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    FAVRIA - UN’IMPORTANTE RECUPERO PER A PITTURA ROMANICA IN CANAVESE
    L’abside di S. Pietro Vecchio 
     
       FAVRIA - Il recupero di parte della decorazione dell’abside di San Pietro Vecchio, nella chiesa cimiteriale di Favria, costituisce la novità più importante per la pittura murale romanica in Canavese.
       Tra le tracce riemerse sul fondo blu, il frammento di Testa è abbastanza integro, tanto da permettere un’ipotesi di appartenenza alla corrente lombarda, sull’inizio dell’XI secolo, nel modo con cui s’espresse a Pombia, nel cosiddetto Paradiso dell’oratorio di S. Vincenzo in Castro.
       La configurazione facciale di tale Testa si caratterizza, sullo sfondo dorato dell’aureola, per i capelli striati in azzurro, gli occhi dilatati, i tondi pomelli rossi sugli zigomi, la bocca piccola e carnosa, incorniciata dalla barba anch’essa azzurra. L’ombra s’annida sotto le potenti arcate sopraccigliari e scende netta lungo il setto nasale.
       Anche il frammento di Mano risulta leggibile: con il palmo costruito graficamente da due sole linee rosse curve. La sua posizione, rispetto alla Testa che si trova ai vertici della conca, in vicinanza dell’arco trionfale, è molto più bassa e decentrata.
       L’incompletezza della figura a piedi scalzi, di cui è rimasta la metà inferiore, ci permette di cogliere, invece, soltanto più alcune zone della veste rossa e della sopravveste verdina, entrambe astrattamente lumeggiate.
       A Favria, la linea rossa prevale nei contorni delle figure e nelle spartizioni decorative, accompagnata da un colorire delicato ed unito. Più evanescenti, infine, sono il meandro ed il velario.
       Difficile dalle “membra disiecta” di Favria immaginare l’unità organica della decorazione absidale romanica: per contro, l’esempio di maggiore complessità figurativa pervenutoci in Canavese è S. Ferreolo, nel territorio di Grosso, da datarsi verso la fine dell’XI secolo, perché associa il motivo iconografico della “Majestas Domini” (Cristo trionfante tra i simboli degli Evangelisti) con quello della “Deesis” (Cristo tra la Vergine e s. Giovanni Battista), prevedendo, in chiusura, la teoria degli Apostoli.
       Un esempio più semplice, da collocare sulla metà dell’XI secolo, è S. Stefano in Sessano, a Chiaverano, perché presenta soltanto il Cristo in Maestà circondato dagli animali apocalittici, terminando con una serie di Apostoli e di Santi.
       Dal lato dello stile, un paragone, facendo perno sul tondo con colomba, denuncia che il ciclo di Chiaverano è ancora ottoniano, germanico, mentre quello di Grosso è aperto alla cultura francese, in analogia con Les Allinges, in Savoia.
       La differenza in S. Ferreolo è data dai colori chiari, in una gamma cromatica che si serve, in prevalenza di ocre, di terre sul fondo bianco.
       Gli Apostoli di S. Stefano in Sessano, invece, con le loro orecchie a manico d’anfora, strettamente si legano con quelli frammentari di Santa Maria in Castelvecchio, un tempo sull’altura di Mongrando, ora al Museo Civico di Biella.
       Le pietre del Romanico, infine, ormai dominano il circondario di Borgo d’Ale, perché, ad eccezione di S. Michele in Clivolo, tutto, nell’ambito della decorazione pittorica, vi è andato in completa rovina.
       E’ un panorama veramente triste: tanto più che l’ancora superstite affresco di S. Maria d’Arelio, al momento della mia indagine aperta (1973), con la scritta in rosso (M) ARIA sulla calotta dell’abside, con la fascia, nel sottarco, dei medaglioni, entro i quali erano rappresentati busti di giovanetti e pavoni, conclusa, in basso, dalla striscia dei pesci bianchi punteggiati di rosso, è, nel frattempo, anch’esso caduto, perché esposto, senza riparo, alle intemperie.
       L’evento politico che vi determinò la crisi delle chiese, con l’abbandono da parte della gente dei villaggi che le frequentava, cadde nell’anno 1270, quando si decise da Vercelli la fondazione di un borgo nuovo.
       I ruderi di S. Dalmazzo di Erbario, in tal senso, sono emblematici: un ammasso di sassi che, solo molto parzialmente, rende ancora un’idea della forma originaria, ad aula unica.
       E’ la poesia pura della pietra, per altro, tanto amata in Europa dai costruttori dell’architettura romanica.
       E’ sempre una perdita grave quella dell’interezza d’un ciclo pittorico altomedioevale. La pittura romanica ad affresco, infatti, è l’immagine del mondo, e non soltanto dell’intera creazione, ma di una precisa epoca storica.
       La sorpresa è quella di ritrovare qua e là qualche resto, un volto, una mano, sotto l’intonaco che, nascondendolo, lo ha protetto, nella sua secolare freschezza.
       La pittura romanica ha con l’architettura un rapporto meno stretto, un accordo diverso rispetto alla scultura: le composizioni dipinte non contraddicono i dati della loro collocazione nello spazio, sia esso piano o curvo, ricuperando un ordine naturale a confronto delle torture cui la metamorfosi assoggetta le forme scolpite in pietra.
     
    aldo moretto
     
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