ARMANDO ORLANDO |
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http://www.scriptamanent.netAgosto 2003
FRED BUSCAGLIONE
La piccola grande rivoluzione musicale di Fred Buscaglione: memoria di un istrione.
Tra "whisky e pallottole", Armando Orlando ci racconta la storia del musicista-cantante torinese, figura di autentico innovatore della canzone italiana, collegandola al contesto musicale, culturale e sociale tra fine anni Cinquanta e inizio Sessanta.
Personaggio affascinante e, per certi versi, ancora inesplorato nella galassia della canzone italiana. Così è stato definito l’uomo. Ma non solo: "duro dal whisky facile", "cantante dalle citazioni surreali e raffinate", "maschera alla Bogart con accento torinese", "duro dal cuore tenero", "la voce di carta di vetro", "il Clark Gable made in Italy", "l’antesignano della vita spericolata"...
Fred Buscaglione nasce a Torino nel 1921. Muore prima di arrivare a quarant’anni "nell’alba solitaria e disperata del 3 febbraio 1960", come ricorda Enrico Magrelli, mentre rincasa alle quattro e mezza del mattino, dopo una notte passata tra locali e ristoranti, con la sua fantastica e pacchiana Ford Thunderbird rosa targata Torino, che viene travolta da un camion carico di pietrisco e di tufo. Le strade di Roma sono deserte ed il cantante muore disteso tra i sedili di un autobus che corre invano verso l’ospedale. Ferdinando Buscaglione, Fred per il palcoscenico e Nando per gli amici, esce per sempre di scena. Pochi mesi prima aveva confidato ad un giornalista: "Ho capito che, se riesco a durare ancora un paio d’anni, sono a posto. Mi occorrono due anni, non di più... Poi, prima che la gente mi volti le spalle, Fred ridiventerà Ferdinando Buscaglione, di professione pensionato".
Una vita avventurosa
Figlio di un artigiano e di un’insegnante di piano, il giovane Ferdinando frequenta il liceo musicale "Giuseppe Verdi" di Torino. Per pagarsi gli studi lavora come commesso in un negozio, aiuta il padre nel lavoro di decoratore e suona il contrabbasso in piccole formazioni locali. In un locale notturno incontra uno studente universitario, Leo Chiosso, destinato a diventare l’autore dei versi delle sue canzoni più famose. Grazie ad un grande eclettismo musicale passa con disinvoltura dal violino al piano, dal sax alla batteria. La sua grande passione è il jazz. Purtroppo, la seconda guerra mondiale interrompe la sua attività di musicista e Fred, catturato dalle truppe americane, viene internato in un campo di prigionieri in Sardegna.
Terminato il conflitto bellico, Fred scrive con Chiosso i primi brani e ad introdurre i due personaggi nel mondo discografico è Gino Latilla, anche lui torinese. Con gli Asternovas, complesso formato da valenti strumentisti, affronta anni di duro lavoro, inseguendo il successo e inventando personaggi memorabili e irresistibili. "Come un moderno Don Chisciotte – ricorda Alberto Tonti – si immedesima in quei personaggi: gangster, polizia, nebbia, fumo, alcol, pupe, pistole, scazzottate diventano il suo mondo, il suo cliché". "Che bambola" nel 1956 vende 980 mila copie. Poi seguono "Eri piccola così", "Guarda che luna", "Porfirio Villarosa", "Whisky facile"... fino ad arrivare a "Cielo nei bar", melodia tra le più struggenti. Per vent’anni suona nei night club e nelle sale da ballo, conoscendo locali di quint’ordine e pensioni scadenti, ed infine, quando il successo comincia ad arrivare, ecco la tragedia.
Non è la gente a voltare le spalle a Buscaglione. È la vita. A trent’anni dalla morte, Tonti lo ricorda così: "L’ultima sigaretta pende dalle labbra imbronciate, il fumo, come sempre, gli fa stringere gli occhi, ha voglia di arrivare presto. A ogni incrocio stacca appena il piede dal pedale, fa in tempo a scorgere sulla destra una massa scura minacciosa, per evitarla spinge sull’acceleratore ma il camion lo investe in pieno. È ferito mortalmente, gli restano pochi minuti di vita, tanto quanto basta per rivivere tutto. Quando viene soccorso è appoggiato al volante, non respira più. Non potrà suonare o cantare per nessuno". E Magrelli, sempre nel 1990, aggiunge: "Sospeso su quella nuvola di fumo, Fred Buscaglione non berrà più whisky, non ascolterà più il suono del juke-box, non canterà le sue canzoni, con nostalgia per i lontani anni del jazz".
La possibile risposta italiana alla musica leggera americana
Già, il jazz. Mentre le voci vellutate di Luciano Tajoli, Tullio Pane, Narciso Parigi, Sergio Bruni e tutti gli altri raccontano storie di mamme, lacrime, addii, rimpianti e cuori spezzati, Buscaglione strappa il sipario, irrompe nelle case degli italiani travolgendoli con canzoni irresistibili. In poco più di cinque anni egli contribuisce a rinnovare la canzone italiana. Inventa storie da malavita all’americana e crea il personaggio di un uomo sconsolato che trova nel whisky il ricordo di un amore perduto.
Fred non era solo un musicista. Era la risposta italiana alla musica americana, l’unica, in quegli anni, in grado di creare miti e leggende. Rimanendo a metà tra il sentimento e la caricatura, le esibizioni di Buscaglione sono piccoli gioielli di ironia supportati da un ottimo sound, come scrivono gli ammiratori in un sito web a lui dedicato. Rappresentava pienamente il gusto di quegli italiani che sul finire degli anni Cinquanta non si riconoscevano più nei gorgheggi tutti cuore e amore, ma nemmeno nell’invadente ondata di rock and roll statunitense.
Il suo non è stato un successo immediato. Le attese sono state lunghe. Le delusioni cocenti. Ha suonato per anni nelle sale da ballo. E la gavetta è stata dura. Ma aveva bisogno di più tempo: due anni, aveva detto lui stesso. Aveva in mente altri dischi importanti, lasciando da parte per sempre i bulli e le bambole. Artista di razza, cantante, autore, compositore ed anche attore dalla forte personalità, giunto alla piena maturità artistica, voleva far emergere in maniera definitiva le proprie capacità di esecutore e arrangiatore. Ma la sua esistenza, interrotta a 39 anni, non è bastata, ed oggi Fred Buscaglione vive nel mito.
"Il 1960 fu un anno chiave" ha scritto Gino Castaldo. "Eravamo in piena rivoluzione canora. Modugno aveva infranto la barriera del conservatorismo sanremese, i cantautori genovesi stavano dissolvendo forme e certezze del bel canto, il rock’n’roll stava già mettendo radici anche nelle periferiche vie Gluck. Ma di quel sommovimento Buscaglione era stato un anticipatore o, meglio, un guastatore antiborghese che, all’inutilità delle vecchie rime cuore-amore, aveva preferito una galleria di personaggi, eroi perdenti, duri dal cuore di gomma, femmine bollenti, che tiravano fuori, col tipico genio italico, l’antica arte della macchietta, reinventata dai ritmi americani. Una miscela esplosiva e bonariamente sovversiva che ha fatto scuola. Assieme a Carosone aveva insegnato che si poteva sorridere, o addirittura ridere, scrivendo grande musica, masticando jazz, boogie e rock’n’roll. Quello che non ha potuto fare dopo, l’hanno fatto altri, come lui decisi a non essere normalizzati. Uno soprattutto, Rino Gaetano, anche lui un sognatore, irriverente e fantasioso, anche lui vittima precoce, inquietante coincidenza, di un incidente d’auto, di notte, a Roma".
Noi oggi vogliamo continuare a ricordare questo grande artista. Coscienti che è difficile fare un omaggio a Fred Buscaglione, perché – come dice il cantautore Gianmaria Testa – Buscaglione è ancora vivo nella memoria di tutti, e col tempo è diventato un intoccabile. E allora proviamo a farlo considerando la sua vita e le sue opere in relazione ad un periodo artistico in fermento, nel quale nasce la canzone d’autore, Parigi e l’esistenzialismo sono stati gli stimoli di una rivoluzione, e Genova diventa la patria della nuova canzone italiana.
La svolta. Il Festival di Sanremo, "Mister Volare" e i cantautori
Siamo agli albori del miracolo economico, poco dopo il 1950, in Italia solo due famiglie su cento acquistano un elettrodomestico o un’automobile e a Natale si regalano ancora scarpe e cappotti, quando Amilcare Rambaldi, commerciante di fiori a Sanremo, vede finalmente realizzato il suo sogno di mettere in scena un festival della canzone, per valorizzare la produzione nazionale e liberarsi della dipendenza da una musica o troppo legata agli Stati Uniti o molto caratterizzata dal regionalismo.
Dal Salone delle feste e degli spettacoli del Casinò municipale di Sanremo viene trasmesso, il 29 gennaio 1951, il primo Festival della canzone italiana, organizzato dalla Rai-Radio italiana in collaborazione con il Casinò municipale di Sanremo. Presenta Nunzio Filogamo, orchestra di Cinico Angelini. I cantanti sono Nilla Pizzi, Achille Togliani e il Duo Fasano. Nel 1957 vincono Claudio Villa e Nunzio Gallo con "Corde della mia chitarra"; Fred Buscaglione e Renato Carosone cantano "Torero", mentre a Milano i poliziotti fermano per strada chi indossa i jeans e a volte li confiscano, senza troppe giustificazioni.
Nel 1958 al Festival di Sanremo canta Domenico Modugno. Le previsioni danno per vincente "L’edera" di Nilla Pizzi e Tonina Torrielli. Mimmo non conosceva le astuzie del cantante navigato, racconta Antonio Gaudino, usava gesti fuori dalle regole della compostezza tipica di un interprete di quei tempi. Finita l’esecuzione, dopo alcuni interminabili secondi di gelo, i fazzoletti bianchi dei giornalisti in prima fila accompagnano l’ovazione del pubblico in piedi. È una rivoluzione. "Nel blu dipinto di blu" fa giustizia della vecchia canzone italiana, quella della mamma, dei cuori, degli amori e dei dolori. Nei tre mesi successivi al Festival il brano vende oltre un milione di dischi ed il successo dilaga in America, dove "Mister Volare" viene accompagnato ai concerti dalle motociclette di scorta della polizia. Nel mondo verranno venduti complessivamente 22 milioni di dischi.
L’effetto è sconvolgente. L’interpretazione di Modugno cambia il modo di concepire la canzone italiana e apre nuovi orizzonti ad una generazione di cantautori. Nel 1959 una ragazza di Cremona, Anna Maria Mazzini, di diciannove anni, canta "Nessuno" e davanti a milioni di telespettatori e radioascoltatori Mike Bongiorno la saluta con la frase: "A te, non ti fermerà più nessuno". E Mina arrivava al momento giusto, quando già la marea degli urlatori stava rompendo gli argini del perbenismo canoro.
Nel 1960 è ancora Mina a conquistare il pubblico con "Tintarella di luna", mentre Tony Dallara incide "Come prima", il suo più grande successo. Nel 1961 è la volta di Adriano Celentano, il quale canta "24.000 baci" in stile rock’n’roll; il cantante volge la schiena al pubblico di Sanremo, ed il gesto provoca indignazione e persino un’interrogazione parlamentare: ma l’intreccio tra musica e corporalità è cosa fatta. Sul fronte della canzone regionale, Peppino di Capri e Renato Carosone imprimono una svolta anche alla canzone napoletana e nel panorama musicale italiano, fatto di rime cuore-amore, irrompono Betty Curtis e Joe Sentieri, urlatori melodici, Little Tony, Giorgio Gaber, Enzo Jannacci e Ghigo Agosti, della linea dei rocker.
Intanto nel 1958 esce di scena definitivamente il vecchio 78 giri, che lascia il posto al disco a 45 giri. Si diffondono juke-box e mangiadischi portatili, mentre la televisione comincia a dare spazio ad una generazione di personaggi più vicini allo stile anglosassone. Trasmissioni come "Lascia o raddoppia", "Campanile sera" e "Il Musichiere" diventano canali privilegiati per la diffusione dei prodotti di un’industria discografica che vede la Fonit e la Cetra fondersi ed affiancarsi alla Giulio Ricordi.
Quando muore Buscaglione, nel 1960, è già diffuso nel Paese un modo nuovo di intendere la canzone. Sono nati i cantautori, più poeti che musicisti, personaggi che rivoluzionano la canzone italiana e che mettono in risalto la dura realtà della vita quotidiana. Alle tematiche basate sull’amore si accompagnano anche quelle relative alle ribellioni politiche che turbano la quiete ovattata e l’apparente felicità del boom economico. Questi personaggi, assieme a Gianni Meccia, Rosario Borelli, Maria Monti ed Enrico Polito, rappresentano la prima generazione di cantautori, i precursori di quelli degli anni Settanta e dei vari Francesco De Gregori, Edoardo Bennato, Antonello Venditti.
È una rivoluzione musicale, quella degli anni Sessanta, che marcia di pari passo con lo sviluppo delle nuove tecnologie. Il disco, infatti, prende il posto delle orchestrine che erano nate in tutta la penisola per diffondere musica e parole. E l’autore non lavora più in funzione solo dello spartito, non compone solo la musica (ai parolieri erano riservati i testi), ma crea per intero la sua canzone e la interpreta. Questo modo di fare musica è la vera rivoluzione della canzone italiana, che ha ancora come punto di riferimento la canzonettistica, ma che trova il coraggio di rompere gli schemi letterari e musicali grazie al jazz, al rhythm and blues e, soprattutto, grazie all’influenza degli "chansonniers" francesi.
L’ispirazione: gli "chansonniers" e l’esistenzialismo francese
Nella Francia dell’immediato dopoguerra, in un locale di Saint-Germain des Prés, a Parigi, si ritrovano intellettuali, letterati e musicisti. Jean-Paul Sartre lancia la filosofia esistenzialista, lo scrittore Albert Camus inserisce quella teoria anche nelle sue opere narrative, i poeti Mauriac, Queneau e Prévert scrivono testi per Juliette Gréco, e la voce dolce della cantante colora di sensualità e di ironia la canzone. Edith Piaf canta storie di vita quotidiana fatte di amori, passioni e gelosie, prima di finire i suoi giorni prematuramente, distrutta dagli psicofarmaci. Nel panorama musicale d’oltralpe compare una nuova figura d’interprete: lo "chansonnier".
Georges Brassens e Lèo Ferré mettono in scena canzoni piene di tenerezza, di rabbia e di amarezza, usando espressioni prese in prestito dal linguaggio comune; nei testi compaiono riferimenti ai cosiddetti poeti maledetti, da Villon a Baudelaire e a Rimbaud. A rendere famosa la canzone d'autore francese contribuisce pure Jacques Brel, un belga arrivato a Parigi nel 1953. Egli, con il suo modo di interpretare, energico e pulsante, aggredisce l’ascoltatore, e dà voce ai sentimenti diffusi tra i giovani. Il mondo con cui se la prende è quello piccolo-borghese della provincia, ma anche quello conformista delle metropoli.
E l’anarchia tanto sbandierata dagli "chansonniers" francesi (ed in Italia dai primi cantautori genovesi), più che politica, è intellettuale e comportamentale, una filosofia di vita che si oppone a qualsiasi disciplina, semplicemente perché è alla ricerca di una nuova libertà. Ma il mondo di Brel è un mondo fatto anche di delusioni amorose, di sconfitte, di rabbie incontrollate; la donna è - per lui - a volte santa, altre volte puttana; il desiderio sessuale si mescola ad immagini mistiche, ed il nuovo modo di intendere la canzone d’amore viene recepito in Italia da Fabrizio De Andrè e da Piero Ciampi. Gino Paoli e Sergio Endrigo, invece, attingono al filone di Charles Aznavour, che canta l’amore sensuale con un sottofondo che è un misto di jazz e di musiche arabe e tzigane.
Ed è in questo scenario musicale che si inserisce il desiderio di rinnovamento della canzone italiana, che carpisce alla canzone francese gli strumenti stilistici fondamentali. L’esistenzialismo diventa bandiera per chi lo pratica come stile di vita, e diventa sinonimo di gioventù perversa per chi lo osteggia. Un desiderio di novità che, come abbiamo visto, aveva trovato in Fred Buscaglione un antesignano. La magia del mito del grande Fred è tutta qui.
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http://www.scriptamanent.netannoI, novembre 2003
IL SUD ALLA RICERCA DI FORME DI FINANZIAMENTO ALTERNATIVE
La difficile situazione economica del Meridione. Il difficoltoso smantellamento di alcune vecchie consuetudini. Una recente pubblicazione è stata l'occasione per Armando Orlando di inoltrarsi nella problematica ed esaminarla criticamente
Tra il 1995 ed il 1999 il numero delle aziende di credito nel Mezzogiorno si è ridotto di circa il 25%. La diminuzione ha interessato prevalentemente banche di minore dimensione il cui numero è calato di 74 unità, ed il fenomeno ha portato all'ingresso nel mercato del credito meridionale di gruppi bancari esterni, che hanno sostituito le banche aventi sede legale nel Sud. Un processo di ristrutturazione e di riaggregazione in apparenza significativo, che, su 6.000 sportelli presenti nel Mezzogiorno, ha finito per assegnarne 1.600 alle realtà ancora locali, con i restanti 4.400 sportelli controllati da realtà esterne al Mezzogiorno stesso. Un processo, però, che diventa non rilevante se si analizzano i dati di altri paesi, dove negli ultimi 17 anni il numero degli istituti di credito si è ridotto di oltre il 37% negli USA, del 33% in Germania ed in Gran Bretagna, di oltre il 45% in Francia, mentre in Italia la riduzione non ha superato il 15%.
La fine del trasferimento assistenziale di risorse e la nuova fase della politica di sviluppo del Mezzogiorno
Cosa ha comportato e cosa comporta questa ristrutturazione del sistema finanziario e creditizio nazionale per l'economia meridionale? Quali sono state le strategie delle banche del Centro Nord che hanno acquisito il controllo di aziende di credito meridionali? Quale relazione si stabilisce tra il sistema finanziario locale ed il clima macroeconomico in cui esso si trova ad operare? Quali forme alternative di finanziamento possono essere ricercate dagli enti territoriali per realizzare programmi di investimento relativi ad infrastrutture ed erogazione di servizi locali, in presenza di un progressivo contenimento della spesa pubblica? Come gli imprenditori locali possono fronteggiare la scarsa disponibilità di credito ed il suo costo elevato? E quale evoluzione ha seguito il rapporto banca-impresa nell'economia meridionale?
E' di questi argomenti che tratta il volume "Finanza, credito e sviluppo locale" a cura di Cesare Imbriani e Antonio Lopes (pp. 196, € 10,00) , inserito nella collana di Economia e Politica Economica "Mercato Istituzioni Sviluppo" della Rubbettino.
Non sono domande da poco, se si considera "il carattere purtroppo dipendente dello sviluppo meridionale", che fa diventare vecchia la posizione "sull'autopropulsività allo sviluppo per il Mezzogiorno, sul ruolo cioè delle forze endogene in rapporto alla capacità di indurre sviluppo".
E' il superamento, sotto alcuni aspetti, di un concetto di sviluppo legato esclusivamente alle specificità locali ed agli spontaneismi del mercato, e la stessa urgenza dei problemi - dicono gli autori - ha riproposto la necessità di avviare una nuova fase della politica di sviluppo del Mezzogiorno, attraverso una "nuova programmazione che si fondi anche sull'intervento esterno in cui il settore pubblico trova nuovamente una sua legittimazione".
Sulla reale efficacia delle politiche infrastrutturali per il conseguimento dello sviluppo - osservano Imbriani e Lopes - si è molto discusso, ma sembra che la loro produttività sia stata modesta, mentre il modello che sembra prevalere è di trasferimento assistenziale di risorse, che ha consentito di contenere l'ampliamento del divario di reddito tra Nord e Sud ma ha fatto perdere di vista l'obiettivo di sviluppare e consolidare la base produttiva meridionale. Si è scivolati verso un sistema di sostegno ai redditi da impresa; forme non dissimili - dicono i due autori - dalla gamma di sussidi alle persone, fortemente osteggiate in sede comunitaria e di fatto abbandonate all'inizio degli anni Novanta. Nello stesso periodo anche le politiche di risanamento della finanza pubblica hanno avuto una forte ripercussione sul quadro dell'economia meridionale, ed il volume dei trasferimenti verso il Sud è stato decisamente ridotto.
E le imprese si trovano oggi ad affrontare notevoli difficoltà legate al mercato dei capitali e del lavoro. Ecco allora entrare "prepotentemente in gioco problemi di competitività fiscale, problemi di misurazione del rischio, problemi di compatibilità per gli investimenti esterni diretti che impongono uno sforzo di unitarietà alla progettazione degli interventi di politica economica che non si scorge all'orizzonte".
Il sistema bancario meridionale tra risparmio ed esigenze di finanziamento
Imbriani e Lopes scrivono che i sistemi bancari dovrebbero divenire gli incubatori di progettualità in grado di riflettere le sane intuizioni dei gruppi produttivi locali, mentre, come è noto, fino ad alcuni anni fa sono spesso stati i cassieri degli incentivi distribuiti dalla politica industriale.
Non so se questa è la missione delle banche, e non so se queste, in un contesto di forte competitività, possono dedicare tempo e denaro per inserirsi in un progetto di crescita di un'area di sviluppo ritardato. Anche perché - ed è il libro stesso a rilevarlo - le banche del Centro Nord che hanno acquisito il controllo delle aziende meridionali hanno finito per ridurre il credito là dove l'economia è più debole, per aumentarlo là dove l'economia è più forte, "perché questo - scrive Adriano Giannola - è il modo per massimizzare il ritorno per l'azionista ed è questo l'obiettivo di una banca che deve fare impresa".
Il libro, anche se curato da due docenti universitari, si distingue per una trattazione lineare e comprensibile. C'è, probabilmente, erudizione accademica, ma ci sono pure riferimenti all'attualità che rendono gli argomenti familiari e coinvolgenti.
Giovanna Morelli si chiede: Può lo sviluppo del territorio essere influenzato dal risparmio privato rispetto ai trasferimenti statali agli enti locali e rispetto ai finanziamenti bancari alle imprese?; Può il 'gap' infrastrutturale essere causa di un ritardo non più recuperabile per i sistemi nazionali?; Può a questo punto il credito privato riuscire a riequilibrare queste fragilità?
Un ritaglio di giornale di qualche anno fa ricorda che il risparmio dei calabresi è stato valutato in 63.000 miliardi di vecchie lire, corrispondenti a 32 miliardi e 536 milioni di euro. Una cifra impressionante, se si considera che il reddito complessivo regionale, allora, era stimabile in circa 35.000 miliardi di vecchie lire. Senza entrare nel merito della provenienza di questi soldi - notava l'articolista -vogliamo solo dire che la forte esigenza di credito che hanno le imprese calabresi non trova certo soddisfazione in questo rilevante stock di liquidità impiegato, nell'ordine, in depositi postali, depositi bancari, titoli pubblici, assicurazioni e fondi comuni.
La domanda può apparire semplice, e forse anche provocatoria, ma oggi non possiamo non chiederci perché dovrebbero essere le banche - e non i calabresi - a finanziare le imprese della regione, e quindi a regolare lo sviluppo economico locale.
Anche perché il libro individua, fra le soluzioni auspicabili e praticabili, la maggiore diffusione di una cultura del capitale di rischio, oltre che l'attivazione di strumenti più innovativi di finanziamento delle attività impenditoriali.
Temi e realtà fondamentali eppure poco discussi
Il ricorso al capitale di rischio è uno dei temi sui quali si discute poco, nelle tavole rotonde e sui giornali. La commissione regionale Antimafia, appena costituita in Calabria, ha messo l'accento sulla stretta creditizia dicendo di volersi impegnare per chiedere alle Camere un intervento per allineare i tassi a quelli della media nazionale. Si continua a non affrontare il problema alla radice. Perché le aziende calabresi non sono adeguatamente capitalizzate? Perché i risparmi vanno altrove, e non giovano al rafforzamento della posizione finanziaria e patrimoniale delle piccole e medie imprese locali?
Il ricorso al capitale di debito, da solo, non risolve i problemi delle aziende. Si è già visto. E cosa succederà quando l'impresa potrà scaricare oneri finanziari non sulla base dei costi effettivamente sostenuti, ma sulla base della capacità di meritare il credito, e questa capacità sarà valutata solo in relazione al reddito operativo prodotto? Già oggi in Francia gli oneri finanziari generati dal debito a breve non sono deducibili. In Germania sono deducibili al 50% quelli generati a medio e lungo termine. In Inghilterra non si deduce nulla.
E, in futuro, quando le prescrizioni di Basilea 2 dedicheranno più attenzione ai parametri di rischio e renderanno spersonalizzato il rapporto tra banca e cliente? Quando, cioè, nel 2006 verranno scritte nuove regole per l'erogazione del credito alle imprese e scatterà una sorta di automatismo nella concessione degli affidamenti, cosa succederà alle aziende, se queste non adegueranno la loro contabilità alle nuove regole, in modo tale da dare la possibilità di individuare nei bilanci lo stato di salute dell'impresa?
Selezionare investimenti e finanziamenti
Quindi l'alternativa allo sviluppo non è solo il credito. E' anche il capitale proprio investito nelle iniziative. Non per caso la normativa fiscale italiana favorisce questa direzione. La dual income taxation (DIT), per esempio, ha premiato i processi di capitalizzazione delle imprese, così come l'IRAP premia i mezzi propri rispetto a quelli di terzi.
L'alternativa è la capacità di selezionare gli investimenti. Questo non lo fanno certo le banche, perché esse sono chiamate ad offrire capitale di credito. E' compito degli imprenditori. Ma quante risorse improduttive sono assorbite ancora oggi dal sistema economico locale, proprio perché manca la selezione degli investimenti? E queste risorse, alla fine, vengono sottratte ai settori produttivi capaci di generare reddito e creare così nuova ricchezza.
L'accesso al credito nel Mezzogiorno è di gran lunga più oneroso rispetto alle altre aree del Paese. Questo è un dato indiscutibile. Ma non di solo credito ha bisogno il Sud. C'è una carenza di infrastrutture (specialmente nel settore dei trasporti e della viabilità) che detemina un aumento dei costi per le aziende. Ci sono un bisogno di sicurezza ed una domanda di efficienza rivolta alla pubblica amministrazione. C'è una polverizzazione pericolosa delle iniziative, con una scarsa propensione alle aggregazioni; nel settore dell'agricoltura, nota la Banca d'Italia, si stenta a riorganizzare la filiera regalando all'industria della trasformazione ed alla speculazione commerciale una grande fetta di valore aggiunto.
Tra il 1997 ed il 2002 lo Stato ha speso nel Mezzogiorno circa 80 miliardi di euro, pari all'8% del prodotto interno lordo nazionale. Negli stessi anni l'economia meridionale è cresciuta solo dello 0,2% in più rispetto alla media nazionale. Poca cosa, visto lo sforzo finanziario profuso. Dove sono andati a finire quei soldi? Quali fattori hanno ostacolato il ritorno dell'investimento? Quanti posti di lavoro effettivi sono stati creati? Di questo si deve parlare più diffusamente, e non solo di credito e finanza, o, più semplicisticamente, di costo del denaro eccessivo.
Certamente il sistema bancario meridionale si è trovato in forte difficoltà nell'affrontare la sfida derivante dalla liberalizzazione dei mercati finanziari e creditizi. Ma anche gli altri soggetti devono fare la loro parte. Specialmente ora che la trasformazione in atto prevede che gli enti locali, da amministrazioni decentrate dello Stato, diventano soggetto di governo dell'economia - come giustamente fa rilevare Morelli - ed essi devono impegnarsi nella ricerca di forme alternative di finanziamento da destinare a progetti di investimento sul territorio, in particolare per le infrastrutture e per l'erogazione dei servizi locali.
Gli interventi auspicabili e l'esigenza di una diversa cultura d'impresa
Se questo è lo scenario, allora diventano decisive le indicazioni richiamate nel libro da Vincenzo Vecchione, il quale, fra gli interventi più opportuni e perseguibili, individua l'istituzione di consorzi di garanzia fidi tra le imprese e la creazione di agenzie locali di 'rating' per valutare la solidità e l'affidalità delle aziende che richiedono credito. Per fornire forme di garanzia collettiva e limitare le difficoltà di valutare le imprese, spiega lo studioso, e per ridurre le asimmetrie informative tra finanziatore e finanziato. Ma non basta. Il libro sottolinea pure che nel Mezzogiorno i mercati sono poco attraenti, perché trasparenza e regole certe sono spesso opzioni di principio oppure sono caratteristiche che, in un clima nazionale già poco attraente, si evidenziano ancora più in negativo.
Questa considerazione fa nascere l'esigenza di una nuova - o diversa - cultura di impresa che si deve diffondere nel Mezzogiorno. E siccome "il riconoscimento del valore atteso come metro di giudizio della selezione dei progetti è la base minima per competere con le altre aree in ritardo di sviluppo", occorre abbandonare, a mio parere, gli atteggiamenti speculativi che hanno segnato la nascita, anche di recente, di molte nuove imprese, allettate da un sistema di incentivi che prevede ancora oggi l'erogazione di contributi in conto capitale. E cominciare a fare gli imprenditori con i mezzi propri, e non con il capitale degli altri.
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http://www.scriptamanent.netannoI, dicembre 2003
IL RITORNO DEL NATALE
Armando Orlando compie una stimolante riflessione sulle nostre festività. Le antiche tradizioni ancora si rinnovano nel tempo, conferendo senso e valore alle celebrazioni, malgrado la minaccia del moderno consumismo.
I paesi del Sud hanno conservato per secoli - e qualcuno li conserva ancora oggi - riti e costumi che risalgono alla preistoria dell'uomo. Molte di queste usanze sono legate alle feste tradizionali, e quindi anche al Natale. Una ricorrenza che oggi è diversa da quella di ieri e che racchiude, nonostante lo scorrere del tempo, miti, valori e significati.
Il Natale... Una ricorrenza che in passato faceva vivere momenti di desideri, di attesa e di speranza, e che rappresentava il punto di arrivo di un anno di fatiche, di sacrifici, di lavoro. Specialmente per i paesi dell'interno, per i centri abitati delle colline e dei monti che vivevano di agricoltura e che conducevano un'esistenza scandita dal ritmo immutabile delle stagioni.
L'atmosfera goiosa della festa cominciava allora - e comincia ancora oggi - con l'arrivo dell'Immacolata Concezione, e la sera della vigilia dell'8 dicembre le famiglie si riunivano attorno alla tavola imbandita per dare inizio al ciclo natalizio. Tradizione, questa, che si rinnova ogni anno nei paesi, ma è sempre meno avvertita nelle città e nei grossi centri urbani cresciuti senza storia e senza identità.
E continuava, quell'atmosfera gioiosa, per tutto il mese di dicembre, secondo una ritualità collaudata nel tempo, che nei centri rurali ha ancora come punto finale l'uccisione del maiale. In poche case, oggi, viene mantenuta questa consuetudine, e là dove essa si rinnova è possibile toccare con mano lo spirito di solidarietà e di amicizia che regnava in passato nei paesi e nelle comunità rurali sparse su tutto il territorio.
All'Immacolata segue la Novena, che apre le celebrazioni religiose e che viene effettuata al mattino per consentire la partecipazione di un numero più ampio di fedeli. Nel corso della Novena viene allestito il presepe, un'abitudine che va sparendo e che viene sostituita dall'albero di Natale. Resistono, però, i presepi collettivi; quelli costruiti non più nell'intimità domestica ma nelle piazze e nei luoghi pubblici, che peccano, a volte, di esibizionismo e di spettacolarità; ma non si può certo dimenticare, nonostante tutto, il profondo significato religioso che la rappresentazione sprigiona.
Il significato esoterico dei simboli religiosi
La tradizione ci ha tramandato l'mmagine della mangiatoia simile ad una grotta, e la grotta era per i popoli precristiani il simbolo del Cosmo. Non a caso le grotte venivano considerate, nell'antichità, luoghi di culto e di iniziazione: in esse la cultura classica ha fatto nascere Mithra e Dionisio, dèi famosi per aver avuto il dominio sugli uomini, e quindi considerati "salvatori".
Gesù dunque, che nasce in una mangiatoia, riprende il simbolismo precristiano. Testimonia il Vangelo di Luca: "C'erano in quella regione alcuni pastori che vegliavano di notte facendo la guardia al loro gregge". Ed anche i pastori assumono un significato simbolico. La loro funzione è un esercizio di continua vigilanza; essendo nomade - osserva Alfredo Cattabiani - essi rappresentano l'anina che nel mondo è passeggera. Pure il bue e l'asino hanno significati simbolici. Il primo nella letteratura antica veniva visto come creatura sacrificale, mentre il secondo, nella tradizione indo-europea, rappresentava l'aspetto regale e sapenziale. Così come simbolici sono i Re Magi, la stella cometa, l'oro, l'incenso e la mirra.
Ecco perché nel periodo natalizio si assiste ad un fiorire di rappresentazioni legate al tema del momento, e tutti questi aspetti vengono rievocati e ricordati con convinzione, ignorando - forse - il significato e la stessa origine di tutte queste tradizioni.
La festa tocca il punto più alto la sera del 24 dicembre, la Notte di Natale, la ricorrenza più attesa e sognata, simbolo dell'unione familiare.
Antiche tradizioni si rinnovano
Tradizione comune a molti paesi del Sud è quella di accendere fuochi sul sagrato delle chiese. Attorno a questi falò si raccoglie la gente, si gioca, si scherza, si intrecciano dialoghi, gli emigrati salutano e - una volta - attorno a fuoco della Notte di Natale si incontravano gli sguardi e nasceva pure qualche amore. E come il focolare domestico rappresenta l'unità della famiglia, così il fuoco acceso all'aperto finisce per rappresentare l'unità del paese.
In alcuni centri resiste la tradizione della "strina", un modo caratteristico e singolare di porgere gli auguri. L'usanza trae origine dal bisogno di esternare i diversi sentimenti di affetto, stima, amicizia e rispetto, e vere e proprie comitive di "strinari" vanno in giro di notte munite di strumenti musicali, e si fermano a cantare nei pressi delle abitazioni di amici e parenti, perpetuando una tradizione orale ricca di filastrocche popolari che variano di paese in paese.
Poi c'è l'Epifania, con l'arrivo dei Magi alla capanna e con la Befana per i bambini, e nella mente delle persone di una certa età ritornano i racconti di animali che parlano, dell'acqua dei ruscelli che diventa latte o miele, delle fontane che versano olio o vino...
Un incanto che rischia di scomparire
Miti, credenze, leggende che hanno resistito milleni e che l'avvento del mondo industriale è riuscito quasi ad annullare. La modernità ha travolto la tradizione ed il folclore, ed il sentire degli avi è andato smarrito. Una maniera tutta particolare di manifestare la religiosità si è deteriorata man mano che la civiltà contadina scompariva, ed oggi sopravvivono solo aspetti esteriori che appaiono slegati dal contesto nel quale erano nati e si erano poi sviluppati.
Oggi, per esempio, il raccogliersi attorno al fuoco rappresenta per molti solo la possibilità di riscaldarsi nel freddo della notte. Chi pensa, invece, a quel fuoco magico e misterioso che all'improvviso, un milione e mezzo di anni addietro, apparve sulla terra e cambiò radicalmente le vicende umane, modificando anche l'aspetto esteriore degli esseri viventi e favorendo la capacità di ragionare e progredire?... Quel fuoco che raggruppò attorno a sè interi nuclei familiari stimolando la nascita del linguaggio, il diffondersi dei sentimenti, lo scambio di esperienze...
Questi significati, questi valori, questi simboli sono lontani e spesso appaiono incomprensibili. Forse anche noi, uomini del Sud, facciamo parte di quella schiera di persone che non si chiedono più cos'è il Natale. Ci basta vivere questa festa come momento di interruzione del lavoro e di picco delle spese, per cibo, regali, sprechi...
Però il più grande evento della storia, un evento che per i Cristiani rappresenta la nascita del figlio di Dio venuto in terra per la redenzione dell'uomo, non può essere lasciato scivolare verso la dimenticanza e l'abbandono.
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In:
http://www.scriptamanent.netannoII, aprile 2004
SOLIDANOSC:
IL SINDACATO POLACCO AL SERVIZIO DELLA DEMOCRAZIA DELL'EST
Armando Orlando, partendo dall'analisi di due opere sul movimento di Lech Walesa, propone un'approfondita riflessione sul contributo fornito da quell'organizzazione popolare all'inattesa caduta dei regimi comunisti, seguendone infine l'evoluzione politica fino ai giorni nostri
Nel 1998, in occasione di un viaggio di Lech Walesa in Italia, Rosario Rubbettino ebbe un incontro con l’ex presidente della Repubblica polacca, e con lui parlò di possibili iniziative culturali comuni. Oggi Rosario Rubbettino non c’è più, ma la casa editrice da lui fondata pubblica due importanti opere sul sindacato di cui è stato "leader" Walesa: "Solidarnosc 20 anni dopo. Analisi, testimonianze e eredità" (pp. 186, € 10,00) e "Solidarnosc. Origini, sviluppo ed istituzionalizzazione di un movimento sociale" (pp. 200, € 10,00).
Curato da El-Zbieta Jogal-l-a, già direttore dell’Istituto polacco di Roma e consigliere culturale della Repubblica di Polonia, e da Guglielmo Meardi, esperto di problemi del lavoro nei paesi post-comunisti e docente presso l'Università di Warwick in Gran Bretagna, il primo volume raccoglie contributi di personalità italiane e polacche: sindacalisti, uomini politici, professori universitari, giornalisti, diplomatici, impegnati o coinvolti in prima persona nell’indirizzare e nel seguire da vicino quelli che sono stati definiti "gli avvenimenti più sorprendenti ma anche più complessi della seconda metà del ventesimo secolo". Perché, scrive lo stesso Meardi nell’"Introduzione", la caduta dei regimi comunisti è segnata, nei tempi e nelle forme, molto più che dalla caduta del muro di Berlino, dall’esperienza polacca e dal contributo di Solidarnosc.
Un concetto, quest’ultimo, che è andato sempre più affievolendosi,
ed il fenomeno polacco, come ricorda Meardi, dal punto di vista sociopolitico è stato presto sostituito, nell’immaginario collettivo così come nei discorsi ufficiali e nell’interesse politico e scientifico, dalla caduta del muro di Berlino. Tuttavia, il muro, afferma lo studioso, cadde quando la Polonia aveva già da più di due mesi un governo non comunista, e lo stesso Walesa è stato chiaro nel sostenere che " senza Solidarnosc non sarebbero state possibili la "Glasnost" e la "Perestrojka"".
Solidarnosc è ancora oggi il sindacato più attivo in Polonia
I contributi, interessanti, ma anche affascinanti, sono costituiti da ventuno interventi provenienti da personaggi diversi. Essi sono raggruppati in tre capitoli: le analisi del fenomeno Solidarnosc ad opera di studiosi italiani; le testimonianze dirette delle campagne italiane di sostegno; le eredità che quel movimento sociale ha lasciato. E ci riportano ad una Polonia "stanca di essere il Cristo delle nazioni", come amava ripetere il cardinale Wyszynski, quel primate di Polonia che in pieno Conclave, il 16 ottobre 1978, ad un incredulo Karol Wojtyla che bussava alla porta della sua cella, disse: "Se ti eleggono, ti prego, non rifiutare. Dovrai accompagnare la Chiesa al Terzo millennio".
E, attraverso una Polonia dalla quale è poi partito quel cambiamento epocale, destinato a far crollare l’impero comunista, sia in Asia che in Europa, si giunge ad oggi, per riflettere su cosa rimane di Solidarnosc a distanza di venti anni dalla sua fondazione, quando il movimento, dopo una fase di frammentazione da molti definita inevitabile, rappresenta tuttora il sindacato più attivo in Polonia e conserva ancora un milione circa di iscritti.
La "Cronologia" che chiude il volume (e che prende il via, molto significativamente, dal 1944, quando nella Polonia orientale la resistenza non comunista, largamente maggioritaria, continuava separatamente dalla resistenza filosovietica la propria lotta contro i Tedeschi) riesce a creare la cornice dentro cui gli avvenimenti sono accaduti, dal primo viaggio in Polonia del nuovo papa agli scioperi di Varsavia, Lublino e Danzica, dal Comitato di sciopero interfabbrica alla Commissione di esperti formata da intellettuali e economisti, dal Comitato fondatore del sindacato indipendente auto-organizzato Solidarnosc - nome suggerito dal delegato di Breslavia Karol Modzelewski - alle trattative della tavola rotonda tra governo e opposizione, fino ad arrivare al primo governo non comunista del Dopoguerra in Europa orientale.
Nel giro di pochi mesi dieci milioni di lavoratori polacchi aderirono al sindacato e nel gennaio 1981 Walesa si recò a Roma per il suo primo viaggio all’estero. Perché proprio a Roma?
I rapporti di simpatia tra l’Italia e la Polonia
Il libro risponde anche a questa domanda.
L’Italia, si legge nell' "Introduzione", non era una grande potenza politica, ma a Roma vi erano, allo stesso tempo, il papa polacco, governi e partiti dalle posizioni originali sui regimi comunisti, un eterogeneo movimento di simpatia verso la gente di Polonia e perfino imprenditori interessati a investire in un paese che altrove era considerato invece sinonimo di fallimento economico. Nessun'altra nazione europea, annota Meardi, offriva negli anni Ottanta una tale lista di motivi di interesse per gli avvenimenti polacchi, e Jogal-l-a ricorda che "il sostegno e l’aiuto dell’Italia ha reso più facile l’attività dell’opposizione polacca e le ha consentito di sopravvivere allo stato di guerra".
Il volume merita di essere letto. Esso raccoglie pareri di esperti e testimonianze di protagonisti. E ricorda l’ondata di simpatia che si registrò in Italia per la Polonia negli anni Ottanta, partendo dai motivi storici, culturali e sociali che diedero luogo al fenomeno ed analizzando i parallelismi che si verificarono tra i due paesi, con una specificità tutta italiana, caratterizzata, spiega ancora Meardi, dall’intensità e dalla spontaneità, ma anche dal fatto che "tale movimento di solidarietà arrivò a investire, volente o nolente, perfino l’area Pci, che corrispondeva allora a circa un terzo dell’elettorato e a circa metà degli iscritti sindacali".
"Insieme siamo cresciuti, siamo diventati più bosco e più coscienza", scrive il direttore dell'Istituto polacco di Roma al termine della sua "Introduzione" e questi "sguardi incrociati italo-polacchi", frutto del convegno organizzato a Roma in occasione del ventesimo anniversario degli scioperi di agosto, ci aiutano a capire anche "perché gli Europei, e in primo luogo i Polacchi, abbiano dimostrato un interesse così relativamente limitato per qualcosa di cui dovrebbero essere orgogliosi".
I sindacalisti, protagonisti di un avvenimento soprattutto etico
Il secondo volume che segnaliamo all’attenzione dei lettori è scritto da Vincenzo Bova, che insegna Sociologia dei movimenti collettivi presso la Facoltà di Scienze politiche dell’Università della Calabria, e introdotto da una "Presentazione" di Enzo Pace.
Come recita il sottotitolo, l'opera analizza le origini, lo sviluppo e l’istituzionalizzazione di quello che è stato definito un movimento sociale. Uno di quei movimenti che come enormi bastimenti solcano il mare della storia, scrive l’autore, traghettando le società verso terre nuove e inesplorate.
Una breve annotazione sulla tipicità della storia della Polonia precede i capitoli dedicati all'istituzione della Repubblica popolare, alla via polacca al socialismo, al Sessantotto, agli scioperi del 1970, alla strategia dello sviluppo dinamico di Gierek, al movimento contadino, al nuovo movimento operaio protagonista degli scioperi del 1980, fino ad arrivare a Solidarnosc, una rappresentanza legalmente riconosciuta anche dal governo centrale, arrivata a contare dieci milioni di iscritti.
Non è semplice iniziare ad essere rappresentanti dei lavoratori e controparte del governo in un paese socialista, scrive Bova, ma in Polonia la strada è stata percorsa con entusiasmo e convinzione. "Ciò che stiamo vivendo è un avvenimento non solo sociale o economico, ma soprattutto etico", veniva detto nell’omelia pronunciata il 19 ottobre 1980 a Cracovia, durante la messa celebrata alla presenza di Walesa e degli altri dirigenti del sindacato. E ciò che più avevano a cuore i sindacalisti, dice l’autore, non consisteva nell’evitare i rischi e la fatica percorrendo la loro strada; ciò a cui più tenevano era la verità di un'esperienza, con al suo interno magari tutte le ingenuità connaturate ad una consapevolezza di democrazia appena assaporata.
Oggi la Polonia è parte integrante dell’Europa e nella Conferenza intergovernativa chiamata ad approvare la Costituzione europea, i suoi rappresentanti hanno difeso con tenacia il peso politico acquisito con il Trattato di Nizza del 2001. Per capire lo spirito di questo popolo, per rendersi conto del contributo che esso ha dato e può ancora dare all’Europa, occorre conoscere gli avvenimenti che hanno portato alla democrazia, ed il libro di Bova è un utile strumento per saperne di più su vicende come la natura di Solidarnosc, lo stato di guerra, l’incontro nei cantieri navali di Stettino tra Gorbaciov e gli operai polacchi, il crollo del regime, la seconda fase del movimento (con gli intellettuali che prendono il posto degli operai come futura classe dirigente del paese), le conquiste, i cambiamenti, fino ad arrivare alle elezioni del 18 giugno 1989, i cui risultati segnano la fine di ogni legittimazione al potere per la coalizione a guida comunista.
Solidarnosc ha guidato il passaggio alla democrazia
Tadeusz Mazowiecki, pioniere del movimento di opposizione e membro della direzione di Solidarnosc, diviene primo ministro e la Polonia volta pagina.
Solo dopo, il 9 novembre 1989, cambia il regime politico nella Germania dell’Est e viene abbattuto il muro di Berlino. Solo dopo la Romania, la Cecoslovacchia, la Jugoslavia e la stessa Unione Sovietica spezzano le catene del socialismo reale. E finisce un’epoca.
Il volume di Bova analizza quel movimento sociale che, recita la quarta di copertina, ha guidato la flotta di bastimenti che hanno transitato alla democrazia i paesi dell’ex blocco sovietico: c’è la costruzione del bastimento, c’è il suo lungo viaggio, c’è l’approdo alla terra nuova ed il modo con cui questa terra sarà lavorata.
Oggi la Polonia è cambiata. Dopo una frammentazione politica che alle elezioni del 1991 ha visto la presenza di 67 partiti rappresentati in Parlamento (sette dei quali generati da Solidarnosc), il paese è passato ad una legge elettorale con sbarramento del 5% e con premio di maggioranza che ha favorito la coalizione formata dal partito ex comunista e dal partito contadino. Come scrive l’autore del libro, l’esperienza di unità diviene memoria mitizzata, le forze di opposizione al passato regime si frammentano in una molteplicità di formazioni politiche che, di fatto, disperdono l’elettorato, ed il tentativo di Walesa di pilotare carismaticamente il processo di transizione politica ha mostrato grossi limiti. L’azione delle gerarchie ecclesiastiche non appare più coincidente con gli interessi ed i valori perseguiti dalla generalità della popolazione polacca.
Oggi la Polonia è cambiata, e l’ultimo assalto viene da Occidente, dagli aspetti seducenti e vittoriosi del modello capitalistico di produzione, dice Bova, precisando che questo assalto ha fatto vacillare la nazione e con essa l’etica su cui si fondava. È cambiata, aggiungiamo noi, perché invia soldati in Iraq e introduce visti d’ingresso per i cittadini russi.
I delegati di Solidarnosc, riuniti per celebrare il congresso del 2001, decidono che "le possibilità di partecipazione diretta all’attività politica da parte del sindacato si sono esaurite. Ed i simboli del sindacato non possono più essere usati da gruppi politici". E tre anni dopo, nell’udienza dell’11 novembre 2003, il papa ricorda che il sindacato deve prendere apertamente le difese dei lavoratori senza distrazioni politiche, senza essere strumento di azione di alcun partito.
Armando Orlando
R
notesappunti della Rubbettino Editore
N. 15 - Ottobre 2003
L'ENIGMA PIU' ANGOSCIANTE DELLA PRIMA REPUBBLICA
Un corposo volume ripropone in chiave inedita l'affaire Moro, fase drammatica della nostra storia. Una nuova interpretazione sull'ancora oscura vicenda del grande uomo politico italiano.
Nei venticinque anni che ci separano da quel giovedì 16 marzo 1978, sul "caso Moro" sono state scritte più di un milione di pagine tra libri e riviste. A parte l'occasione celebrativa ed il significato di testimonianza, quale valore può avere un altro libro sull'argomento?
Inserito nella collana "Problemi Aperti", il volume "Aldo Moro. Quei terribili 55 giorni" di Gustavo Selva ed Eugenio Marcucci (Introduzione di Simona Colarizi, pp. 446, € 18,00) è un'opera utile per conoscere - oppure per ricordare - la cronaca di quei giorni, ed il racconto, come recita la quarta di copertina, conserva tutta la drammaticità e le emozioni provate da chi, come Selva e Marcucci, seguì la vicenda momento per momento, il primo con i suoi famosi "editoriali" in qualità di direttore del GR2 ed il secondo come giornalista radiofonico.
Documenti preziosi
Il volume è arricchito da materiale documentario di fondamentale importanza. Per la prima volta, infatti, vengono raccolte le lettere che Moro scrisse dalla "prigione del popolo", comprese quelle mai recapitate ai destinatari, il "memoriale" nel testo parlamentare riordinato dalla Commissione Stragi, i comunicati delle BR ed il discorso del 28 febbraio 1978, pronunciato davanti ai Gruppi Parlamentari della Dc per dare vita al governo appoggiato dal Pci.
Già... Il nuovo Governo Andreotti. Selva scrive che il memoriale ci consegna un Moro ben diverso da quello che la "vulgata" dell'epoca dell'assassinio ci aveva presentato. Secondo il giornalista, infatti, Moro, se fosse uscito vivo dal rapimento, non sarebbe stato affatto quel costruttore della "terza via", che la sinistra democristiana, o forse tutta la Dc, ormai infiacchita agli occhi degli elettori, ha voluto far credere, continuando a identificare il "progetto di Moro" per il futuro politico e per la modernizzazione dell'Italia in una sorta di consociativismo: l'accordo di governo della Dc con i comunisti.
Le difficoltà della Dc
Vediamo di ricostruire il clima politico dell'epoca. Erano i cosiddetti "anni di piombo" delle stragi e dei quotidiani attentati terroristici. Le condizioni della Dc erano tra le più difficili della sua storia. Il partito, sconfitto nel referendum sul divorzio del 1974 e poi nelle elezioni amministrative del 1975, era stato abbandonato anche dal Psi, tanto che Francesco De Martino, con un articolo pubblicato sull'Avanti! del 31 dicembre 1975, aveva detto chiaramente che i socialisti non avevano più alcuna ragione per appoggiare il governo.
Benigno Zaccagnini, nominato segretario politico dello scudo crociato la notte del 25 luglio 1975, consapevole dell'isolamento del partito, aveva dichiarato: "Io penso che si debba dire apertamente che il tempo delle rendite è finito, che ora siamo in campo aperto, dinanzi ad una società nuova, più articolata ed esigente, di fronte alla quale i consensi o ce li guadagniamo per la nostra capacità politica o non ce li meritiamo".
Nel luglio del 1976 era nato il primo monocolore democristiano sorretto dalla "non sfiducia" ed il Pci di Berlinguer si era tuffato nell'avventura del "governo di solidarietà nazionale". Il 17 novembre 1977 Ugo La Malfa aveva incontrato Moro in un corridoio della Camera e gli aveva illustrato la sua idea di inserire il Pci nella maggioranza. "La situazione del Paese - annota La Malfa nei suoi appunti - mi pareva di una gravità estrema e il governo Andreotti assolutamente non in grado di affrontarla".
Si avvicinano Dc e Pci
Intanto Berlinguer era tornato da Mosca, dove aveva preso le distanze dal "socialismo reale" in modo netto, ed il primo dicembre i comunisti avevano firmato un documento della maggioranza in cui la Nato veniva indicata come "punto di riferimento fondamentale" della politica estera italiana.
La manifestazione a Roma dei metalmeccanici, che rifiutavano i sacrifici in cambio di niente, e la minaccia di sciopero generale, fatta da Berlinguer in televisione la sera del 15 dicembre 1977, avevano spianato la strada alla crisi di governo, che si era aperta formalmente quando il capo dello Stato Giovanni Leone aveva accettato con riserva le dimissioni di Andreotti presentate il 16 gennaio 1978.
Il 26 gennaio Berlinguer aveva dichiarato: "Bisogna dare al Paese un governo di emergenza per fronteggiare una crisi di gravità eccezionale" ed il 28 febbraio 1978 Moro parlò, finalmente, alla riunione dei Gruppi parlamentari Dc della Camera e del Senato.
Tra Botteghe Oscure e piazza del Gesù era in corso una trattativa che durava da più di un anno; ma sul piano internazionale la piega che stavano prendendo gli avvenimenti in Italia infastidiva l'amministrazione Usa. Il 12 gennaio 1978 il Dipartimento di Stato americano era intervenuto con una dichiarazione secondo la quale "i recenti avvenimenti in Italia hanno accresciuto la nostra preoccupazione". Le parole successive non lasciavano spazio a dubbi: "Noi non siamo favorevoli alla partecipazione dei comunisti ai governi dell'Europa occidentale e vorremmo veder diminuita l'influenza comunista in questi paesi".
Il disegno di Moro
Il leader democristiano, nel discorso del 28 febbraio, aveva affermato che "al sistema delle astensioni, della non opposizione, si dovrebbe sostituire un sistema di adesioni", auspicando una "intesa sul programma, che risponda all'emergenza reale che è nella nostra società". "Perché - spiegò - abbiamo una emergenza economica ed una emergenza politica. Io sento parlare di opposizione, del gioco della maggioranza e dell'opposizione. Sono in linea di principio pienamente d'accordo... Ma immaginate cosa avverrebbe in Italia in questo momento storico se fosse condotta fino in fondo la logica dell'opposizione, se questo Paese dalla passionalità intensa e dalle strutture fragili, fosse messo ogni giorno alla prova da una opposizione condotta fino in fondo? Ecco che cosa è l'emergenza ed ecco che cosa consiglia una sorta di tregua e suggerisce di riflettere su un modo accettabile per uscire da questa crisi".
Era la richiesta di un accordo sul programma nella logica del "non rompete tutto". E l'operazione - è Moro stesso a riconoscerlo - non comportava "la formazione di una maggioranza politica", perché i membri della Direzione Dc erano stati unanimi nel dire no ad una coalizione politica generale con il Partito comunista. Ma per Moro la Dc non doveva essere solo un partito di testimonianza, bensì doveva proporre un'iniziativa coraggiosa e appropriata alla situazione, sconfinando in un terreno ancora inesplorato: Questo terreno nuovo e più esposto c'è già, già ci siamo sopra nella vita politica...in molte articolazioni dello Stato democratico... E ci siamo già con altri, nella vita sociale, nei sindacati, nelle associazioni civili, negli organismi culturali, nelle innumerevoli tavole rotonde alle quali siamo presenti".
Questo disse Moro il 28 febbraio 1978, ma già dieci giorni prima egli aveva espesso gli stessi concetti nel corso di un colloquio con Eugenio Scalfari. Il direttore de 'la Repubblica' tenne riservati gli appunti fino al 14 ottobre 1978, giorno in cui li pubblicò "alla vigilia d'un dibattito parlamentare importante, e mentre sono in molti ad arrogarsi la pretesa d'aver capito il Moro di prima e il Moro di dopo, il Moro libero e il Moro in cattività, costruendo castelli di carta, non sempre di buona lega".
In quell'occasione Moro affermò: "La Dc marcerà sull'ingresso del Pci nella maggioranza subito. Ma poi credo che ci debba essere una seconda fase, non troppo in là, con l'ingresso del PCI nel governo. So benissimo che sarà un momento "stretto" da superare. Bisognerà superarlo... Soltanto dopo che avremo governato insieme e ciascuno avrà dato al Paese le prove della propria responsabilità e della propria capacità, si potrà aprire la terza fase, quella delle alternanze al governo... La società consociativa non è un modello accettabile per un Paese come il nostro... Dopo la fase dell'emergenza si aprirà finalmente quella dell'alternanza, e la DC sarà liberata dalla necessità di governare a tutti i costi".
Quello che venne dopo lo sanno tutti: l'agguato di Via Fani del 16 marzo 1978, l'uccisione degli uomini della scorta, il rapimento e poi l'assassinio di Aldo Moro. E la politica del compromesso storico continuò, tra discussioni e aggiustamenti, fino ad esaurirsi nel 1980.
Un'analisi difficile
Quale pensiero politico di Aldo Moro dobbiamo ricordare oggi? Vale il disegno a tappe, oppure - come scrive Selva - gli studiosi devono rivedere il clichè che fa di Moro un "cattocomunista", esaltato a sinistra e detestato a destra?
Il libro è ricco di materiale che consente di approfondire gli argomenti. Esso, inoltre, risveglia ricordi che erano assopiti, specialmente nelle persone che seguirono da vicino gli avvenimenti. Nel leggere gli editoriali sembra di udire ancora alla radio la voce di Selva, e ritornano vicinissimi l'annuncio flash dato da Cesare Palandri alle nove e venticinque del 16 marzo e la successiva diretta radiofonica da via Fani con la voce di Franco Bucarelli. I lavoratori romani si dettero appuntamento in Piazza San Giovanni, quel pomeriggio, e noi stessi siamo stati testimoni dello sventolio di un mare di bandiere bianche con lo scudo crociato, che per la prima volta abbiamo visto accanto alle bandiere rosse del Pci e a quelle del Sindacato.
Selva mostra di non credere ai collegamenti internazionali e Simona Colarizi, nell'introdurre il lavoro, sottolinea il fatto che gli assassini di Moro abbiano sempre rivendicato con forza la matrice tutta italiana del crimine, respingendo con fermezza ogni sospetto di essere stati manovrati dall'esterno. Ma la vicenda è ancora aperta.
Il giudizio della famiglia
Alla conferenza stampa di presentazione del film sulla vicenda, "Piazza delle Cinque Lune" - nel corso della quale il regista Renzo Martinelli ha dichiarato che "Moro fu minacciato dagli Stati Uniti per il suo progetto politico di apertura a sinistra; poi provarono a tirarlo nello scandalo Lockeed; infine passarono alle vie di fatto" - c'era anche Maria Fida Moro. Queste le sue parole: "Chi mente su mio padre? Tutti. Basta prendere l'elenco di chi stava al governo nel '78, della Dc, del Pci e di buona parte di altri partiti". Sempre in merito al film, la famiglia ha parlato di una ricostruzione "ben fatta".
Infine, per Giovanni Moro il "mondo politico, lo Stato, le istituzioni presero la decisione di non trattare in alcun modo la liberazione del prigioniero. Si determinò una situazione di carenza delle indagini" e "purtroppo non siamo ancora arrivati ad una verità credibile".
Nella premessa al volume Selva scrive che "il rapimento e l'assassinio di Moro sono stati una vittoria delle Brigate Rosse. Ma la guerra la deve vincere lo Stato, cioè tutti noi; e la conoscenza del nemico durante questa operazione è l'elemento indispensabile per ottenere la vittoria finale. Questo è lo scopo del libro".
Ma oggi, venticinque anni dopo, chi conosce veramente quel nemico? E chi può dire che lo Stato ha ottenuto - o si avvia ad ottenere - la vittoria finale?
Armando Orlando