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NATO A PISA IL 12/3/1977

ULTIMO AGGIORNAMENTO: 10/08/2008

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9.

Le guarnigioni

 

Tutto era pronto per una sfida memorabile e sanguinaria. Derras era salda dietro le sue mura fortificate. Re Odhon era sceso in battaglia, e la notizia della sua partecipazione da soldato era stata comunicata dagli alfieri in preoccupate ambasciate, dopo le quali i chilometri percorsi al galoppo dei destrieri si riflettevano in espressioni incupite e rose dalla rassegnazione di chi sapeva di dover presto iniziare una nuova fatica. Gli alfieri diventavano infatti soldati comuni durante la Warra, e si ponevano ai lati. Questo perché spesso erano tutt’altro che persone fidate, ma galeotti salvati dalla clemenza dei re, la cui opportunità di redenzione era offerta in cambio della disponibilità al sacrificio. Dovevano porsi in prima linea, per proteggere quelle reginette al loro fianco che si erano fatte avanti come guerriere. Gonta aveva attraccato Hube sulla cima di Baras, e solo allora si accorse che Uhla aveva forato il grande telo pieno d’aria. Se non fosse atterrato, i passeggeri sarebbero stati costretti a planare in una manovra di emergenza, o sarebbero precipitati. Gonta richiamò Tak, Lai, Jarmis, Merrio e Oti che costituirono il suo plotone insieme a Suriman di Lotragh, Maan di Orios, Uder di Benthar, Bodo di Kelzburg e Tiaff di Ghala. Nessuno di essi si conosceva e come Terwa di Rok, che si aggregò dopo, giungevano per vendicarsi di passate uccisioni. Gli orchi furono affrontati anni prima, e i villaggi delle Terre avevano subito perdite ingenti. Su ogni cintura era avvolto un fazzoletto appartenuto alla vittima compianta, con su inciso il suo nome, così come si volle che facessero le loro figlie, che saldando alla stoffa i fili con gli aghi stavano tessendo una futura promessa di vendetta.Quanto pianse la sorella di Maan per un uomo di Benthar, rimase leggenda, perché perse tante lacrime che, disidratandosi fuori misura, dovettero applicarle delle bende agli occhi, e constatare che si era ammalata. Non morì, ma fu allontanata da ogni altro uomo, perché serpeggiò il timore che a circuire la ragazza si sarebbe presentato il fantasma del suo amato. La vita ad Orios scorreva saldamente legata a simili superstizioni, ed era più facile che altri vi credessero piuttosto che le si rigettasse nel colmo calderone inconscio di ingenue falsità dal quale provenivano. I soldati che avevano simili credenze, non partirono, perché si doveva evitare che la loro fragile mente subisse il trauma di situazioni al limite della sopportazione, quale fosse l’incontro con creature sconosciute e lo scontro con esseri sovrumani come gli Orchi. Non avrebbero retto, e avrebbero impaurito gli altri con grida e sussulti.

 

Si accesero delle torce nella grotta, e il riverbero di quelle fiamme conferiva all’atmosfera della caverna un tono di stupefacente fulgore, che pareva illuminare le pareti rocciose con un’ impronta epica, un preludio a qualcosa di oscuro fatto di piccole scintille scoppiettanti e minacciose. Le fiaccole provenivano dal castello di Re Odhon, chiamato la Rocca Rossa, perché si diceva che il sangue delle vittime di alcune battaglie del passato fosse stato gettato dall’alto sui tetti dei torri. Non erano mai state accese, perché stavano riposte sotto altre, dentro appositi sostegni di rame. Quelli sopra, sostenevano i fari che erano chiamati in Lingua degli Orchi Rakrata, ovvero segnali.     

 “Badokà, orchi! Attah!,” fu il grido che echeggiò.

Uscirono dalla Rocca guidati dal loro Re. Sei Wachta, alfieri orchi, lo precedevano di qualche passo, pronti a sacrificarsi nel caso di un attacco proditorio. Ert il Brutto morì infatti, e cadde anche Fiorre il Burbero, perché  le legioni degli Esseri Verdi erano decise a non vendere la propria vita all’alea delle gesta di un branco di creature irrazionali e furiose. Finn di Lotragh tirò un giavellotto nel petto di Fiorre, e Ert cadde per un dardo di Odruvil di Benthar.

“Morite, bestie senza legge!,” gridò Koran, galvanizzando i fanti.

“Per Orios, tutti uniti!,” gridò invece Argant.

Molti non sapevano che il Re fosse tra loro. Ma quando dietro i Wachta spuntò imperioso Odhon, si capì perché il Re di Orios era voluto scendere uno tra tutti. Odhon indossava una tunica rossa, e sopra teneva una corazza che ricopriva una cotta di maglia di ferro. La corazza era fatta di strati differenti di leghe metalliche. I loro elmi erano incapaci di riparare i colpi, perché erano di rame, e il motivo di questa incauta scelta era dovuto all’uso di porre il proprio capo di fronte alla morte con lo spirito di chi, pur combattendo per sopravvivere non temeva la propria fine. Solo gli orchi giungevano a tanto, e per questo anche erano temuti, perché chi non vedeva il proprio trapasso come una cosa inaudita, ma l’accettava al punto di sfidare il pericolo, era certo un popolo da rispettare. In realtà, però, gli Orchi erano disprezzati. Perché erano ostili anche con chi veniva in pace; erano feroci come lupi e ciechi nella loro crudeltà;

perché cercavano la distruzione di chiunque e di tutto. Mitreis li aveva studiati leggendo i Manoscritti, e vederli ora dal vero, era come assistere alla sfilata di esseri ormai estinti. Zatro non pensò che si potesse camminare tanto lesti, se si era tanto grossi. Così Odhon con un solo pugno lo uccise. Zatro non era molto conosciuto, quindi la sua morte divenne un numero alla fine, nella lista dei caduti che le fate redassero per portarne notizie ai familiari. Diverso fu quando cadde Balio. Fajares, Dromi, Saffar e Uthe gridarono, piansero l’amico, e corsero,ma riuscirono soltanto a ferire le braccia dei nemici. Dromi riuscì a fendere il ventre di

Polte il Terribile, e a tagliare la guancia di Sandura l’Impietoso.

Targik il Grasso stese Uthe e Saffar con l’elsa della spada, usandola contundendo. Non morirono, ma soffrirono per ore e non combatterono. Quando stavano per andarsene, gli caddero sopra tre orchi, stavano per perdere il respiro, e si salvarono dopo minuti nel terrore di non saper muovere quei corpi pesanti che li soffocavano. Ce la fecero, si scoprirono molto più doloranti, ma si salvarono. Per Fajares non ci fu nulla da fare. Grondac il Borioso ebbe la meglio su di lui con facilità. Argant si impegnò a stendere tutti loro, per aver  modo di evitare che ci fosse una strage.

Dentro di sé si sentiva in colpa, per aver mosso tanti dei suoi in quel modo. Koran roteò più volte la spada, e fendette. Mitreis aveva unito dei giavellotti con una corda di filo di ferro, ma quando si accorse che gli orchi si difendevano il collo che lui intendeva colpire, non poté far altro che fuggire, perché di lì a poco si ruppero le aste, e l’arma si ruppe. Uwanish aveva sfoderato un’ascia, e faceva quel che poteva. Gli Orchi erano tanti, perché non erano una parte del loro popolo, ma era Mersham tutta che si riversava nella campagna.

“Non ce la facciamo!,” si gridò da più lati.

“Ho steso quello che si faceva chiamare Kato l’Inquieto. Ma stanno arrivando altri,” disse Mitreis.

“Sono orde, e pare che non avremo scampo…”

“Uwanish, non ripetere a voce alta ciò che dici! Se ti sentissero gli altri, il basso morale, questo sì che annullerebbe i nostri sforzi!”

“Cavalieri, arrivano le fate in nostro aiuto. Ecco anche le Elfe.”

“Riconosco Behjen. E quella è Jahlia.”

Le fate si erano corazzate. Quando venivano colpite, la fata che si era chiusa sull’altra subiva un forte trauma, ma era quella sotto che veniva polverizzata. La sua aura si sarebbe rigenerata, ma ci sarebbero voluti degli anni, e i suoi cari avrebbero dovuto attendere a lungo per rivederla. Stava presso la Pietra Azzurra la schiera di ancelle di Aleas, le cui schiene lucevano come lucciole in volo. Quando una fata lontana veniva schiacciata, l’ancella corrispondente perdeva la luce, e quando accadeva a molte, Eleon era in allarme. Odhon comandava Turama il Tremendo, Fokwe il Minaccioso, Matramo il Terribile, Daco l’Urlante e Netra l’Odioso. Gli appellativi venivano assegnati dal re in una sorta di rituale cavalleresco, in cui erano investiti della carica di Gran Condottiero. Quando c’erano le donne orco, veniva loro concesso di prendere sposa. E siccome per nessuno di essi era stato possibile, ognuno di loro cercava di enfatizzare l’elemento negativo che gli era stato riconosciuto come proprio, fino a comportarsi come veri ossessi. Questo era ciò che le legioni degli Esseri Versi avevano di fronte, un popolo carico d’odio e fisicamente creato per la distruzione. Quanti sarebbero stati pianti, a Orios, a Benthar, a Kelzburg, per essere scesi là dove tutto il futuro si stava decidendo con le armi?

 La situazione era terribile.

“Koran, che dobbiamo fare?”

“Mitreis, sei agitato oltremodo. Consigli una ritirata? Sai che gli Orchi non danno tregua.”

“Lo so. Cosa facciamo quindi?”

“Le fate si sono sacrificate. Abbiamo costretto chi non era caduta a tornare alle tende che avevamo attrezzato appositamente.”

“Abbiamo un campo?”

“Sì. Ci sono altre armi. E Dodonte e i suoi centauri provvederanno a portarle quando l’alfiere di Wasland, sventolando il vessillo, li avvertirà della necessità del rifornimento.”

“E’ una buona cosa.”

“Ma non basta. Abbiamo affrontato battaglie peggiori? Forse.

Ma eravamo di più.”

“E’ già troppo questo tempo che ci concediamo a parlare.”

“Andiamo, o avremo qualcuno dei nostri sulla coscienza.”

Per quello che poteva valere il loro supporto, Koran e Mitreis tornarono sul campo. Si erano rifugiati dietro delle torrette di legno assai fragili, usate come bastioni per tentare qualche tiro di freccia infuocata. C’era anche una balestra, e Dioril, un elfo ingegnere,  si adoperava a rodare qualche dardo di sua invenzione. Egli era stato anni prima, quel mimo che aveva subito la punizione di essere sorvegliato da Kariabe, e fu accanto al mago che acquisì le conoscenze che gli servirono. Divenne molto abile, tanto che tutti scordarono chi era stato in passato. C’erano fra i suoi strumenti di offesa frecce limate secondo uno schema che, portando il ferro a contatto col corpo, avrebbe leso in modo più letale del consueto. C’erano dardi dalla punta fragile, che nel lancio incendiava una base retrostante di polvere, e che entro alcuni metri faceva deflagrare una terza calotta. Dioril era soddisfatto delle sue invenzioni, benché talvolta facessero cilecca. Mitreis l’aveva più volte redarguito circa questa sua proclizione all’incapacità, anche se in fondo stimava il suo impegno per la causa della lotta degli Esseri Verdi contro il Male Oscuro. Dioril non poteva combattere perché non era adatto. Era gobbo, ed aveva delle imperfezioni cutanee che lo facevano arrossire se si mostrava a chi non gli era conosciuto. Evitava perciò gli estranei, e si disinteressava alle feste, tranne quella di Borokà, durante la quale esponeva sotto un tendone le sue più recenti costruzioni, dalla sedia volante all’ombrello che poteva diventare un treppiede munito di razzo, ben celato e riposto nel manico. A nulla valeva che Uwanish lo schernisse di fronte agli astanti, perché Dioril aveva più sostenitori che denigratori. Uwanish lo sapeva, ma prendeva in giro l’elfo per spronarlo a migliorare, e perché quando anni e anni prima erano entrambi più giovani, Dioril gli aveva sottratto un borsello pieno di preziose monete. Benché l’elfo avesse posto rimedio a quell’errore passato, Uwanish non lo aveva perdonato, benché avesse ricevuto da lui una somma molto maggiore di quella estortagli. Non poteva fidarsi di lui. Tutto qua. Col tempo avrebbe finito anche di rivolgergli la parola, e lo avrebbe ignorato, lasciando agli altri la capacità di giudicarlo nelle occasioni in cui ne avrebbero percorso la stessa strada assieme. Uwanish per sua colpa odiava gli elfi, non tanto da voler vederli distrutti, ma tanto da mal sopportare di doverli aiutare in questo o quel bisogno. Ciò era dovuto al fatto che quel furto aveva impedito la sua unione con Amatea di Lotragh, figlia di Mirigone e di sua moglie Ilerin. Uwanish combatteva anche per poter guadagnare una medaglia che, posta agli occhi del padre in luogo della dote, potesse permettergli di chiederne la mano quantunque, passati ormai venticinque anni, non fosse più  una fanciulla nel fiore degli anni.

 

La battaglia incuteva timore ad ogni urlo di quegli energumeni che pareva squarciassero il cielo con le loro ugole vibranti. Sporgevano i denti come se volessero trinciare tutto ciò che gli capitasse a tiro. Non erano così orrendi, come le scritture li ritraevano, e alcuni parevano tonti. Quello che spaventava, era la possanza delle loro carni. Se ne accorse ogni soldato quando fendette quelle braccia e quelle gambe voluminose. Sanguinavano, ma anche con la spada più potente, si capiva che con un po’ di riposo quei tagli si sarebbero rimarginati, mentre un Ehlo o un elfo sarebbero stati spacciati. Per questo, Argant aveva ordinato a Koran, il suo pupillo, che non ci sarebbe dovuta essere alcuna pietà.

“Non abbiate clemenza, uomini, perché queste creature sono sempre state il braccio più tenace degli Esseri Neri, e, sebbene ci abbiano procurato meno vittime di altri, non sarebbe strano che ognuno di voi avesse tra gli avi qualcuno che sia deceduto a causa loro.”

“Per loro ci muoviamo.”

E fu tempo di qualche triste considerazione, che servi a motivarsi nell’andare avanti.

“Io ricordo Atrav di Ghala, caduto per mano di Odoarre il Forte!,” disse Tiaff.

“Io penso a mio padre Galvim di Wasland, sconfitto da Tido il Sanguinario.”

“Ed io ho avuto rapito le mie figlie, Tirice e Limia, per mano di Quarmo il Ruggente. Le hanno salvate Mitreis e Jann, e a loro son grato, ma sono tornate sconvolte dalla paura di non tornare più tra noi.“

Le parole di Drojo sconvolsero chi le sentì e infiammarono gli animi. Disse che Tirice e Limia avevano più di venti anni, ma erano tornate come bambine, a giocare tra i fili d’erba, e se non ci fossero state le cure della madre Venora, non ricorderebbero neppure il loro nome. E chi vide Drojo, valoroso soldato, piangere,

sgorgando la sua disperazione fra le lacrime, e volgendo gli occhi vacui alla nuda terra barbara, prese su di sé la sua stessa rabbia impotente, ed urlò. Furono cinquanta a sostenere Drojo, alzando le spade e gridando con tutta la forza che avevano:

Morad ‘aen sofaer jemer hess!“

Che in Lingua degli Elfi significava:

“Fino a che nessun di loro sopravviva!”

Era ciò che si diceva quando si spingeva la Warra all’estremo.

Dioril portò avanti un marchingegno della sua fucina, e si dichiarò pronto a sacrificarsi. Gli aveva dato nome morollo, ed era simile ad un ariete, ma non era pensato per abbattere porte , bensì per colpire. “Perché, Dioril?,” gli chiese Jann, “Tu sei uno dei pochi dispensati ad agire. Puoi salvarti!”

“E tornare con un pugno di voi in una terra morsa dal pianto della sconfitta, e col brivido di un futuro di asservimento? Sono un elfo pavido, ma ho conosciuto la piccola Tirice, e per quel che è successo a lei e a Limia io vado avanti con voi fino a raggiungere i pascoli dei cieli al vostro fianco, se necessario!”

Quando Drojo sentì parlare così Dioril, lo abbracciò.

Rayne e Dulian non sapevano questo aneddoto su Drojo, e si sentirono scosse nel venirne a conoscenza. Due ragazze fra gli orchi, in prigione. Cosa avevano passato i loro cuori? Che cosa era avvenuto in loro di irreversibile? Provarono a non pensarci, ma in realtà la solidarietà verso le giovani si tramutò in un rinnovato spirito guerriero. Presero il morollo di Dioril, togliendogli la fatica di muoverlo. Dioril si mise sopra, e si munì di razzi. Dietro il morollo, che poteva fungere da piccolo carretto, si insediò Jahlia con due arici alle braccia. Le arici erano armi Ehlo, due lame giganti che usavano le braccia come appoggio e vi si fissavano con bracciali. Jahlia era contraria all’uso di queste lame, le detestava, ma non poteva esimersi dal compito assegnatole da Argant.

 “Afferrate le guigge!,” gridò Lahmman.

E non diceva solo al suo plotone. Ogni ordine poteva essere preso

da chiunque lo udisse purché gli altri capitani fossero d’accordo, tacitando con l’assenso l’effettiva utilità del comando nel piano di azioni da intraprendere. Così, tutti alzarono gli scudi. Gli orchi stavano lanciando le loro spade dalla rabbia di vedere protrarsi la

battaglia oltre il loro volere. Erano abituati a vincere, e la  degli Esseri Verdi rodeva la loro anima selvaggia. Lahmman intuì che questo umore sarebbe giocato a loro svantaggio e mandò avanti Dioril, Jahlia, Dulian e Rayne col morollo.

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