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CINEMA

a cura di Ivan the Valley

La recensione del film

Questa rubrica è curata dal mio caro amico Ivan (nella foto),ivan.jpg (14329 byte) grande cultore cinematografico, organizzatore di varie rassegne stampa all'interno del circolo Arci Samarcanda. Accanto la recensione di uno dei suoi film preferiti. In seguito le recensioni di altri imperdibili film.

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L’odio (la Haine, Francia 1995 min.95)

Regia: Mathieu Kassovitz

Cast: Vincent Cassel, Hubert Koundel, Said Taghmaoui.

L’odio è il secondo film di Kassovitz, cineasta francese che conosce bene il clima disperato di quelle banlieues, perché ci vive dentro. Per il Festival di Cannes del 1995 fu un pugno nello stomaco, ma la fermezza del risultato stilistico lo portò a vincere il premio della regia.

“Un tizio precipita da un grattacielo di cinquanta piani. Ad ogni piano pensa: fin qui tutto bene… Gia ma il problema non è la caduta ma l’atterraggio”.

Questo apologo in forma di barzelletta accompagna i titoli di testa, che scorrono in voluto disordine sulle immagini televisive di violenti scontri notturni tra la polizia, che ha il sopravvento, e i giovani dimostranti dell’estrema periferia parigina. Un ragazzo arabo di sedici anni, selvaggiamente picchiato al commissariato, giace in coma all’ospedale. Tale il motivo della rabbia esplosa e della repressione in atto. Il giorno dopo la cité, una delle tante che circondano, anzi “assediano” la capitale, si sveglia a sua volta in uno stato d’assedio. E l’atmosfera che domina, da una parte e dall’altra, è l’odio. Ancora scossi e smaniosi di vendetta i giovani Vinz (Cassel), Hubert (Kounde) e Sai (Taghmaoui) si aggirano in cerca di un’occasione per scatenare la loro rabbia. Vinz ha anche una pistola, perduta da un poliziotto durante gli scontri, e muore dalla voglia di usarla. Dalle 10.38 alle 6.01 del giorno dopo: quasi ventiquatr’ore nella vita di tre ventenni, scandita dall’asetticità dell’indicazione temporale, in un ritratto senza fronzoli di una gioventù urbana che si trascina giorno dopo giorno tra voglia d’integrazione e profonda insicurezza. <<Portaparola>> di una generazione di rappeur e casseur, il film evita il populismo e non cavalca mai la rabbia, ma ne prende quasi le distanze, con una saggia dose d’ironia e un controllo delle immagini al limite del formalismo (la fotografia è di Pier Aim), alla ricerca di un’essenzialità <<metafisica>>, con la macchina da presa attaccata ai volti di tre attori straordinariamente espressivi. Kassovitz interpreta lo Skinhead che Vinz non ha il coraggio di uccidere.