. Capitolo non affidato
ad una visione nazionalistica, o a velleità irredentistiche, ma
ad una riflessione che adoperano le categorie dell’Europa di oggi, come
cultura, come esperienze, ma anche come responsabilità per il futuro.
Perciò il mio intervento è rivolto soprattutto all’opinione
pubblica nazionale e chiama in causa la responsabilità dell’Italia,
che invece ha, finora, sempre guardato altrove e ha delegato tutta questa
“partita” alla demagogia, dannosa, della destra estrema, derubricandola
frettolosamente alla voce “gruppi di nostalgici”.
Non è così: non è ingerenza occuparsi della presenza
italiana lungo la costa orientale dell’Adriatico, è prendere atto
di una profonda realtà storica ed agire di conseguenza. Da ciò
la responsabilità oggi del nostro Paese.
Perciò ti chiedo di dare pubblicità a questo mio intervento,
a partire dai tuoi canali telematici e sulle riviste degli esuli, ma anche
sui giornali nazionali. Ti chiedo di inviarlo, nei modi che riterrai opportuno,
alle autorità della Repubblica che sai sensibili a queste tematiche
(a cominciare dal Presidente della Repubblica).
Fatti vivo.
Saluti
Stelio
Intervento di Stelio Spadaro |
Nel momento dell’allargamento dell’Europa serve una riflessione su queste
terre.
Ricostruendo nella memoria i tempi e le fasi delle vicende della costa
orientale dell’Adriatico nel ‘900, uno degli elementi che riemerge con
insistenza è quello di un atteggiamento di lontananza e di estraneità
con cui l'opinione pubblica italiana guarda alla Venezia Giulia: mi riferisco
al periodo dopo il 1954, ma si potrebbe senza fatica risalire al 1918 e
all’inserimento della Venezia Giulia - parlo di Gorizia, di Trieste e dell’Istria
- nel Regno d’Italia. C’è, ovviamente il grande impeto irredentistico
molto diffuso negli anni attorno alla prima guerra. Ma spesso ci si limita
a guardare le emozioni e si trascura di osservare altri dati. Quali furono
gli atteggiamenti, gli orientamenti espressi dai funzionari dello stato
italiano venuti nelle terre irredente? La cultura amministrativa e politica
era in grado di cogliere il carattere di queste terre? D’accordo, in quegli
anni, ovunque in Europa l’obiettivo era quello di omogeneizzare le popolazioni
alloglotte, ma in concreto, quali furono la specificità dell’approccio
italiano?
In altre parole in che modo lo Stato italiano e le sue strutture amministrative
vengono in questa regione plurale? Con quale atteggiamento nell’organizzazione
della burocrazia e nella vita quotidiana? Quali categorie culturali si
adoperano per capirne la fisionomia e operare in questa realtà?
Come si affronta il problema che la Venezia Giulia comprende aree abitate
da popolazioni slovene e croate?
A me sembra che una possibile risposta debba tener conto del fatto
che i caratteri specifici dell’approccio italiano non dipendono solo dal
nazionalismo e, poi, dal fascismo, ma anche dal fatto che gran parte della
cultura italiana semplicemente non era in grado di comprendere una realtà
culturalmente composita come quella della Venezia Giulia, che, ricordiamo,
era una realtà complessa non solo per la numerosa presenza di non
italofoni, ma anche per il fatto che gli stessi italofoni avevano un proprio
peculiare bagaglio culturale.
L’esito fu che la Venezia Giulia fu di fatto percepita, al di sotto
dei fiumi di retorica ufficiale, dal senso comune dei funzionari italiani
quasi fosse terra di conquista, una specie di “colonia europea”, da sorvegliare
e di cui diffidare, come se questa regione fosse, con le sue proprie caratteristiche
e proprio a causa di esse, del tutto estranea all’Italia. E a loro volta
i funzionari italiani furono visti come estranei dai “locali”, anche da
quelli di lingua italiana, sempre più consapevoli di essere considerati
come un’appendice ininfluente rispetto al restante corpo nazionale.
Ciò che si perse allora, e forse non si recuperò più,
fu la consapevolezza che la Venezia Giulia, per quanto riguarda gli italofoni,
era di fatto un altro capitolo della complessa identità culturale
italiana (come lo furono e lo sono, con le loro proprie caratteristiche,
la Sicilia o la Sardegna, per fare solo un esempio), ma poneva anche, per
quanto riguarda i non italofoni, un limite alla identità culturale
degli italiani. Ambedue i problemi rappresentavano una sfida non piccola
alla capacità delle istituzioni italiane di governare un territorio
plurale. La sfida, possiamo dirlo oggi, fu persa quasi subito e quel che
si materializzò fu un senso di provvisorietà che si avvertì
a diversi livelli (nelle gerarchie militari, nella scuola, ecc.) e che
le parole forti e - per gli italiani della Venezia Giulia - “rassicuranti”
(Roma, la tradizione latina, Venezia) non furono in grado di eliminare,
anzi lo confermarono perché si legò la Venezia Giulia alla
politica e alla forza repressiva del regime.
Ciò rese deboli le ragioni dell’Italia già rispetto alle
richieste ed alle azioni tedesche sempre più insidiose ed insistenti
nel corso degli anni ’30: si vedano l'Anschluss e le conseguenti iniziative
fino all’Adriatisches Küstenland con l’annessione di fatto della
Venezia Giulia al III Reich, intesa come un suo “ritorno” al “naturale”
mondo tedesco.
E non valse a riscattarle appieno, negli anni cruciali della seconda
guerra mondiale, neppure la partecipazione alla Resistenza, di fronte alla
coalizione alleata, e in particolare di fronte ad una Jugoslavia divenuta
parte attiva in uno scacchiere particolarmente delicato d’Europa nella
lotta contro il nazifascismo ed alla quale il titolo di alleato riconosciuto
della coalizione antifascista consentì di avanzare pretese territoriali
non legate soltanto ad un disegno di riscatto nazionale e unificazione
dei popoli sloveno e croato, ma anche a mire di derivazione nazionalistica,
secondo mai sopite dinamiche nazionalistiche che sia da parte slovena e,
rispettivamente, croata, sia da parte italiana, erano da tempo operanti
in queste terre, dalla Venezia Giulia alle coste dalmate.
Qui viene fuori la responsabilità dei comunisti, giuliani in
particolare: la loro acquiescenza, in vasta ancorché non totale
misura (e varrebbe la pena di studiarne i contrasti interni!), alle tesi
jugoslave (e sovietiche) nasce dalla tradizione internazionalista e dalla
specifica impostazione della loro cultura politica (primato dell’URSS ed
espansione della sua sfera di influenza), ma anche dalla convinzione che
la Venezia Giulia nel suo complesso (con l’eccezione particolare di Trieste
centro) fosse estranea, non facesse parte dell’Italia, ma fosse esclusivamente
un portato del nazionalismo e del fascismo. La perdita della Venezia Giulia
non fu percepita dall'opinione pubblica italiana come una drammatica semplificazione
che zittiva una voce particolare e distinta dell’identità italiana,
una voce presente da secoli nel concerto delle molte tradizioni che compongono
la cultura italiana. La perdita della Venezia Giulia non fu nemmeno percepita
come un fatto che metteva in discussione principi di libertà fondamentali,
come il diritto di ascoltare le opinioni degli interessati.
Così da atteggiamenti diversi ma convergenti è stato
negato il carattere plurale, specifico della Venezia Giulia e delle coste
dalmate.
Un atteggiamento negò contro l’evidenza tale carattere e operò
drasticamente per ridurlo ad omogeneità: è la politica del
nazionalismo italiano e del fascismo, che cancellarono, in Italia, voci
che richiamavano l’attenzione sulle specificità della regione.
Un secondo atteggiamento - quello di una parte della sinistra - speculare
al precedente, considerò la Venezia Giulia costruzione imposta dal
fascismo e perciò destinata a disintegrarsi con esso.
Fece da sponda a questi due, l’atteggiamento jugoslavo che considerò
il Litorale e in generale la costa orientale dell’Adriatico sostanzialmente
territori omogenei da ricondurre ad un preteso originario alveo nazionale
sloveno e croato, solo artificiosamente – secondo questa interpretazione
– conculcato.
In questi luoghi, dunque, si incrociano e aspramente si scontrano i
nazionalismi, ben prima e ben dopo dei totalitarismi.
Ma per quanto riguarda l’Italia, dobbiamo andare più in profondità
e mettere in evidenza come rimanga largamente diffuso un senso comune che
considera presenze e influenze storiche mitteleuropee quali, appunto, tratti
distintivi che confermano l’estraneità dall’Italia: una Venezia
Giulia “altro” rispetto all’Italia, con l’eccezione di Trieste, la
quale avrebbe tuttavia un’italianità speciale per le sue precipue
ascendenze, un’italianità perciò non condivisa con il Paese.
Il resto della Venezia Giulia è ignorato.
Si appanna, sfugge il carattere plurale della regione.
Per quanto riguarda l’Italia questo è un problema di carattere
generale: la cultura politica e civile italiana non è attrezzata
a questo tipo di “diversità”.
Da tutto ciò il silenzio sulla Venezia Giulia dopo la guerra
e l’insensibilità della Repubblica nell’affrontare la questione
dell’esodo e le richieste di riconoscimento morale, prima ancora che materiale,
degli istriani e dei dalmati, e la rimozione di quanto essi abbiano pagato
per la sconfitta subita dall’Italia al confine orientale.
Dopo il 1954 scema drasticamente l’attenzione per le vicende al confine
orientale: la storia degli italiani della costa orientale dell’Adriatico
è, a torto, archiviata. Ciò dipende sicuramente dalle convenienze
internazionali, dall’intensificarsi dei rapporti di Tito con l’Occidente
e, in Italia, con il P.C.I., dopo la rottura degli anni del Cominform,
e più in generale da atteggiamenti governativi che si ammantano
sempre più di un dichiarato realismo, ma dipende innanzitutto dall’idea
che la Venezia Giulia fosse fin dall’inizio qualcosa di artificiale, di
estraneo: con l’ignoranza sul tema che ne deriva. Quando il senatore dell’Ulivo
Camerini, dopo anni di vuoto assoluto, propone nel 1996 al Senato di
trattare la questione degli esuli istriani, la reazione spontanea e generalizzata
è quella dello stupore e dell’analfabetismo dei suoi interlocutori.
Riprendere oggi, in chiave post-nazionalista, un ragionamento sull’identità
della Venezia Giulia e delle coste orientali dell'Adriatico è possibile
se si parte dalle seguenti premesse:
1. Questa è stata una terra da secoli plurale e lo è
anche ora, dopo un secolo in cui contrapposti, ma simmetrici, progetti
nazionalisti hanno perseguito politiche di semplificazione culturale e
nazionale che sono giunti in modo più o meno deliberato ad attuare
politiche di espulsioni di popolazioni ;
2. Ricordare il tratto italiano delle tradizioni culturali e nazionali
presenti sul territorio non significa da parte dell’Italia né un’ingerenza
né una ripresa patetica di irredentismi, ma la percezione che la
storia e l’identità di queste terre è anche parte della storia
e identità complessa dell’Italia e che la presenza degli italiani
è ancora oggi elemento costitutivo della costa orientale dell’Adriatico;
3. Ricordare il carattere plurale di queste terre significa anche riconoscere
che settori importanti della cultura slovena e croata ancora oggi guardano
agli eventi che hanno “semplificato” l’eterogeneità nazionale dell’Istria
come la realizzazione di aspirazioni nazionali o meglio nazionalistiche.
4. Sarebbe auspicabile che nella prospettiva europea l’opinione pubblica
italiana e slovena e croata finalmente riconosca che l’Istria e Trieste,
come altre terre di confine europee, sono parti integranti della complessa
storia nazionale di più stati e che a questa realtà plurale
va portato rispetto, se non altro per le sofferenze che ne sono derivate
agli individui, abbandonando quindi gli atteggiamenti negligenti di tanti
sia quelli protervi dei nazionalisti i quali ancora oggi chiamano libertà
l’azzeramento della libertà di altri.
Trieste, 29 ottobre 2002
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