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QUESTO E’ IL SITO
DI: FILIPPO ARMAIOLI MAGI
NATO A PISA IL 12/3/1977
ULTIMO AGGIORNAMENTO: 10/08/2008
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9.
Le guarnigioni
Tutto era pronto
per una sfida memorabile e sanguinaria. Derras era salda dietro le sue mura
fortificate. Re Odhon era sceso in battaglia, e la notizia della sua
partecipazione da soldato era stata comunicata dagli alfieri in preoccupate
ambasciate, dopo le quali i chilometri percorsi al galoppo dei destrieri si
riflettevano in espressioni incupite e rose dalla rassegnazione di chi sapeva
di dover presto iniziare una nuova fatica. Gli alfieri diventavano infatti
soldati comuni durante la Warra, e si ponevano ai lati. Questo perché spesso
erano tutt’altro che persone fidate, ma galeotti salvati dalla clemenza dei re,
la cui opportunità di redenzione era offerta in cambio della disponibilità al
sacrificio. Dovevano porsi in prima linea, per proteggere quelle reginette al
loro fianco che si erano fatte avanti come guerriere. Gonta aveva attraccato
Hube sulla cima di Baras, e solo allora si accorse che Uhla aveva forato il
grande telo pieno d’aria. Se non fosse atterrato, i passeggeri sarebbero stati
costretti a planare in una manovra di emergenza, o sarebbero precipitati. Gonta
richiamò Tak, Lai, Jarmis, Merrio e Oti che costituirono il suo plotone insieme
a Suriman di Lotragh, Maan di Orios, Uder di Benthar, Bodo di Kelzburg e Tiaff
di Ghala. Nessuno di essi si conosceva e come Terwa di Rok, che si aggregò
dopo, giungevano per vendicarsi di passate uccisioni. Gli orchi furono
affrontati anni prima, e i villaggi delle Terre avevano subito perdite ingenti.
Su ogni cintura era avvolto un fazzoletto appartenuto alla vittima compianta,
con su inciso il suo nome, così come si volle che facessero le loro figlie, che
saldando alla stoffa i fili con gli aghi stavano tessendo una futura promessa
di vendetta.Quanto pianse la sorella di Maan per un uomo di Benthar, rimase
leggenda, perché perse tante lacrime che, disidratandosi fuori misura,
dovettero applicarle delle bende agli occhi, e constatare che si era ammalata.
Non morì, ma fu allontanata da ogni altro uomo, perché serpeggiò il timore che
a circuire la ragazza si sarebbe presentato il fantasma del suo amato. La vita
ad Orios scorreva saldamente legata a simili superstizioni, ed era più facile
che altri vi credessero piuttosto che le si rigettasse nel colmo calderone
inconscio di ingenue falsità dal quale provenivano. I soldati che avevano
simili credenze, non partirono, perché si doveva evitare che la loro fragile
mente subisse il trauma di situazioni al limite della sopportazione, quale
fosse l’incontro con creature sconosciute e lo scontro con esseri sovrumani
come gli Orchi. Non avrebbero retto, e avrebbero impaurito gli altri con grida
e sussulti.
Si accesero delle torce
nella grotta, e il riverbero di quelle fiamme conferiva all’atmosfera della
caverna un tono di stupefacente fulgore, che pareva illuminare le pareti
rocciose con un’ impronta epica, un preludio a qualcosa di oscuro fatto di
piccole scintille scoppiettanti e minacciose. Le fiaccole provenivano dal
castello di Re Odhon, chiamato la Rocca Rossa, perché si diceva che il sangue
delle vittime di alcune battaglie del passato fosse stato gettato dall’alto sui
tetti dei torri. Non erano mai state accese, perché stavano riposte sotto
altre, dentro appositi sostegni di rame. Quelli sopra, sostenevano i fari che
erano chiamati in Lingua degli Orchi Rakrata,
ovvero segnali.
“Badokà, orchi! Attah!,” fu il grido che
echeggiò.
Uscirono
dalla Rocca guidati dal loro Re. Sei Wachta, alfieri orchi, lo precedevano di
qualche passo, pronti a sacrificarsi nel caso di un attacco proditorio. Ert il
Brutto morì infatti, e cadde anche Fiorre il Burbero, perché le legioni degli Esseri Verdi erano decise a
non vendere la propria vita all’alea delle gesta di un branco di creature
irrazionali e furiose. Finn di Lotragh tirò un giavellotto nel petto di Fiorre,
e Ert cadde per un dardo di Odruvil di Benthar.
“Morite,
bestie senza legge!,” gridò Koran, galvanizzando i fanti.
“Per Orios,
tutti uniti!,” gridò invece Argant.
Molti non
sapevano che il Re fosse tra loro. Ma quando dietro i Wachta spuntò imperioso
Odhon, si capì perché il Re di Orios era voluto scendere uno tra tutti. Odhon
indossava una tunica rossa, e sopra teneva una corazza che ricopriva una cotta
di maglia di ferro. La corazza era fatta di strati differenti di leghe
metalliche. I loro elmi erano incapaci di riparare i colpi, perché erano di
rame, e il motivo di questa incauta scelta era dovuto all’uso di porre il
proprio capo di fronte alla morte con lo spirito di chi, pur combattendo per
sopravvivere non temeva la propria fine. Solo gli orchi giungevano a tanto, e
per questo anche erano temuti, perché chi non vedeva il proprio trapasso come
una cosa inaudita, ma l’accettava al punto di sfidare il pericolo, era certo un
popolo da rispettare. In realtà, però, gli Orchi erano disprezzati. Perché
erano ostili anche con chi veniva in pace; erano feroci come lupi e ciechi
nella loro crudeltà;
perché
cercavano la distruzione di chiunque e di tutto. Mitreis li aveva studiati
leggendo i Manoscritti, e vederli ora dal vero, era come assistere alla sfilata
di esseri ormai estinti. Zatro non pensò che si potesse camminare tanto lesti,
se si era tanto grossi. Così Odhon con un solo pugno lo uccise. Zatro non era
molto conosciuto, quindi la sua morte divenne un numero alla fine, nella lista
dei caduti che le fate redassero per portarne notizie ai familiari. Diverso fu
quando cadde Balio. Fajares, Dromi, Saffar e Uthe gridarono, piansero l’amico,
e corsero,ma riuscirono soltanto a ferire le braccia dei nemici. Dromi riuscì a
fendere il ventre di
Polte il
Terribile, e a tagliare la guancia di Sandura l’Impietoso.
Targik il
Grasso stese Uthe e Saffar con l’elsa della spada, usandola contundendo. Non
morirono, ma soffrirono per ore e non combatterono. Quando stavano per
andarsene, gli caddero sopra tre orchi, stavano per perdere il respiro, e si salvarono
dopo minuti nel terrore di non saper muovere quei corpi pesanti che li
soffocavano. Ce la fecero, si scoprirono molto più doloranti, ma si salvarono.
Per Fajares non ci fu nulla da fare. Grondac il Borioso ebbe la meglio su di
lui con facilità. Argant si impegnò a stendere tutti loro, per aver modo di evitare che ci fosse una strage.
Dentro di sé
si sentiva in colpa, per aver mosso tanti dei suoi in quel modo. Koran roteò
più volte la spada, e fendette. Mitreis aveva unito dei giavellotti con una
corda di filo di ferro, ma quando si accorse che gli orchi si difendevano il
collo che lui intendeva colpire, non poté far altro che fuggire, perché di lì a
poco si ruppero le aste, e l’arma si ruppe. Uwanish aveva sfoderato un’ascia, e
faceva quel che poteva. Gli Orchi erano tanti, perché non erano una parte del
loro popolo, ma era Mersham tutta che si riversava nella campagna.
“Non ce la
facciamo!,” si gridò da più lati.
“Ho steso
quello che si faceva chiamare Kato l’Inquieto. Ma stanno arrivando altri,”
disse Mitreis.
“Sono orde, e
pare che non avremo scampo…”
“Uwanish, non
ripetere a voce alta ciò che dici! Se ti sentissero gli altri, il basso morale,
questo sì che annullerebbe i nostri sforzi!”
“Cavalieri, arrivano
le fate in nostro aiuto. Ecco anche le Elfe.”
“Riconosco
Behjen. E quella è Jahlia.”
Le fate si
erano corazzate. Quando venivano colpite, la fata che si era chiusa sull’altra
subiva un forte trauma, ma era quella sotto che veniva polverizzata. La sua
aura si sarebbe rigenerata, ma ci sarebbero voluti degli anni, e i suoi cari
avrebbero dovuto attendere a lungo per rivederla. Stava presso la Pietra
Azzurra la schiera di ancelle di Aleas, le cui schiene lucevano come lucciole
in volo. Quando una fata lontana veniva schiacciata, l’ancella corrispondente
perdeva la luce, e quando accadeva a molte, Eleon era in allarme. Odhon
comandava Turama il Tremendo, Fokwe il Minaccioso, Matramo il Terribile, Daco
l’Urlante e Netra l’Odioso. Gli appellativi venivano assegnati dal re in una
sorta di rituale cavalleresco, in cui erano investiti della carica di Gran
Condottiero. Quando c’erano le donne orco, veniva loro concesso di prendere
sposa. E siccome per nessuno di essi era stato possibile, ognuno di loro cercava
di enfatizzare l’elemento negativo che gli era stato riconosciuto come proprio,
fino a comportarsi come veri ossessi. Questo era ciò che le legioni degli
Esseri Versi avevano di fronte, un popolo carico d’odio e fisicamente creato
per la distruzione. Quanti sarebbero stati pianti, a Orios, a Benthar, a
Kelzburg, per essere scesi là dove tutto il futuro si stava decidendo con le
armi?
La situazione era terribile.
“Koran, che
dobbiamo fare?”
“Mitreis, sei
agitato oltremodo. Consigli una ritirata? Sai che gli Orchi non danno tregua.”
“Lo so. Cosa
facciamo quindi?”
“Le fate si
sono sacrificate. Abbiamo costretto chi non era caduta a tornare alle tende che
avevamo attrezzato appositamente.”
“Abbiamo un
campo?”
“Sì. Ci sono
altre armi. E Dodonte e i suoi centauri provvederanno a portarle quando
l’alfiere di Wasland, sventolando il vessillo, li avvertirà della necessità del
rifornimento.”
“E’ una buona
cosa.”
“Ma non
basta. Abbiamo affrontato battaglie peggiori? Forse.
Ma eravamo di
più.”
“E’ già
troppo questo tempo che ci concediamo a parlare.”
“Andiamo, o
avremo qualcuno dei nostri sulla coscienza.”
Per quello
che poteva valere il loro supporto, Koran e Mitreis tornarono sul campo. Si
erano rifugiati dietro delle torrette di legno assai fragili, usate come bastioni
per tentare qualche tiro di freccia infuocata. C’era anche una balestra, e
Dioril, un elfo ingegnere, si adoperava
a rodare qualche dardo di sua invenzione. Egli era stato anni prima, quel mimo
che aveva subito la punizione di essere sorvegliato da Kariabe, e fu accanto al
mago che acquisì le conoscenze che gli servirono. Divenne molto abile, tanto
che tutti scordarono chi era stato in passato. C’erano fra i suoi strumenti di
offesa frecce limate secondo uno schema che, portando il ferro a contatto col corpo,
avrebbe leso in modo più letale del consueto. C’erano dardi dalla punta
fragile, che nel lancio incendiava una base retrostante di polvere, e che entro
alcuni metri faceva deflagrare una terza calotta. Dioril era soddisfatto delle
sue invenzioni, benché talvolta facessero cilecca. Mitreis l’aveva più volte
redarguito circa questa sua proclizione all’incapacità, anche se in fondo
stimava il suo impegno per la causa della lotta degli Esseri Verdi contro il
Male Oscuro. Dioril non poteva combattere perché non era adatto. Era gobbo, ed
aveva delle imperfezioni cutanee che lo facevano arrossire se si mostrava a chi
non gli era conosciuto. Evitava perciò gli estranei, e si disinteressava alle
feste, tranne quella di Borokà, durante la quale esponeva sotto un tendone le
sue più recenti costruzioni, dalla sedia volante all’ombrello che poteva
diventare un treppiede munito di razzo, ben celato e riposto nel manico. A
nulla valeva che Uwanish lo schernisse di fronte agli astanti, perché Dioril
aveva più sostenitori che denigratori. Uwanish lo sapeva, ma prendeva in giro
l’elfo per spronarlo a migliorare, e perché quando anni e anni prima erano
entrambi più giovani, Dioril gli aveva sottratto un borsello pieno di preziose
monete. Benché l’elfo avesse posto rimedio a quell’errore passato, Uwanish non
lo aveva perdonato, benché avesse ricevuto da lui una somma molto maggiore di
quella estortagli. Non poteva fidarsi di lui. Tutto qua. Col tempo avrebbe
finito anche di rivolgergli la parola, e lo avrebbe ignorato, lasciando agli
altri la capacità di giudicarlo nelle occasioni in cui ne avrebbero percorso la
stessa strada assieme. Uwanish per sua colpa odiava gli elfi, non tanto da
voler vederli distrutti, ma tanto da mal sopportare di doverli aiutare in
questo o quel bisogno. Ciò era dovuto al fatto che quel furto aveva impedito la
sua unione con Amatea di Lotragh, figlia di Mirigone e di sua moglie Ilerin.
Uwanish combatteva anche per poter guadagnare una medaglia che, posta agli
occhi del padre in luogo della dote, potesse permettergli di chiederne la mano
quantunque, passati ormai venticinque anni, non fosse più una fanciulla nel fiore degli anni.
La battaglia
incuteva timore ad ogni urlo di quegli energumeni che pareva squarciassero il
cielo con le loro ugole vibranti. Sporgevano i denti come se volessero
trinciare tutto ciò che gli capitasse a tiro. Non erano così orrendi, come le
scritture li ritraevano, e alcuni parevano tonti. Quello che spaventava, era la
possanza delle loro carni. Se ne accorse ogni soldato quando fendette quelle
braccia e quelle gambe voluminose. Sanguinavano, ma anche con la spada più
potente, si capiva che con un po’ di riposo quei tagli si sarebbero
rimarginati, mentre un Ehlo o un elfo sarebbero stati spacciati. Per questo,
Argant aveva ordinato a Koran, il suo pupillo, che non ci sarebbe dovuta essere
alcuna pietà.
“Non abbiate
clemenza, uomini, perché queste creature sono sempre state il braccio più
tenace degli Esseri Neri, e, sebbene ci abbiano procurato meno vittime di
altri, non sarebbe strano che ognuno di voi avesse tra gli avi qualcuno che sia
deceduto a causa loro.”
“Per loro ci
muoviamo.”
E fu tempo di
qualche triste considerazione, che servi a motivarsi nell’andare avanti.
“Io ricordo
Atrav di Ghala, caduto per mano di Odoarre il Forte!,” disse Tiaff.
“Io penso a
mio padre Galvim di Wasland, sconfitto da Tido il Sanguinario.”
“Ed io ho
avuto rapito le mie figlie, Tirice e Limia, per mano di Quarmo il Ruggente. Le
hanno salvate Mitreis e Jann, e a loro son grato, ma sono tornate sconvolte
dalla paura di non tornare più tra noi.“
Le parole di
Drojo sconvolsero chi le sentì e infiammarono gli animi. Disse che Tirice e
Limia avevano più di venti anni, ma erano tornate come bambine, a giocare tra i
fili d’erba, e se non ci fossero state le cure della madre Venora, non
ricorderebbero neppure il loro nome. E chi vide Drojo, valoroso soldato,
piangere,
sgorgando la
sua disperazione fra le lacrime, e volgendo gli occhi vacui alla nuda terra
barbara, prese su di sé la sua stessa rabbia impotente, ed urlò. Furono
cinquanta a sostenere Drojo, alzando le spade e gridando con tutta la forza che
avevano:
“Morad ‘aen sofaer jemer hess!“
Che in Lingua
degli Elfi significava:
“Fino a che
nessun di loro sopravviva!”
Era ciò che
si diceva quando si spingeva la Warra all’estremo.
Dioril portò
avanti un marchingegno della sua fucina, e si dichiarò pronto a sacrificarsi.
Gli aveva dato nome morollo, ed era simile ad un ariete, ma non era pensato per
abbattere porte , bensì per colpire. “Perché, Dioril?,” gli chiese Jann, “Tu
sei uno dei pochi dispensati ad agire. Puoi salvarti!”
“E tornare
con un pugno di voi in una terra morsa dal pianto della sconfitta, e col
brivido di un futuro di asservimento? Sono un elfo pavido, ma ho conosciuto la
piccola Tirice, e per quel che è successo a lei e a Limia io vado avanti con
voi fino a raggiungere i pascoli dei cieli al vostro fianco, se necessario!”
Quando Drojo
sentì parlare così Dioril, lo abbracciò.
Rayne e
Dulian non sapevano questo aneddoto su Drojo, e si sentirono scosse nel venirne
a conoscenza. Due ragazze fra gli orchi, in prigione. Cosa avevano passato i
loro cuori? Che cosa era avvenuto in loro di irreversibile? Provarono a non
pensarci, ma in realtà la solidarietà verso le giovani si tramutò in un rinnovato
spirito guerriero. Presero il morollo di Dioril, togliendogli la fatica di
muoverlo. Dioril si mise sopra, e si munì di razzi. Dietro il morollo, che
poteva fungere da piccolo carretto, si insediò Jahlia con due arici alle
braccia. Le arici erano armi Ehlo, due lame giganti che usavano le braccia come
appoggio e vi si fissavano con bracciali. Jahlia era contraria all’uso di
queste lame, le detestava, ma non poteva esimersi dal compito assegnatole da
Argant.
“Afferrate le guigge!,” gridò Lahmman.
E non diceva
solo al suo plotone. Ogni ordine poteva essere preso
da chiunque
lo udisse purché gli altri capitani fossero d’accordo, tacitando con l’assenso
l’effettiva utilità del comando nel piano di azioni da intraprendere. Così,
tutti alzarono gli scudi. Gli orchi stavano lanciando le loro spade dalla
rabbia di vedere protrarsi la
battaglia
oltre il loro volere. Erano abituati a vincere, e la degli Esseri Verdi rodeva la loro anima
selvaggia. Lahmman intuì che questo umore sarebbe giocato a loro svantaggio e
mandò avanti Dioril, Jahlia, Dulian e Rayne col morollo.
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