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QUESTO E’ IL SITO DI:   FILIPPO ARMAIOLI MAGI

NATO A PISA IL 12/3/1977

LA MIA E-MAIL E’: filippo12377@email.it

 

 

2.

Il faro di Orduk

 

Il desiderio di Rayne era raggiungere Eleon così Sarebbe ritornata purpurea, e avrebbe sposato un Roke della stirpe degli Gnomi e avrebbe acquisito un potere con cui sarebbe tornata, come un tempo, fata di ordine primo. La condizione di Fata Purpurea le doleva, perché era sì più forte, ma anche più instabile emotivamente, e Rayne come ogni fata desiderava essere pacifica e conquistare l’ Eyòjim, la pace universale, per la sua gente. Non chiese aiuto ai viandanti, ma lo supplicava con gli splendidi occhi illuminati di luce fatata , che solo questi dolcissimi elementi del Submondo Kadm Serel avevano in dono. Era, si diceva, lo stesso potere che portava amore ai Grandi Jem, gli Umani, attraverso un innocuo fulmine, il Colpo di Saetta della Pace. Senza il benessere delle Fate, le anime degli Umani si sarebbero inaridite, senza più distinguere Grandi Jem e Grandi Jemes, e non avrebbero più formato colonie. Il re Argant era affascinato dagli Umani. E per questo voleva difenderli, e per il loro bene difendeva le Fate come ogni altro Essere Verde.

“Amica fata, vediamo quanto soffri, e troveremo rimedio.”

“Riportatemi a Eleon! Non voglio più potere purpureo!”

“Cerca un’ Ombra Spuria, ma stalle vicino solo per pochi attimi. Uwanish, pronto a neutralizzarla?”

“Vai, piccola fata, presso quel cespuglio di Bacche Scure. Vi è nascosta un’ombra.”

Rayne perse potere a poco a poco, tornando al Primo Ordine Feerico. Ora era più piccola, più raggiante, e più vitale, mentre per essere più bella, pensava Mitreis, avrebbe dovuto raggiungere il Sesto Ordine e giungere a stadio umano. Le donne Grandi Jem non erano solo più alte, ma, anche se nessuno del Piccolo popolo ne aveva mai potuto sapere, erano molto più graziose delle loro compagne. E non c’era invidia alcuna, perché non era verificata questa differenza, e perché la statura prominente le rendeva gigantesse prive di grazia. Mitreis e Uwanish stavano ammirando Rayne con troppa insistenza, e Koran temeva che gli capitasse l’Ohlò, il Dimenticar di Sé, che li avrebbe portati all’oblio.

“Scusami, Rayne.” , disse Koran, ed evocò:

Karkein Miconàm!”,

velando la fata con un manto scuro che ne celava il viso abbagliante.

“Voi fate siete esseri meravigliosi. Ma fin troppo fulgenti.”

“Scusami, eroe. E’ la nostra natura.”

“Non devi scusarti, piccola. Piuttosto perdona tu i miei compagni troppo indiscreti.”

E Mitreis ed Uwanish si guardarono avviliti. Questo perché dimostravano debolezza di fronte a Koran, ma anche perché erano legati a Gerodel e Mendoleen.

“Tradireste le vostre donne per questo sguardo? Anch’io ne son tentato, ma non è una di noi. Non scordatelo. Rayne, il manto ti infastidisce?”

“Mi rende debole la vista, e anche l’aria non la sento più inalarsi libera nelle narici.”

“E’ un velo esile, ma denso. Te ne libererò al più presto. Ora dobbiamo pensare a raggiungere il faro.”

Il faro di Orduk era custodito dal Drago di Luna, un Draconide gigante che non era ignivomo come i Drak, ma che come i Giacopeti del Submondo Carcade era cieco. Era una torretta antichissima, e prendeva il nome da un vecchio capo orco, che nei secoli passati vi aveva posto le sue guardie. C’era il mare, anni e anni prima, e da esso uscivano i Drak anfibi, che se non fossero stati colpiti duramente, avrebbero invaso la terraferma e si sarebbero spinti verso i villaggi. La Terra degli Orchi si estendeva fino al faro, e la sconfitta delle unità di Orduk segnò la perdita di quelle distese di territorio a vantaggio delle popolazioni limitrofe.

“Il Drago di Luna non ci vedrà, ma dovremo coprirci sotto il tetto del faro, che non lascia molto riparo. E’ perennemente affamato, perché trova solo aria davanti a sé per mesi.”

“Ho già paura!”, lamentò Rayne.

“I Drak non mangiano fate. Devi temere per noi, piuttosto.”

“Ho paura per voi, allora. Ed anche perché Sironia, la mia Fata Guardiana, ha rischiato di morire al solo incontrarne uno. Non ci mangiano, dici? Mi conforta, ma sappi che se guardiamo una loro scaglia per un minuto secca la nostra linfa.”

“Una maledizione!”

“Esatto. Ora andiamo, che se non raggiungo la mia cara Aleas…”

“Accadrebbe Karké. E sarebbe male per tutti.”

“E’ un’altra maledizione che portiamo con noi.”

Occorreva giungere a Serahan per la Sfera dell’Acqua. Ma prima di tutto bisognava scongiurare il Karké raggiungendo il Drago di Luna. Il Ponte Feron crollò. Adelan subì la stessa sorte, e solo il Passo Cangiante consentì loro di raggiungere il Submondo Melev.

 

Era una landa fredda e tetra. Ad ogni passo, gli Pteurogimiti minacciavano le caviglie, e si doveva schiacciarli tutti, perché anche uno solo poteva nuocere molto. Erano abbastanza grandi, quindi non era impossibile arrestarli, ma era un’impresa, seppur facile, oltremodo disgustosa. Rayne girava il capo per non assistere, ma provava fastidio al rumore del calpestìo di quelle bestie, e ne aveva orrore. Uwanish aveva notato in lei questo fastidio, e cercò di rincuorarla con una battuta giocosa:

“Immagina che siano granchi da girare allo spiedo. Mangiate granchi a Eleon?”

“Noi fate mangiamo ambrosia di miele fiorito e fragole di bosco.

Anche altro, ma non certo nessun Essere che abbia avuto vita.”

“Ecco perché siete così pure. Noi invece mangiamo anche i cinghiali di Carcade. E uno intero non ci sfama tutti e tre dopo una battaglia, vero, amici?”

“Non è tempo di cibo, Uwanish. E credo che non lo sarà finché non ne troveremo, anche se qui è tutto deserto.”

Melev era stata scoperta per un miglio, e non c’era traccia di Bacca Scura né di altro di commestibile. Rayne bevve da un cactus meleviano, dopo che Mitreis glielo porse affettato e privato di aculei. La fata fu sorpresa dal gusto dolce, perché era una pianta viola d’aspetto un po’ ripugnante.

 

A Serahan i Draconidi erano fra le dune, e solo Mitreis li scorgeva tra la sabbia. Si muovevano lenti, come se avessero la certezza di poter sorprendere chiunque in ogni momento, e  coglierli nel pieno della loro debolezza per divorarli o per trastullarsi sadicamente a schiacciarli come fossero insetti.

“Attenti, Elho, fra qualche metro sono mobili.”

“Che dobbiamo fare Koran?”

“Evoco! Sherì Petiridiòn!”

L’incantesimo fece apparire un tappeto serico, ma robusto, e Rayne dovette aggiungere:

Triplice Evoken!”,

per farne apparire altri due e consentire a tutti il tragitto. Gli eroi non sapevano che anche le fate potessero evocare, e ciò fece crescere molto la stima verso quest’amica, finora ritenuta solo una fragile Ehlo inerme. E questo confermava che le fate erano gli Esseri più misteriosi dei Cinque Mondi.

“Il faro!”, notò Rayne.

“La torre Orduk, finalmente!”, aggiunse Mitreis. Uwanish stava per cadere, e sarebbe finito sul dorso di un Draconide assopito, se Koran non l’avesse sorretto. I Draconidi erano un pavimento pulsante e viscido, ma i tre erano scesi dai tappeti evocati. Rayne volava con la monotona cadenza d’ali d’una libellula, tremante di paura, perché Serahan di Melev era certo la terra più ostile che avesse mai visto. La sua patria era rigogliosa e splendente, e lei credeva che ogni posto fosse come la sua lontana Darkonnen di Aleas Eleon. Giunti sotto al faro, il Drago di Luna non tardò a mostrare la sua perfida ombra minacciosa. Aveva un corno fra le narici, attraverso cui sentiva il moto dei viventi. Ed era, unico Essere fra tutti, un Ombra della Notte, ossia un Essere Non Più Vivente che si muoveva anche dopo il trapasso, perché il suo moto non aveva trovato fine dopo la vita. Ciò lo rendeva per molti più terrificante delle Arpie, ma in realtà Koran non faticò molto, con un colpo di spada ben assestato, a porre fine alla sua funerea esistenza. Giunto alla cima di Orduk, con un tappeto serico volante, indossato stavolta come un mantello, incrinò quel lugubre Draconide con un fendente aereo che lo squarciò, facendo esplodere raggi bluastri e freddi.  Avvertì gli altri, prima, che erano rimasti a guardarlo agire.

“Tenete gli occhi chiusi là sotto! Anche tu, Rayne!”

I raggi blu del Drago di Luna, erano lampi morti ma lucenti, e potevano render ciechi come lo era stato quel mostro quando ancora volteggiava sopra loro.

“Evviva!”, esclamò Rayne. E non per l’esito felice di questo scontro coraggioso, ma perché, su consiglio di Mitreis, aveva raggiunto, volando sotto le ascelle dell’ignaro eroe Elho, la cima della Torre Orduk, e aveva scorto ed afferrato, mentre Koran si batteva, la Sfera Omilay. Ne usò subito il potere elementare, che era quello di fornire acqua, e dissetò chi gliene chiese. Ma non usufruì del potere massimo, che l’avrebbe resa Fata di ordine superiore. Sarebbe stata curiosa di giungere al Quarto Ordine Feerico, ed avere ali più grandi, un corpo più sinuoso, ed una statura maggiore. Ma aveva deciso di regredire. Per riscoprire com’era stata anni prima, quando viveva con meno crucci. Ma anche perché senza quel ritorno allo stadio primordiale non avrebbe potuto Sarar, trasportandosi verso Eleon. Sapeva che sarebbe dovuta entrare dentro la carcassa di un Haran, ma non aveva avuto ancora l’occasione di chiedere agli eroi di aiutarla in questa orrida pratica magica. Se abitavano ancora a Melev i Grandi Ragni, non era certo, perché non se ne vedeva traccia.

 

Quando videro Trejo e Hovetrix, coi volti lisi dal lungo cammino, Rayne corse a salvarli dalla disidratazione. Con la Sfera, non occorreva pronunciare alcuna evocazione, ma soltanto inserire le intere braccia nel corpo fluido ed iridescente di Omilay, e subito parti di Oxe e di Ydro si fecero acqua pura. I due nani di Clamidia, ne gradirono dei sorsi. Il carattere magico di Omilay non inficiava la qualità del liquido, anzi, lo dotava di maggior levità e purezza.

“Grazie! Anche voi qui per gli Haranès? Argant ci ha spediti per aiutare una fata…”

“Sono io, Hovetrix!”

“Piccola Rayne! Sei tu che cerco?”

“Se tu sei proprio Hovetrix da Clamidia di Orios.”

“E Trejo è il mio fido alleato!”

“Non lo conosco.”

“Ma lui conosce te. Voleva sposare la tua Fata Guardiana, ma tu le impedisti di passare all’Ordine che le avrebbe conferito una statura consimile alla sua, ed una possibile unione.”

“Avrei acconsentito, se Sironia lo amava, ma non era così.”

“Il mio amico dice che forse, col tempo lo avrebbe accettato.”

“Forse col tempo un’Arpia diventa una grande rosa nel cielo, quando trasmuta, ma dentro Trejo la mia aura simbionte non vedeva che il vuoto esoscheletro di un Essere Nero.”

“Commento assai acido.”

“Sironia ripeterebbe lo stesso, ma è a Darkonnen, ed ha per marito un buon essere fatato della nostra stirpe.”

“Siete elfici, voi fate, come gli Gnomi di Rok?”

“Volete sapere molto di noi, ma non ci conoscerete senza venire nel nostro Submondo, e come Principessa di Aleas Eleon…”

“Non ancora regina…”

“Il mio sposo sarebbe dovuto essere Olnac di Orios, ma ha scelto una Ehlo prima che potessi adattare le nostre stature… E’ tutta la vita che cresco e che regredisco, che acquisisco poteri, che ne perdo inseguendo Ombre Spurie. Vivrò da sola nel mio Regno, dove posso governare anche senza unirmi in coppia.”

“Ciò ci rattrista. A guardarvi non siamo immuni all’oblio dell’Ohlò.”

Evoken Lohai!”, esplose la fata, con una furia che non le si sarebbe ascritta.

E provocò davvero uno spasmo in quei due viandanti che erano là per lei. Aveva visto nel volto di Trejo quel gallico che aveva tentato di sedurre la sua Guardiana. Le Fate Guardiane sono ancelle affettuose di chi le accompagna, e forniscono quell’aura che le fate non hanno, a differenza degli Elho, dall’accumulo di esperienze eroiche di battaglia e che consente altro potere. In compenso, col supporto delle Guardiane, possono migliorare il proprio Ordine con molta meno fatica. Koran avrebbe voluto impugnare Heknaton, ma constatò che era chiamato a proteggere Rayne, che i due incauti eroi di Orios dovevano averla provocata in qualche modo, e che in fondo erano solo storditi. E poi, c’era un ponte invaso da aracnidi immensi, ed era l’unico per passare da Melev a Carcade. Gli Haranes erano ancora molti, nonostante la loro caccia li decimasse, per compiere il teletrasporto Sarar Haranei. Re Argant voleva barattare l’aiuto dei suoi fanti con la rivelazione di un potere elfico che avrebbe fatto compiere Sarar senza l’uso di corpi morti di aracnidi. Ne erano rimasti solo trenta di questi mostri. Ma una fata non svelava segreti se non era costretta, e la nostalgia del suo Submondo era diventata né più né meno che il pretesto per un vero e proprio ricatto in cui Rayne avrebbe perso soltanto il mistero di uno dei tanti segreti feerici. Il fatto era però che tutto il Regno delle Fate viveva di segreti, e la condivisione di sapere non era certo la cosa più desiderata dalla Principessa. Anche perché nessun altro Submondo aveva mai aiutato il loro a scoprire alcunché, e ad Eleon si era fatto presto a chiudere ogni rapporto con altre stirpi. La rabbia sul volto di lei era stata tanta che il lampo dell’Ohlò evocato aveva quasi fatto temere a Koran l’inizio di un Karké. Un simile piccolo Essere, così gentile e fragile, poteva in effetti provocare, ed anche con l’evocazione, perfino, il più grande cataclisma universale. Koran a questa considerazione, dovette vigilare maggiormente sull’umore di Rayne. Il suo amore così forte per Dulian era divenuto così leggendario che tutti ormai sapevano che era l’unico eroe a non temere l’Ohlò Fayrein anche se avesse guardato la fata durante un bagno presso un’oasi. Ed era cosa nota che una fata senza vesti provocava Shalazà, un potere tanto più forte di Ohlò da mutare vivente in pietra.

“Amo Dulian, ma potrei evitare che questa piccola fata tenti di sedurmi?”

“Leggo i tuoi pensieri, eroe. Ma mi lavo con le mie stesse lacrime, come si usa presso il nostro popolo, e lo Shalazà è un potere che noi stesse fate non crediamo di possedere più.”

“Potreste evocarlo?”

“Questo sì, ma sappiamo che ne verremmo annientate. E il bagno di cui parli può avvenire solo presso un’oasi di Kadm Serel. Quindi puoi stare tranquillo. I tuoi amici si ridesteranno tra poche ore indenni.”

“Hai ancora bisogno del mio aiuto.”

“E tu delle sfere e del loro potere massimo.”

 

La notte stava scendendo con la consueta sparizione del sole dietro nubi che provenivano fin da Clamidia. Gli Haranes apparvero da una coltre di nero fango. Uwanish sfoderò Kalamìda, e Mitreis la sua Zoromidh.

“Non sterminate queste creature totalmente, Cavalieri del Nord. Abbiamo da compiere Sarar Haranei un’ultima volta. Giunta ad Eleon, vi invierò telepaticamente il potere di compiere Sarar Ethor, e sarete viaggiatori inframondo.

“Inviare un pensiero già ti costa energia. Ma condividere un potere, Rayne, ti prostrerebbe fino allo spasmo.”, disse Mitreis.

“Le Guardiane di Aleas mi sosterranno con le loro aure idrogeniche.”

Sarebbe svenuta, ma l’avrebbero ridestata incolume. Il dialogo tra il Cavaliere Mitreis e la verde amica poté aver luogo perché gli altri eroi erano passati all’attacco e avevano colpito venti Haranes, mentre una decina di essi era fuggita retrocedendo il ponte Jahol.

Haran esen Nesiù !”, evocò Koran.

Ma solo perché una fata era con lui. Perché solo Rayne poté dire Nesiù, e nessun altro Essere pronunciando quest’evocazione avrebbe prodotto l’incantesimo. Un Haran colpito da questo incanto si fece cadavere, ma Mitreis ne mutò l’orrifica sembianza con quella di una tenda, per rendere alla sensibile amica il passaggio meno traumatico. Si accorse di questa necessità vedendole tremare vistosamente le ali viola. Tre Haranes furono lasciati vivere, nell’eventualità che Rayne non avesse potuto adempire all’impegno  di insegnare a distanza gli Elho il Sarar Ethor.

 

Affrontare un branco di Rocken in volo non era affatto facile impresa. Specialmente quando gli stormi rapaci erano molti e in preda alla furia. Koran non perse tempo a congegnare piani d’attacco contro volatili immensi e muniti di corna aculee su tutto il manto epidermico. Melev era certo il Submondo più inospitale, e l’aria di Saheran era tanto irrespirabile che Rayne aveva più volte rischiato di soffocare. Le narici delle fate erano esili e fornite di microscopiche cartilagini, consimili ai fanoni delle megattere nella loro funzione di filtro. Una profetica leggenda vedeva in loro le detentrici di una futura speranza, qualora l’atmosfera di uno dei Cinque Mondi si fosse inquinata oltre limite. E avrebbero compiuto Sarar per salvare i popoli in difficoltà, perché adoravano la loro patria come genitrice, ma non resistevano a vivere prive della certezza che anche fuori da Eleon e Kadm Serel la vita svolgesse il suo corso sicuro. Le aquile desideravano aggredire proprio l’innocente Rayne, che riuscì a ripararsi dietro le spalle di Uwanish. Taimi apparve con le stesse intenzioni distruttive. Indossava una cintura fornita di ogni possibile arma da taglio, tanto che il ferro batteva un rintronante clangore, che turbava le aquile rendendole inquiete. Cominciarono ad affrontarsi l’un l’altra, come se non fossero della stessa specie. Koran ne intravide presagio nefasto, ma doveva soltanto attendere il momento opportuno per sfoderare Heknaton, e ledere quell’energumeno altissimo e micidiale, prima che dalla cintura scegliesse come colpire lui e la compagnia. Quando pareva che volesse compiere un gesto simile, afferrò invece d’improvviso la fata, ingabbiandola fra palma e dita tenendo pollice e indice non occlusi per permetterle il respiro. Rayne sapeva che un simile essere non sarebbe stato soggiogato dall’Ohlò, non avendo nessuna Ehlo nel proprio patriarcale clan. Che la fata fosse una preda per il suo sopito appetito, era da escludere. Un Gigante delle Nevi nasceva dalla frizione tra la neve morenica e le grandi rocce di Orios. E il Tartaro era l’ultimo esemplare dopo che non era rimasta più acqua, e che la Omilay si era resa necessaria per la sopravvivenza degli Elho. Rayne emise un ordine telepatico a Mitreis, facendo in modo che una linea cerebrale, condividendolo, facesse percorrerlo anche tra gli altri. I tre, rassicurati da lei che la loro forza l’avrebbe sospinta senza danno, fecero come suggerito e la lanciarono finché Rayne si inerpicò sulla cintura, montando un falcetto senza ferirsi. Giunta là, evocò Ohlò, e non per sedurre, ma per stordire, perché era potere dal duplice effetto. La lealtà che univa Elho e fate fu ciò che salvò Taimi, perché non fu ucciso, come la rabbia di Mitreis ne mostrava l’intenzione distruttiva. Mitreis odiava chiunque minacciasse i Cavalieri Nordici, ed ogni anno che aveva passato studiando i Manoscritti lo aveva reso desideroso di mostrarsi valoroso in azione, oltre che ligio nell’apprendimento della saggezza custodita negli scritti  E constando ogni insegnamento nel frutto della sapienza femminile, in quanto solo le femmine, che erano dispensate dalla guerriglia, avevano il tempo per curare queste incisioni, fissate con inchiostro ottenuto distillando la linfa dei Fiori Eburnei di Carcade, l’unica flora che trovava vita in quelle lande, non c’era popolo dei Cinque Mondi più rispettoso delle proprie compagne dei fieri Cavalieri e fanti Elho.

 

Tornare a Carcade era un percorso obbligato, dopo tante lotte. Questo perché Melev aveva sopra sé una cappa di gas nero, Chereb, che impediva l’effetto delle evocazioni.

“Rayne, ancora una volta dobbiamo soccorrerti, e non siamo medici esperti.”

“Ho solo bisogno di respiro, ma quel nero mi asfissia. Eppure sembra così lontano…”

“Anche quest’aria è impregnata di Chereb, pure dove sembra sana.”

“Anche per questo motivo, dobbiamo affrettarci. Rayne, cerca di essere forte.”

Koran avvertì che se le cartilagini respiratorie della loro piccola amica avessero assorbito troppo gas, non sarebbero riuscite più a filtrare. Chiese a Mitreis, che dopo Re Argant era l’Elho che più aveva trascorso il tempo sopra le antiche carte, se i Manoscritti insegnassero come aiutarla.

“Nessun rimedio conosciuto, purtroppo, si trova in essi. E’ tutta la mia vita che studio questi esseri, e che sogno di visitare Aleas Eleon.”

“Grazie, Ehlo. Sapevamo che il vostro popolo ci fosse amico, ma non credevo che ci fosse tra voi chi desiderasse incontrarci. Sono stupita di tanta ammirazione.”

“Non sono lusinghe prive di merito. Voi Fate siete creature ricche di mistero.”

“E piene di segreti rimarremo, Mitreis, perché son molto poche le cose di noi che ci è permesso rivelare. E, mi dispiace rovinare il tuo sogno, non vedrai mai Eleon, ma forse, se gli Elfi vorranno ospitarvi, avrete accesso ad Aleas.”

“Perché questo?”

“Perché il nostro Regno custodisce la Pietra Azzurra. Se venisse anche solo ammirata per una sola volta, verremmo liquefatte.”

“Una fine che scongiurerò di provocarvi. Non credevo che foste così legate al vostro Regno.”

“E’ la Pietra che è salda e da preservare. Noi Fate possiamo viaggiare, purché tre quarti del popolo fatato rimanga stabilmente presso la Pietra.”

Questa legge di Eleon era una norma naturale poiché il monolito, che sfolgorava continuamente energia vitale, era loro simbionte. I Roke, al contrario, abbandonavano spesso Rok, la loro terra, perché non era che una distesa brulla ed arida. Portavano questo nome perché avevano il potere di Rok, che faceva percorrere fra le loro mani elettricità crescente, che si sviluppava in poderose saette. Arrivarono da Rok sessanta unità Roke. E giunsero con Dulian, che aveva abbandonato il geloso padre Argant per un’ avventura che egli non le avrebbe mai permesso, ma che per lei, la donna di Koran, era l’unico modo per condividere con certezza con l’amato gli istanti più intensi della vita di lui. Koran fu stupito di come, resa più rude dagli esercizi fisici con cui si era allenata tra le Elfe di Aleas, risultasse più androgina, ma pur sempre suadente. Non era in vena per smancerie, comunque, né Koran ne richiedeva. Il loro amore era abituato alla difficoltà di profondersi in gesti affettuosi, proprio per la lunga assenza di Koran da Orios. Ora con i Fulminati al seguito, sarebbe stato più facile affrontare l’Antro delle Arpie. Questa tana insidiosa , era stata un palazzo regale, in passato, quando Zaila era ancora un’ Elfa che sognava di mutar forma in fata. Per questo desiderio, suo padre Menòr aveva contattato la regina Fejorgil di Serel, ma tutto ciò che aveva ottenuto era stato un rifiuto risoluto a collaborare alla mutazione di Zaila, e un’emicrania che terminò dopo due giorni. Vi avevano abitato Haranès per secoli, e le loro tele spesse e maleodoranti avevano provocato, con le loro esalazioni mefitiche, la mutazione di un gruppo di Silfidi perse nella spelonca in Arpie volanti. Il centauro Dodonte e un gruppo di Ippogrifi ne ebbero pietà, e non poterono che impedire la mutazione in ragni con l’intervento magico della Strega Treia, un’Arpia che aiutata da Mitreis riuscì a divenire Grande Jem, ma non fu accolta dagli umani, che impauriti dal suo arrivo, non vollero accoglierla. Treia viveva in quell’antro, perché aveva ridotto la sua altezza in Nano, e non aveva trovato che quel rifugio. Conviveva fra le Arpie, ma senza aver con loro alcun dialogo. Bastava che le lasciassero un piccolo vano di pietra sotto cui riposare alla sera. Ed aspettava che nessuna di esse fosse rimasta fuori, perché se l’avessero scorta, l’avrebbero certo ghermita o scossa con violenza. Erano creature mostruose e prive di pietà. Quando Treia riconobbe Mitreis, lo accolse con la speranza di una possibile salvezza, perché era stanca e abbrutita da tanta solitudine fra quei mostri alati.

 

Dulian ebbe a cuore la sua vicenda, che Mitreis le sussurrò in poche parole, e Rayne, sensibile ad ogni sciagura che colpisse un Essere dei Cinque Mondi di buone intenzioni, la confortò promettendole il sostegno di Re Alden e della Regina Fejorgil. Treia pianse, ed ancora tremava per quegli anni di stenti e di paure.

“Ora, Treia, sei tra chi ti accetta.”

“Eroi, le Arpie sono aumentate nel tempo, e non mi stupirei che uscissero in volo tutte fra pochi istanti! Loro annusano la linfa delle fate fin sotto la loro sottile epidermide, e Rayne è una preda troppo allettante per loro!”

“Mi avvertono certamente, sento la loro minaccia che incombe!”, disse la fata, che tremava tanto che sarebbe certo svenuta, senza il conforto della mano di Uwanish, che le si posò delicata su una spalla per sostenerla nel suo vibrante timore. Ma non resse, la piccola, al primo uscire dal buio nero dell’antro di due occhi grandi come scudi di Orios, le cui pupille brillavano di una malvagità totale e cieca.

“Arpie, Koran! Sono infinite!”

“Sfoderate le spade, eroi. La caccia è giunta a termine, e inizia la battaglia.”

“Sono Uwanish di Orios, e porto con me l’elsa fatata di Kalamìda! Evoco Theraton!”

“Warra! Warra! Sono Koran di Orios, e sfodero Heknaton l’Invincibile! Evoco Petiridion!”

Le evocazioni servivano a destare il potere occulto della spada eroica, custodito in una gemma incastonata nell’elsa.

“Sono Dulian di Re Argant di Orios, sfodero il pugnale di Kadm! Evoco Jihmei!”

“Dulian, anche tu guerriera in questa lotta! Non posso non temere per te, ma ammiro

la tua forza.”

Koran si accorse solo allora, infatti, fin dove giungeva il coraggio della sua Dulian. Confidava nell’addestramento che Uwanish e Mitreis le avevano fornito con la loro esperienza durante quei giorni, e sapeva della protezione che le giungeva fin dalla Pietra Azzurra di Eleon. Era la prima volta che aveva come alleata una donna.

“Sono Rayne, fata di Eleon! Evoco Fata Guardiana! Evoco Ohlò Shalazai!”

E Sironia giunse, attraversando il monolito azzurro, sotto forma di aura protettiva, potenziando Rayne con una corazza vivente, proteggendone la cute fin troppo delicata.

E calzò i guanti di Giacopete, che Uwanish aveva tratto dal ventre di un Drago di Fuoco

di Carcade e che le garantivano una protezione completa.

“Fata, conosciamo la tua delicata corporatura. Non sei costretta a…”

“Warra! Warra, Koran! Tu stesso mi chiami a questo, e non conosci noi fate così tanto!”

“Allora Warra, amica dalle ali lucenti!”

“Warra!”

“Sono Gione di Rok! Evoco Electron Roké!”

Koran si ricordò allora del valore di quella fanteria che dietro di sé prometteva un aiuto certo valido e potente. Evocando, Gione fece attraversare nelle palme dei suoi fanti una

saetta dalla crescente espansione che unì tutti in un sol grido, che fu:

“Warra! Siamo gli Gnomi dei Fulmini di Rok, terra di Re Ehlactron!”

“Sono Karaki Saron di Carcade, Re Guerriero! Sfodero la Spada del Dominio ed evoco Karkein!”

“Oltre l’Antro delle Arpie c’è un cunicolo, che ci porterà al Castello Nero! Warra, ora!”, gridò Mitreis.

Rayne fece un incantesimo a Dulian che fece impallidire Koran, perché mutò la Reginetta di Orios in Elfa Suvajim, come venivano chiamate le Elfe mutate.

“Perché, Dulian?”

“Mi ha punto una vespa meleviana. Sarei morta, se non se ne fosse accorta Rayne e se non mi avesse mutato in questa forma. Cercherò di tornare come prima, ma ora Warra, mio amato Koran! E non guardarmi!”

Una Suvajim non era una creatura sgradevole, ed i tratti del volto modificati con l’incanto non erano poi così bizzarri, fatta eccezione per un’alterazione degli zigomi piuttosto insolita, che le stirava la pelle del viso e un poco la deformava rispetto a come la si conosceva. Ma era tempo di Warra. Tutte le spade magiche fendettero le Arpie con facilità, ma si doveva evitare il contatto col loro sangue, che era eccessivamente caldo e poteva ustionarli. Rayne temette per uno schizzo dovuto a un colpo di Dulian, che lanciava il pugnale fatato con una fune che, ritirata dopo il lancio, tornava nelle sue mani.

“Roke all’attacco, per l’onore di Rok!”, spronò Gione i suoi.

E gli gnomi volanti si presero l’un l’altro la mano, alzandola al cielo e urlando:

Iridion Roké! Warra!”, che era un grido di omaggio alla patria lontana, ed insieme un richiamo agli Ippogrifi, che li aiutavano a orientare la direzione delle saette interagendo con la loro vista mirabile. Tre fulmini disgregarono venti Arpie, ma uno stormo di aquile Rocken, provenienti dal nulla, ghermirono quasi mezzo esercito Roke, facendo impazzire d’ira Gione, che non sapeva se avrebbe salvato gli amici o se li avesse perduti per sempre. Il centauro Dodonte, che si era gettato, invulnerabile, sui getti di sangue dei nemici per evitare il più possibile che contagiasse col suo calore i fragili combattenti. Fu ringraziato da tutti, e da tutti lodato come il vero campione, nonostante non avesse colpito che un solo esemplare di Arpia. Fu una battaglia più lunga del previsto, funestata dal rapimento di tanti gnomi Roke che il comandante Gione non poté che temere per il futuro della sua stirpe. Cosa avrebbe riferito al Re Elhactron al ritorno a Rok? Sarebbe stato punito, e relegato al rango di soldato semplice, o sarebbe stato compreso dal sovrano che la sciagura era stata improvvisa e inevitabile? In fondo, Gione era in prima linea, e gli altri Gnomi di Rok nelle retrovie. Treia pianse felice alla distruzione di quel popolo di mostri che le aveva reso ogni giorno un inferno e ogni notte un incubo, e ringraziò Koran e Dodonte fra tutti per un impegno così eroico.

“Tempo di Warra finito. Abbiamo vinto, eroi! Per le nostre terre lontane! Ohlailò! Ohlailò!”

E fu risposto:

Ohlailò! Hailò!”, che era un canto di pace.

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