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QUESTO E’ IL SITO
DI: FILIPPO ARMAIOLI MAGI
NATO A PISA IL 12/3/1977
ULTIMO AGGIORNAMENTO: 10/08/2008
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8.
Hube in volo
La macchina volante
fluttuava con la levità di una nube, e pareva un enorme sacco privo di
contenuto. Ed invece ospitava sempre nuovi passeggeri, perché il timoniere,
Gonta di Rok, non demordeva di fronte a chi gli intimava di non perder tempo
prezioso per accogliere, dopo manovre farraginose, i viandanti dei valichi
delle vette di Faran Andekirk e le cime dei monti Baras e Suuer Endòrj. Gonta
era sicuro di poter raggiungere tutti, ma non era altrettanto convinto di poter
accoglierli su Hube. Hube non era strutturato per una quantità tanto grande di
passeggeri quanto quella che stava per salirvici. E questo perché Oti di
Kelzburg aveva condiviso troppi passi con Merrio per lasciare l’amico nei guai.
Sahe di Rok non poteva vivere senza l’amato Lai, uno dei pochi Weho maschi
ancora in vita, mentre Tak viveva per sostentare i genitori Ani e Tia. E adesso
Lai di Hoho, Merrio di Benthar, e Ani e Tia di Lotragh si trovavano in
pericolo. Gonta voleva aiutare tutti. Era un bravo Roke, benché la sua stirpe,
anche se mite in apparenza, era anche innatamente poco affidabile e prona alle
risse. Caratteristica questa che nel tempo li rese buoni guerrieri, ma che li
isolò nei rapporti con gli altri popoli. Così Hube fluttuava racchiudendo genti
barbare, dall’espressione arcigna, dalle maniere irruente, dal viso arso da
anni di insolazione. La Terra di Rok era infatti un deserto, e se i Roke vi
amavano ritornare dopo la dipartita, era perché non c’era nessuno nei Regni che
non anelasse, provandone il grave peso al distacco, di ritornare in patria, e
di riessere abbracciato dai cari. I Roke, no. Amavano la loro terra brulla, ma
non le loro famiglie, che formavano come organizzazioni indispensabili alla
preservazione della specie, ma senza attaccamento al coniuge, che rimaneva
relegato a una condizione di compagno quasi scelto a caso, il che eliminava
ogni profusione di esternazione affettuosa dai riti quotidiani. Abbracci,
carezze, baci non contavano nulla per i Roke, e questo li rendeva simili agli
orchi; ma erano tanti i casi in cui ciò non era così, che più di una coppia fu
trovata ad amoreggiare come qualsiasi altra. E ciò rendeva re Elhactron
talvolta curioso, se prevaleva in lui la speculazione intellettuale sugli usi
della sua gente, altre volte furente perfino, se temeva che per il comportamento
di queste coppie eccezionali venisse deriso il suo popolo, o se la
disponibilità a difendere Rok venisse meno per la spesa temporale di queste
effusioni. Così Lai e Sahe furono separati, per troppo amore, e il loro legame
sarebbe stato disciolto con la forza
fino all’ottavo congiungimento gemellare tra i due Soli di Benthar e le
tre lune di Orios, la cui terza, rimasta senza uno schermo che la eclissasse,
secondo una leggenda sarebbe implosa, ledendo con i frammenti le superfici
delle altre due, rimastele di fronte. Questo rituale cosmico si chiamava Raio,
ed era considerato un passaggio sacro al nuovo anno, benché accadesse una volta
ogni otto anni. Troppo, pensò Sahe. Ed era troppo anche per il suo Lai.
Così
pensarono di tentare di riavvicinarsi l’un l’altro.
Ma Ehlactron
aveva tra i suoi servi delle ombre, le cui doti telepatiche non erano dissimili
da quelle feeriche.
“Alfieri
Roke, a me! Date la caccia ai due insorti!”
Il motivo a
causa di tanta furia era che le leggi divinatorie non andavano trasgredite,
pena la prostrazione delle proprie terre in uno stato di triste sfortuna. Erano
superstizioni, ma dettavano legge. E Sahe e Lai erano colpevoli. Non era
prevista una punizione precisa, ma Ehlactron era un re tanto magnanimo quanto
spietato ed imprevedibile. Così Sahe fu fatta salire su Hube, perché il castigo
che fu optato dal sovrano consisté nell’impedimento all’imminente apparizione
del Raio, che avrebbe comportato un ulteriore periodo di attesa per i due
amanti di otto lunghi anni. Il Raio stava giungendo, e Gonta aveva deciso di
andare contro il volere di Ehlactron, rischiando di essere destituito e persino
radiato per sempre ed esiliato. Questa decisione fu presa non per tenerezza nei
confronti dei due, ma per vendetta nei confronti di una medesima situazione che
vide protagonisti ventisei anni prima Gonta e la sua cara Tanis. Il Raio
avvenne sotto gli occhi di Sahe, con gran gioioso pianto. Lai tornava suo di
diritto. Ma era sempre lontano, e a ciò nulla si poteva far rimedio che dirigersi
là dove egli aveva fatto addiaccio. Fu sterzato un timone, e direzionato verso
Suuer Endòrj. E proprio in quegli attimi, uscì dall’ombra Uhla, il mostro dei
cieli. Era una sorta di enorme calamaro, ma aveva orride zampe le cui dita
erano formate da grossi vermi dalla bocca vorace. Uhla era qualcosa che non era
mai stato incontrato, era l’incarnazione della paura, era uno degli Esseri Neri
più viscidi, e la cosa più terribile era che aveva doti intellettive capaci di
trasformarlo in macchina mortale. Capiva, Uhla. Osservava, pensava, decideva.
Uno dei vermi che aveva per dito sfiorò un oblò, e la piccola Lumi che lo
intravide pianse a dirotto, e fu colta da crisi di isteria. Quando la madre
Heni prese la figlia in braccio per darle conforto, capì ciò che le stava
succedendo vivendo lo stesso incubo. Scordò l’angoscia di Lumi all’istante, ma
perché la condivise con lei. Quando anche Heni di Hoho gridò, tre dei dodici
occhi di Uhla la scrutarono accuratamente. E anche altri passeggeri si
dovettero accorgere di quel che accadeva. Tre di loro videro il mostro, e
svennero. Altri lo intravidero, e altri vissero nell’agitazione di chi è
all’oscuro di un’orrore grandemente avvolgente, ma che non può non sentirne il
peso.
“Gonta, è
orribile!”, disse Tak.
“E’ Uhla. Ne
vidi un’illustrazione in uno dei tomi dei Manoscritti. Non credevo esistesse
davvero, né potevo immaginare che apparisse davanti a noi. E’ terribile…”
“Cosa
facciamo?”
La domanda
era espressione di un forte bisogno di salvezza da parte di un pericolo che
pressava i petti nella morsa insostenibile di un soffocante gelo del cuore. Era
il timore di perdere se stessi nell’arco di pochi attimi. Era il timore della
morte. Gonta aveva visto Uhla, ed aveva scorto in quella presenza la
materializzazione della sua nemesi. Era come se avesse sempre avuto un nemico
nascosto, ed era perché quando ne vide la raffigurazione sul libro aveva un’età
in cui tutto fa impressione, come se ogni immagine uscisse dai contorni del
falso per invadere la realtà con l’immedesimazione di chi paventa un incontro
col vero soggetto. Gonta voleva sconfiggere Uhla da quando aveva dodici anni.
Adesso era là, ma non aveva idea di che arma dovesse usare per allontanarlo.
Era possibile ucciderlo? Era grande circa sei volte più di Hube. Fu allora che
si suonò il corno fatato. Marigan e Lim lo portarono usando un carrello su cui
lo tenevano, chiuso dentro una tenaglia che lo conteneva con la sua morsa ed
impediva che scivolasse e fosse perduto nel trasporto. Aprirono la serratura
con una piccola chiave, estrassero lo strumento, e lo posero sopra il carrello,
usandolo come supporto. Dietro di loro venne Tahoo Pee, e fu lei a porre le
labbra al bocchino del corno, e a suonare la nota che echeggiò. Gonta riconobbe
il segnale e si mosse per raggiungerne la fonte, sia perché chi lo cercava si
trovava là, sia perché se la nota si fosse protratta a lungo, il suo udito
sensibile ne avrebbe risentito. Il corno, infatti, trasformava ogni flebile
soffio in boato, ed anche Tahoo Pee la Piccola, fata minuta, poteva ruggire
come una tigre con questo stratagemma musicale.
“Ohn! Oh
Ohò Hòn!,” fece quel suono. Ed anche Lim e Marigan vollero suonare a turno,
perché l’amica non perdesse il fiato. Quando Gonta trovò le tre fate dietro
quel rozzo cono incavato, esse si sorpresero e si intimidirono di fronte al
Roke. Uhla fu ucciso dal suono stesso del corno, perché alcune note avevano
vibrazioni tali da ledere alcuni organi interni al mostro, e questo prodigio
stupì tanto tutti, che non ci fu chi non riflettè che per vincere non occorreva
solo la forza, ma anche l’astuzia, e la conoscenza. I brani del suo corpo
voluminoso caddero e si sfracellarono al suolo, e si festeggiò suonando ancora.
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