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QUESTO E’ IL SITO
DI: FILIPPO ARMAIOLI MAGI
NATO A PISA IL 12/3/1977
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2.
Il faro di Orduk
Il desiderio di Rayne era
raggiungere Eleon così Sarebbe ritornata purpurea, e avrebbe sposato un Roke
della stirpe degli Gnomi e avrebbe acquisito un potere con cui sarebbe tornata,
come un tempo, fata di ordine primo. La condizione di Fata Purpurea le doleva,
perché era sì più forte, ma anche più instabile emotivamente, e Rayne come ogni
fata desiderava essere pacifica e conquistare l’ Eyòjim, la pace universale,
per la sua gente. Non chiese aiuto ai viandanti, ma lo supplicava con gli
splendidi occhi illuminati di luce fatata , che solo questi dolcissimi elementi
del Submondo Kadm Serel avevano in dono. Era, si diceva, lo stesso potere che
portava amore ai Grandi Jem, gli Umani, attraverso un innocuo fulmine, il Colpo
di Saetta della Pace. Senza il benessere delle Fate, le anime degli Umani si
sarebbero inaridite, senza più distinguere Grandi Jem e Grandi Jemes, e non
avrebbero più formato colonie. Il re Argant era affascinato dagli Umani. E per
questo voleva difenderli, e per il loro bene difendeva le Fate come ogni altro
Essere Verde.
“Amica fata, vediamo
quanto soffri, e troveremo rimedio.”
“Riportatemi a Eleon! Non
voglio più potere purpureo!”
“Cerca un’ Ombra Spuria,
ma stalle vicino solo per pochi attimi. Uwanish, pronto a neutralizzarla?”
“Vai, piccola fata,
presso quel cespuglio di Bacche Scure. Vi è nascosta un’ombra.”
Rayne perse potere a poco
a poco, tornando al Primo Ordine Feerico. Ora era più piccola, più raggiante, e
più vitale, mentre per essere più bella, pensava Mitreis, avrebbe dovuto
raggiungere il Sesto Ordine e giungere a stadio umano. Le donne Grandi Jem non
erano solo più alte, ma, anche se nessuno del Piccolo popolo ne aveva mai
potuto sapere, erano molto più graziose delle loro compagne. E non c’era
invidia alcuna, perché non era verificata questa differenza, e perché la
statura prominente le rendeva gigantesse prive di grazia. Mitreis e Uwanish
stavano ammirando Rayne con troppa insistenza, e Koran temeva che gli capitasse
l’Ohlò, il Dimenticar di Sé, che li avrebbe portati all’oblio.
“Scusami, Rayne.” , disse
Koran, ed evocò:
“Karkein Miconàm!”,
velando la fata con un
manto scuro che ne celava il viso abbagliante.
“Voi fate siete esseri
meravigliosi. Ma fin troppo fulgenti.”
“Scusami, eroe. E’ la
nostra natura.”
“Non devi scusarti,
piccola. Piuttosto perdona tu i miei compagni troppo indiscreti.”
E Mitreis ed Uwanish si
guardarono avviliti. Questo perché dimostravano debolezza di fronte a Koran, ma
anche perché erano legati a Gerodel e Mendoleen.
“Tradireste le vostre
donne per questo sguardo? Anch’io ne son tentato, ma non è una di noi. Non
scordatelo. Rayne, il manto ti infastidisce?”
“Mi rende debole la
vista, e anche l’aria non la sento più inalarsi libera nelle narici.”
“E’ un velo esile, ma
denso. Te ne libererò al più presto. Ora dobbiamo pensare a raggiungere il
faro.”
Il faro di Orduk era
custodito dal Drago di Luna, un Draconide gigante
che non era ignivomo come i Drak, ma che come i Giacopeti del Submondo Carcade
era cieco. Era una torretta antichissima, e prendeva il nome da un vecchio capo
orco, che nei secoli passati vi aveva posto le sue guardie. C’era il mare, anni
e anni prima, e da esso uscivano i Drak anfibi, che se non fossero stati
colpiti duramente, avrebbero invaso la terraferma e si sarebbero spinti verso i
villaggi. La Terra degli Orchi si estendeva fino al faro, e la sconfitta delle
unità di Orduk segnò la perdita di quelle distese di territorio a vantaggio
delle popolazioni limitrofe.
“Il Drago di Luna non ci
vedrà, ma dovremo coprirci sotto il tetto del faro, che non lascia molto
riparo. E’ perennemente affamato, perché trova solo aria davanti a sé per
mesi.”
“Ho già paura!”, lamentò
Rayne.
“I Drak non mangiano
fate. Devi temere per noi, piuttosto.”
“Ho paura per voi,
allora. Ed anche perché Sironia, la mia Fata Guardiana, ha rischiato di morire
al solo incontrarne uno. Non ci mangiano, dici? Mi conforta, ma sappi che se
guardiamo una loro scaglia per un minuto secca la nostra linfa.”
“Una maledizione!”
“Esatto. Ora andiamo, che
se non raggiungo la mia cara Aleas…”
“Accadrebbe Karké. E
sarebbe male per tutti.”
“E’ un’altra maledizione
che portiamo con noi.”
Occorreva giungere a
Serahan per
Era una landa fredda e
tetra. Ad ogni passo, gli Pteurogimiti minacciavano le caviglie, e si doveva
schiacciarli tutti, perché anche uno solo poteva nuocere molto. Erano
abbastanza grandi, quindi non era impossibile arrestarli, ma era un’impresa,
seppur facile, oltremodo disgustosa. Rayne girava il capo per non assistere, ma
provava fastidio al rumore del calpestìo di quelle bestie, e ne aveva orrore.
Uwanish aveva notato in lei questo fastidio, e cercò di rincuorarla con una
battuta giocosa:
“Immagina che siano
granchi da girare allo spiedo. Mangiate granchi a Eleon?”
“Noi fate mangiamo
ambrosia di miele fiorito e fragole di bosco.
Anche altro, ma non certo
nessun Essere che abbia avuto vita.”
“Ecco perché siete così
pure. Noi invece mangiamo anche i cinghiali di Carcade. E uno intero non ci
sfama tutti e tre dopo una battaglia, vero, amici?”
“Non è tempo di cibo,
Uwanish. E credo che non lo sarà finché non ne troveremo, anche se qui è tutto
deserto.”
Melev era stata scoperta
per un miglio, e non c’era traccia di Bacca Scura né di altro di commestibile.
Rayne bevve da un cactus meleviano, dopo che Mitreis glielo porse affettato e
privato di aculei. La fata fu sorpresa dal gusto dolce, perché era una pianta
viola d’aspetto un po’ ripugnante.
A Serahan i Draconidi
erano fra le dune, e solo Mitreis li scorgeva tra la sabbia. Si muovevano
lenti, come se avessero la certezza di poter sorprendere chiunque in ogni
momento, e coglierli nel pieno della
loro debolezza per divorarli o per trastullarsi sadicamente a schiacciarli come
fossero insetti.
“Attenti, Elho, fra
qualche metro sono mobili.”
“Che dobbiamo fare
Koran?”
“Evoco! Sherì Petiridiòn!”
L’incantesimo fece
apparire un tappeto serico, ma robusto, e Rayne dovette aggiungere:
“Triplice Evoken!”,
per farne apparire altri
due e consentire a tutti il tragitto. Gli eroi non sapevano che anche le fate
potessero evocare, e ciò fece crescere molto la stima verso quest’amica, finora
ritenuta solo una fragile Ehlo inerme. E questo confermava che le fate erano
gli Esseri più misteriosi dei Cinque Mondi.
“Il faro!”, notò Rayne.
“La torre Orduk,
finalmente!”, aggiunse Mitreis. Uwanish stava per cadere, e sarebbe finito sul
dorso di un Draconide assopito, se Koran non l’avesse sorretto. I Draconidi
erano un pavimento pulsante e viscido, ma i tre erano scesi dai tappeti
evocati. Rayne volava con la monotona cadenza d’ali d’una libellula, tremante
di paura, perché Serahan di Melev era certo la terra più ostile che avesse mai
visto. La sua patria era rigogliosa e splendente, e lei credeva che ogni posto
fosse come la sua lontana Darkonnen di Aleas Eleon. Giunti sotto al faro, il
Drago di Luna non tardò a mostrare la sua perfida ombra minacciosa. Aveva un
corno fra le narici, attraverso cui sentiva il moto dei viventi. Ed era, unico
Essere fra tutti, un Ombra della Notte, ossia un Essere Non Più Vivente che si
muoveva anche dopo il trapasso, perché il suo moto non aveva trovato fine dopo
la vita. Ciò lo rendeva per molti più terrificante delle Arpie, ma in realtà
Koran non faticò molto, con un colpo di spada ben assestato, a porre fine alla
sua funerea esistenza. Giunto alla cima di Orduk, con un tappeto serico
volante, indossato stavolta come un mantello, incrinò quel lugubre Draconide
con un fendente aereo che lo squarciò, facendo esplodere raggi bluastri e
freddi. Avvertì gli altri, prima, che
erano rimasti a guardarlo agire.
“Tenete gli occhi chiusi
là sotto! Anche tu, Rayne!”
I raggi blu del Drago di
Luna, erano lampi morti ma lucenti, e potevano render ciechi come lo era stato
quel mostro quando ancora volteggiava sopra loro.
“Evviva!”, esclamò Rayne.
E non per l’esito felice di questo scontro coraggioso, ma perché, su consiglio
di Mitreis, aveva raggiunto, volando sotto le ascelle dell’ignaro eroe Elho, la
cima della Torre Orduk, e aveva scorto ed afferrato, mentre Koran si batteva,
Quando videro Trejo e
Hovetrix, coi volti lisi dal lungo cammino, Rayne corse a salvarli dalla disidratazione.
Con
“Grazie! Anche voi qui
per gli Haranès? Argant ci ha spediti per aiutare una fata…”
“Sono io, Hovetrix!”
“Piccola Rayne! Sei tu
che cerco?”
“Se tu sei proprio
Hovetrix da Clamidia di Orios.”
“E Trejo è il mio fido
alleato!”
“Non lo conosco.”
“Ma lui conosce te.
Voleva sposare la tua Fata Guardiana, ma tu le impedisti di passare all’Ordine
che le avrebbe conferito una statura consimile alla sua, ed una possibile
unione.”
“Avrei acconsentito, se
Sironia lo amava, ma non era così.”
“Il mio amico dice che
forse, col tempo lo avrebbe accettato.”
“Forse col tempo un’Arpia
diventa una grande rosa nel cielo, quando trasmuta, ma dentro Trejo la mia aura
simbionte non vedeva che il vuoto esoscheletro di un Essere Nero.”
“Commento assai acido.”
“Sironia ripeterebbe lo
stesso, ma è a Darkonnen, ed ha per marito un buon essere fatato della nostra
stirpe.”
“Siete elfici, voi fate,
come gli Gnomi di Rok?”
“Volete sapere molto di
noi, ma non ci conoscerete senza venire nel nostro Submondo, e come Principessa
di Aleas Eleon…”
“Non ancora regina…”
“Il mio sposo sarebbe
dovuto essere Olnac di Orios, ma ha scelto una Ehlo prima che potessi adattare
le nostre stature… E’ tutta la vita che cresco e che regredisco, che acquisisco
poteri, che ne perdo inseguendo Ombre Spurie. Vivrò da sola nel mio Regno, dove
posso governare anche senza unirmi in coppia.”
“Ciò ci rattrista. A
guardarvi non siamo immuni all’oblio dell’Ohlò.”
“Evoken Lohai!”, esplose la fata,
con una furia che non le si sarebbe ascritta.
E provocò davvero uno
spasmo in quei due viandanti che erano là per lei. Aveva visto nel volto di
Trejo quel gallico che aveva tentato di sedurre la sua Guardiana. Le Fate Guardiane
sono ancelle affettuose di chi le accompagna, e forniscono quell’aura che le
fate non hanno, a differenza degli Elho, dall’accumulo di esperienze eroiche di
battaglia e che consente altro potere. In compenso, col supporto delle
Guardiane, possono migliorare il proprio Ordine con molta meno fatica. Koran
avrebbe voluto impugnare Heknaton, ma constatò che era chiamato a proteggere
Rayne, che i due incauti eroi di Orios dovevano averla provocata in qualche
modo, e che in fondo erano solo storditi. E poi, c’era un ponte invaso da
aracnidi immensi, ed era l’unico per passare da Melev a Carcade. Gli Haranes
erano ancora molti, nonostante la loro caccia li decimasse, per compiere il
teletrasporto Sarar Haranei. Re Argant voleva barattare l’aiuto dei suoi fanti
con la rivelazione di un potere elfico che avrebbe fatto compiere Sarar senza
l’uso di corpi morti di aracnidi. Ne erano rimasti solo trenta di questi
mostri. Ma una fata non svelava segreti se non era costretta, e la nostalgia
del suo Submondo era diventata né più né meno che il pretesto per un vero e
proprio ricatto in cui Rayne avrebbe perso soltanto il mistero di uno dei tanti
segreti feerici. Il fatto era però che tutto il Regno delle Fate viveva di
segreti, e la condivisione di sapere non era certo la cosa più desiderata dalla
Principessa. Anche perché nessun altro Submondo aveva mai aiutato il loro a
scoprire alcunché, e ad Eleon si era fatto presto a chiudere ogni rapporto con
altre stirpi. La rabbia sul volto di lei era stata tanta che il lampo dell’Ohlò
evocato aveva quasi fatto temere a Koran l’inizio di un Karké. Un simile
piccolo Essere, così gentile e fragile, poteva in effetti provocare, ed anche
con l’evocazione, perfino, il più grande cataclisma universale. Koran a questa
considerazione, dovette vigilare maggiormente sull’umore di Rayne. Il suo amore
così forte per Dulian era divenuto così leggendario che tutti ormai sapevano
che era l’unico eroe a non temere l’Ohlò Fayrein anche se avesse guardato la
fata durante un bagno presso un’oasi. Ed era cosa nota che una fata senza vesti
provocava Shalazà,
un potere tanto più forte di Ohlò da
mutare vivente in pietra.
“Amo Dulian, ma potrei
evitare che questa piccola fata tenti di sedurmi?”
“Leggo i tuoi pensieri,
eroe. Ma mi lavo con le mie stesse lacrime, come si usa presso il nostro
popolo, e lo Shalazà è un potere che noi stesse fate non crediamo di possedere
più.”
“Potreste evocarlo?”
“Questo sì, ma sappiamo
che ne verremmo annientate. E il bagno di cui parli può avvenire solo presso
un’oasi di Kadm Serel. Quindi puoi stare tranquillo. I tuoi amici si
ridesteranno tra poche ore indenni.”
“Hai ancora bisogno del
mio aiuto.”
“E tu delle sfere e del
loro potere massimo.”
La notte stava scendendo
con la consueta sparizione del sole dietro nubi che provenivano fin da
Clamidia. Gli Haranes apparvero da una coltre
di nero fango. Uwanish sfoderò Kalamìda, e Mitreis la sua Zoromidh.
“Non sterminate queste
creature totalmente, Cavalieri del Nord. Abbiamo da compiere Sarar Haranei un’ultima
volta. Giunta ad Eleon, vi invierò telepaticamente il potere di compiere Sarar Ethor,
e sarete viaggiatori inframondo.
“Inviare un pensiero già
ti costa energia. Ma condividere un potere, Rayne, ti prostrerebbe fino allo
spasmo.”, disse Mitreis.
“Le Guardiane di Aleas mi
sosterranno con le loro aure idrogeniche.”
Sarebbe svenuta, ma
l’avrebbero ridestata incolume. Il dialogo tra il Cavaliere Mitreis e la verde
amica poté aver luogo perché gli altri eroi erano passati all’attacco e avevano
colpito venti Haranes, mentre una decina di essi era fuggita retrocedendo il
ponte Jahol.
“Haran esen Nesiù !”, evocò Koran.
Ma solo perché una fata
era con lui. Perché solo Rayne poté dire Nesiù,
e nessun altro Essere pronunciando quest’evocazione avrebbe prodotto
l’incantesimo. Un Haran colpito da questo incanto si fece cadavere, ma Mitreis
ne mutò l’orrifica sembianza con quella di una tenda, per rendere alla
sensibile amica il passaggio meno traumatico. Si accorse di questa necessità
vedendole tremare vistosamente le ali viola. Tre Haranes furono lasciati
vivere, nell’eventualità che Rayne non avesse potuto adempire all’impegno di insegnare a distanza gli Elho il Sarar
Ethor.
Affrontare un branco di
Rocken in volo non era affatto facile impresa. Specialmente quando gli stormi
rapaci erano molti e in preda alla furia. Koran non perse tempo a congegnare
piani d’attacco contro volatili immensi e muniti di corna aculee su tutto il
manto epidermico. Melev era certo il Submondo più inospitale, e l’aria di
Saheran era tanto irrespirabile che Rayne aveva più volte rischiato di
soffocare. Le narici delle fate erano esili e fornite di microscopiche
cartilagini, consimili ai fanoni delle megattere nella loro funzione di filtro.
Una profetica leggenda vedeva in loro le detentrici di una futura speranza,
qualora l’atmosfera di uno dei Cinque Mondi si fosse inquinata oltre limite. E
avrebbero compiuto Sarar per salvare i popoli in difficoltà, perché adoravano
la loro patria come genitrice, ma non resistevano a vivere prive della certezza
che anche fuori da Eleon e Kadm Serel la vita svolgesse il suo corso sicuro. Le
aquile desideravano aggredire proprio l’innocente Rayne, che riuscì a ripararsi
dietro le spalle di Uwanish. Taimi apparve con le stesse intenzioni
distruttive. Indossava una cintura fornita di ogni possibile arma da taglio,
tanto che il ferro batteva un rintronante clangore, che turbava le aquile
rendendole inquiete. Cominciarono ad affrontarsi l’un l’altra, come se non
fossero della stessa specie. Koran ne intravide presagio nefasto, ma doveva
soltanto attendere il momento opportuno per sfoderare Heknaton, e ledere
quell’energumeno altissimo e micidiale, prima che dalla cintura scegliesse come
colpire lui e la compagnia. Quando pareva che volesse compiere un gesto simile,
afferrò invece d’improvviso la fata, ingabbiandola fra palma e dita tenendo
pollice e indice non occlusi per permetterle il respiro. Rayne sapeva che un
simile essere non sarebbe stato soggiogato dall’Ohlò, non avendo nessuna Ehlo
nel proprio patriarcale clan. Che la fata fosse una preda per il suo sopito
appetito, era da escludere. Un Gigante delle Nevi nasceva dalla frizione tra la
neve morenica e le grandi rocce di Orios. E il Tartaro era l’ultimo esemplare
dopo che non era rimasta più acqua, e che
Tornare a Carcade era un
percorso obbligato, dopo tante lotte. Questo perché Melev aveva sopra sé una
cappa di gas nero, Chereb, che impediva l’effetto delle evocazioni.
“Rayne, ancora una volta
dobbiamo soccorrerti, e non siamo medici esperti.”
“Ho solo bisogno di
respiro, ma quel nero mi asfissia. Eppure sembra così lontano…”
“Anche quest’aria è
impregnata di Chereb, pure dove sembra sana.”
“Anche per questo motivo,
dobbiamo affrettarci. Rayne, cerca di essere forte.”
Koran avvertì che se le
cartilagini respiratorie della loro piccola amica avessero assorbito troppo
gas, non sarebbero riuscite più a filtrare. Chiese a Mitreis, che dopo Re
Argant era l’Elho che più aveva trascorso il tempo sopra le antiche carte, se i
Manoscritti insegnassero come aiutarla.
“Nessun rimedio
conosciuto, purtroppo, si trova in essi. E’ tutta la mia vita che studio questi
esseri, e che sogno di visitare Aleas Eleon.”
“Grazie, Ehlo. Sapevamo
che il vostro popolo ci fosse amico, ma non credevo che ci fosse tra voi chi
desiderasse incontrarci. Sono stupita di tanta ammirazione.”
“Non sono lusinghe prive
di merito. Voi Fate siete creature ricche di mistero.”
“E piene di segreti
rimarremo, Mitreis, perché son molto poche le cose di noi che ci è permesso
rivelare. E, mi dispiace rovinare il tuo sogno, non vedrai mai Eleon, ma forse,
se gli Elfi vorranno ospitarvi, avrete accesso ad Aleas.”
“Perché questo?”
“Perché il nostro Regno
custodisce
“Una fine che scongiurerò
di provocarvi. Non credevo che foste così legate al vostro Regno.”
“E’
Questa legge di Eleon era
una norma naturale poiché il monolito, che sfolgorava continuamente energia
vitale, era loro simbionte. I Roke, al contrario, abbandonavano spesso Rok, la
loro terra, perché non era che una distesa brulla ed arida. Portavano questo
nome perché avevano il potere di Rok, che faceva percorrere fra le loro mani
elettricità crescente, che si sviluppava in poderose saette. Arrivarono da Rok
sessanta unità Roke. E giunsero con Dulian, che aveva abbandonato il geloso
padre Argant per un’ avventura che egli non le avrebbe mai permesso, ma che per
lei, la donna di Koran, era l’unico modo per condividere con certezza con
l’amato gli istanti più intensi della vita di lui. Koran fu stupito di come,
resa più rude dagli esercizi fisici con cui si era allenata tra le Elfe di
Aleas, risultasse più androgina, ma pur sempre suadente. Non era in vena per
smancerie, comunque, né Koran ne richiedeva. Il loro amore era abituato alla
difficoltà di profondersi in gesti affettuosi, proprio per la lunga assenza di
Koran da Orios. Ora con i Fulminati al seguito, sarebbe stato più facile
affrontare l’Antro delle Arpie. Questa tana insidiosa , era stata un palazzo
regale, in passato, quando Zaila era ancora un’ Elfa che sognava di mutar forma
in fata. Per questo desiderio, suo padre Menòr aveva contattato la regina
Fejorgil di Serel, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un rifiuto
risoluto a collaborare alla mutazione di Zaila, e un’emicrania che terminò dopo
due giorni. Vi avevano abitato Haranès per secoli, e le loro tele spesse e
maleodoranti avevano provocato, con le loro esalazioni mefitiche, la mutazione
di un gruppo di Silfidi perse nella spelonca in Arpie volanti. Il centauro
Dodonte e un gruppo di Ippogrifi ne ebbero pietà, e non poterono che impedire
la mutazione in ragni con l’intervento magico della Strega Treia, un’Arpia che
aiutata da Mitreis riuscì a divenire Grande Jem, ma non fu accolta dagli umani,
che impauriti dal suo arrivo, non vollero accoglierla. Treia viveva in
quell’antro, perché aveva ridotto la sua altezza in Nano, e non aveva trovato
che quel rifugio. Conviveva fra le Arpie, ma senza aver con loro alcun dialogo.
Bastava che le lasciassero un piccolo vano di pietra sotto cui riposare alla
sera. Ed aspettava che nessuna di esse fosse rimasta fuori, perché se
l’avessero scorta, l’avrebbero certo ghermita o scossa con violenza. Erano
creature mostruose e prive di pietà. Quando Treia riconobbe Mitreis, lo accolse
con la speranza di una possibile salvezza, perché era stanca e abbrutita da
tanta solitudine fra quei mostri alati.
Dulian ebbe a cuore la
sua vicenda, che Mitreis le sussurrò in poche parole, e Rayne, sensibile ad
ogni sciagura che colpisse un Essere dei Cinque Mondi di buone intenzioni, la
confortò promettendole il sostegno di Re Alden e della Regina Fejorgil. Treia
pianse, ed ancora tremava per quegli anni di stenti e di paure.
“Ora, Treia, sei tra chi
ti accetta.”
“Eroi, le Arpie sono
aumentate nel tempo, e non mi stupirei che uscissero in volo tutte fra pochi
istanti! Loro annusano la linfa delle fate fin sotto la loro sottile
epidermide, e Rayne è una preda troppo allettante per loro!”
“Mi avvertono certamente,
sento la loro minaccia che incombe!”, disse la fata, che tremava tanto che
sarebbe certo svenuta, senza il conforto della mano di Uwanish, che le si posò
delicata su una spalla per sostenerla nel suo vibrante timore. Ma non resse, la
piccola, al primo uscire dal buio nero dell’antro di due occhi grandi come
scudi di Orios, le cui pupille brillavano di una malvagità totale e cieca.
“Arpie, Koran! Sono
infinite!”
“Sfoderate le spade,
eroi. La caccia è giunta a termine, e inizia la battaglia.”
“Sono Uwanish di Orios, e
porto con me l’elsa fatata di Kalamìda! Evoco Theraton!”
“Warra! Warra! Sono Koran
di Orios, e sfodero Heknaton l’Invincibile! Evoco Petiridion!”
Le evocazioni servivano a
destare il potere occulto della spada eroica, custodito in una gemma
incastonata nell’elsa.
“Sono Dulian di Re Argant
di Orios, sfodero il pugnale di Kadm! Evoco Jihmei!”
“Dulian, anche tu
guerriera in questa lotta! Non posso non temere per te, ma ammiro
la tua forza.”
Koran si accorse solo
allora, infatti, fin dove giungeva il coraggio della sua Dulian. Confidava
nell’addestramento che Uwanish e Mitreis le avevano fornito con la loro
esperienza durante quei giorni, e sapeva della protezione che le giungeva fin
dalla Pietra Azzurra di Eleon. Era la prima volta che aveva come alleata una
donna.
“Sono Rayne, fata di
Eleon! Evoco Fata Guardiana! Evoco Ohlò Shalazai!”
E Sironia giunse,
attraversando il monolito azzurro, sotto forma di aura protettiva, potenziando
Rayne con una corazza vivente, proteggendone la cute fin troppo delicata.
E calzò i guanti di
Giacopete, che Uwanish aveva tratto dal ventre di un Drago di Fuoco
di Carcade e che le
garantivano una protezione completa.
“Fata, conosciamo la tua
delicata corporatura. Non sei costretta a…”
“Warra! Warra, Koran! Tu
stesso mi chiami a questo, e non conosci noi fate così tanto!”
“Allora Warra, amica
dalle ali lucenti!”
“Warra!”
“Sono Gione di Rok! Evoco
Electron Roké!”
Koran si ricordò allora
del valore di quella fanteria che dietro di sé prometteva un aiuto certo valido
e potente. Evocando, Gione fece attraversare nelle palme dei suoi fanti una
saetta dalla crescente
espansione che unì tutti in un sol grido, che fu:
“Warra! Siamo gli Gnomi
dei Fulmini di Rok, terra di Re Ehlactron!”
“Sono Karaki Saron di
Carcade, Re Guerriero! Sfodero
“Oltre l’Antro delle
Arpie c’è un cunicolo, che ci porterà al Castello
Nero! Warra, ora!”, gridò Mitreis.
Rayne fece un incantesimo
a Dulian che fece impallidire Koran, perché mutò
“Perché, Dulian?”
“Mi ha punto una vespa
meleviana. Sarei morta, se non se ne fosse accorta Rayne e se non mi avesse
mutato in questa forma. Cercherò di tornare come prima, ma ora Warra, mio amato
Koran! E non guardarmi!”
Una Suvajim non era una
creatura sgradevole, ed i tratti del volto modificati con l’incanto non erano
poi così bizzarri, fatta eccezione per un’alterazione degli zigomi piuttosto
insolita, che le stirava la pelle del viso e un poco la deformava rispetto a
come la si conosceva. Ma era tempo di Warra. Tutte le spade magiche fendettero
le Arpie con facilità, ma si doveva evitare il contatto col loro sangue, che
era eccessivamente caldo e poteva ustionarli. Rayne temette per uno schizzo
dovuto a un colpo di Dulian, che lanciava il pugnale fatato con una fune che,
ritirata dopo il lancio, tornava nelle sue mani.
“Roke all’attacco, per
l’onore di Rok!”, spronò Gione i suoi.
E gli gnomi volanti si
presero l’un l’altro la mano, alzandola al cielo e urlando:
“Iridion Roké! Warra!”, che era un grido di omaggio alla patria
lontana, ed insieme un richiamo agli Ippogrifi, che li aiutavano a orientare la
direzione delle saette interagendo con la loro vista mirabile. Tre fulmini
disgregarono venti Arpie, ma uno stormo di aquile Rocken, provenienti dal
nulla, ghermirono quasi mezzo esercito Roke, facendo impazzire d’ira Gione, che
non sapeva se avrebbe salvato gli amici o se li avesse perduti per sempre. Il
centauro Dodonte, che si era gettato, invulnerabile, sui getti di sangue dei
nemici per evitare il più possibile che contagiasse col suo calore i fragili
combattenti. Fu ringraziato da tutti, e da tutti lodato come il vero campione,
nonostante non avesse colpito che un solo esemplare di Arpia. Fu una battaglia
più lunga del previsto, funestata dal rapimento di tanti gnomi Roke che il
comandante Gione non poté che temere per il futuro della sua stirpe. Cosa
avrebbe riferito al Re Elhactron al ritorno a Rok? Sarebbe stato punito, e
relegato al rango di soldato semplice, o sarebbe stato compreso dal sovrano che
la sciagura era stata improvvisa e inevitabile? In fondo, Gione era in prima linea,
e gli altri Gnomi di Rok nelle retrovie. Treia pianse felice alla distruzione
di quel popolo di mostri che le aveva reso ogni giorno un inferno e ogni notte
un incubo, e ringraziò Koran e Dodonte fra tutti per un impegno così eroico.
“Tempo di Warra finito.
Abbiamo vinto, eroi! Per le nostre terre lontane! Ohlailò! Ohlailò!”
E fu risposto:
“Ohlailò! Hailò!”, che era un canto di pace.
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