La storia di una comunità, di una città è sempre la storia di uomini che lungo il corso dei secoli si sono legati per esperienze di vita ai luoghi trattati. Sono gli uomini che fanno la storia attraverso le loro azioni, i loro interventi, il loro lavoro, i loro affetti e i loro interessi. Uomini che legano la loro anima agli avvenimenti gioiosi o tristi dei propri simili; possono essere incontri amichevoli o anche scontri mortali. La storia è quest'intreccio inesorabile di guerra e di pace. Ma anche la natura ha la sua parte e spesso questa è determinante con i suoi capricci climatici o con i suoi interventi paurosi e inclementi di sommovimenti o intemperie. La storia è perciò un complicato e inquieto rapporto tra la natura e l'uomo e tra l'uomo e i propri simili. Se due sono le facce principali del resoconto temporale, dello scorrere del tempo, sta a noi decidere quale aspetto privilegiare. Di solito sono le guerre che fanno la storia dei libri ma la realtà è diversa perché i periodi di pace e di costruzione superano quelli nefasti di guerre e rovine. E la realtà ce lo attesta. Oggi Paternò è un moderno centro di quasi,secondo l'ultimo censimento, 50 mila abitanti. Noi tenteremo di aprire un varco sugli avvenimenti storici di Paternò, cercando di afferrare quanto di più saliente e importante merita di essere tramandato sia nel bene che nel male; sapendo che molte notizie resteranno escluse perché il velo del tempo ha steso il nascondimento . Paternò è come una sentinella nella piana, a chi proviene dal mare o dall'interno dell'isola la sua collina si nota a molta distanza. Uno sperone di roccia lavica sormontato da un fortilizio e da varie chiese e poi un cimitero. La collina è un po' la sintesi storica di Paternò: vita, fede, guerre e morte. Il castello normanno ci obbliga a rinverdire le memorie passate, a tornare agli albori della città.
Molto si è scritto sul significato del nome e tante sono le ipotesi, da quello antecedente
di Ibla Mayor a ricordarci la presenza dei Greci , oppure e sempre dal greco, Patyces, Patisco; più vicino il latino paternus che potrebbe significare " paterno " e si riferirebbe al feudo ereditato dal padre.
Ma fra i tre appare prevalente la derivazione latina Paternus (paterno), con significato analogo al settentrionale Paderno, nel senso di fondo ereditato dal padre, come risulta da vari esempi ( Paderno del Grappa, Padernello, Paderno d’Adda. Paderno Dugnano, Paderno Franciacorata, Paderno Ponchielli ).
Ma dagli ultimi rinvenimenti archeologici sembra
quasi certo, dopo
la riscoperta del ponte romano di Pietralunga ( II sec. d. C), che il l toponimo
Paterno si riferisce al curatore delle cose pubbliche di Catina ( Catania ) Giulio
Paterno che fece costruire la strada e il ponte che attraversava il territorio
di Paternò al tempo del consolidamento dell'isola sotto l'impero romano. Altri
ipotizzano che Paternò derivi dal termine greco "EpAdernòn"
e significherebbe Verso Adrano, poiché in questa città
sorgeva un tempio del dio Adrano cui sarebbero stati devoti gli abitanti del
luogo. Di questi antichi popoli ci rimangono diverse testimonianze,ben tre vetrine
di reperti storici, di epoca greca e romana proveniente dal territorio di Paternò,
sono esposti nel museo archeologico nazionale di Siracusa. Trattasi di materiale
fittile composto soprattutto da vasi, monete e manufatti. Una delle zone più
ricche di resti greco-romano rimane la zona di Pietralunga, da tempo depredata
. E' una zona strategica in prossimità del Simeto dove l'uomo è stato presente
ininterrottamente dall'età preistorica del Paleolitico inferiore, quando usava
grossolani strumenti in pietra lavica, fino ai giorni nostri.Una storia umana
che dura da circa mezzo milione di anni. Il reperto più evidente rimane però
un potente arco di epoca romana, rafforzato alla base per resistere alle ondate
di piena e recentemente oggetto di recupero, dopo segnalazione, da parte anche
del sottoscritto, alla Soprintendenza.
Il ponte di Pietralunga si collega con la conquista romana della Sicilia avvenuta con la prima guerra punica per strappare Messina ai cartaginesi nel 264 a.C. Conquistata l’isola si iniziarono le costruzioni pubbliche e le strade avevano la precedenza. La Sicilia sappiamo che era il granaio di Roma e trasportare il necessario cereale dall’interno necessitava di strade ampie e sicure. Il ponte infatti collegava Catania con l’interno attraverso Paternò e Centuripe e poi fino ad Enna. Antichi studiosi come Ignazio Paternò Castello accennavano al suddetto ponte già nel 1781 e poi anche il reverendo e compianto Gaetano Savasta nel suo libro “ Memorie storiche della città di Paternò” nel 1905 ; anche se l’antico eponimo di “coscia del ponte” si richiamava all’antico manufatto, per secoli l’arcata romana è stata praticamente seppellita dalla rena del fiume e dal silenzio. Il sottoscritto a seguito delle ricerche superficiali della zona notò la costruzione abbandonata e seminterrata. Più di una volta resistette alla tentazione di meglio osservare il torrione di pietre e conci che leggermente si intravedeva dalla riva del Simeto e quando si decise a toccare con mano di cosa si trattasse rimase quasi incredulo: Un ponte romano a Paternò. Mi ricordai che tanti anni prima, durante una piena del fiume, era venuta alla luce sulla sponda destra e quasi attaccata all’attuale margine, una antica strada romana che puntava verso nord-ovest, verso cioè Centuripe, sfruttando inizialmente la sponda destra del Simeto. All’inizio non seppi dare ragione e mi ero convinto per lungo tempo che doveva trattarsi della via di collegamento all’insediamento greco-romano di Pietralunga sul monte Castellaccio ma in effetti era un’opera troppo impegnativa per il relativamente piccolo insediamento di quei bassi monti. Adesso invece tutto era chiaro: le basole di calcare ben squadrate che sottocosta viaggiavano quasi a confine con il fiume continuavano sulle arcate. Una strada perciò non a mezza costa ma più bassa e il fatto che sia il ponte che le basole non sono ora vicini all’acqua fanno chiaramente pensare che il corso del fiume doveva essere all’epoca leggermente spostato a sinistra. Del rinvenimento feci partecipe il prof. Angelino Cunsolo che ne diede notizia sul quotidiano "La Sicilia" domenica 27 agosto 1989 e poi il 7 novembre del 1990. A seguito di ciò e anche per l’interessamento del gruppo locale di archeologia, la Soprintendenza si mosse e iniziarono finalmente gli scavi. Il ponte giace su una potente massicciata che fa da base ai piloni e di conseguenza alle arcate.Una finestra a botte serviva a far defluire eventuali piene e un pronunciato sperone avanzato serviva da frangiflutti. Mi hanno colpito i conci della volta interna: poggiano a secco e sono in strati e alcuni in alto sono bugnati all'interno e presentano un incastro tipo coda di rondine. Fa contrasto l’esatta precisione dei blocchi faccia-vista con il riempimento a sacco dell’interno; ma questa era una tecnica tipicamente romana. Il ponte non è eccessivamente alto è questo potrebbe essere stato l’errore compiuto nella sua costruzione che non ha dato eccessivamente peso ai rari ma presenti periodi di piena del fiume durante talune stagioni invernali. Osservando però bene la potenza della struttura sembra difficile – anche se non impossibile -– che la forza del fiume sia stata capace di distruggere le salde arcate. In questi casi , comunque , una strada ormai costruita pretende una riparazione e non l' abbandono di una simile e ardita costruzione. Piuttosto facile pensare che il ponte abbia subito la distruzione in epoca medievale antica da parte di eserciti invasori o come forma di difesa passiva per contrastarne l'invasione e poi lasciato all'incuria. Anche se l'altezza del manufatto non è elevata, la sua larghezza 4,15 metri ( 14 piedi, un piede era lungo 29,64 cm), è quella classica di una strada romana, capace cioè di far transitare due carri e permettere loro di rimanere in carreggiata. I costruttori romani cercavano quasi sempre di mantenere le misure standard ma esistono strade larghe appena poco più di un metro fino a sette. Autore della costruzione o perlomeno interessato alla sua costruzione dovrebbe essere stato , intorno al 164 d. C. il curatore delle cose pubbliche di Catina ( Catania ) Giulio Paterno (Soraci/La Sicilia in età imperiale/Minerva Editrice). La costruzione perciò sarebbe di epoca imperiale.Egli prende l’iniziativa di inviare una lettera a Lucio Vero e Marco Aurelio (coimperatori 161-180 d. C.) con la quale lamenta la necessità di finanziare alcune opere pubbliche catanesi. Il patronimico Paterno potrebbe essere alla base del toponimo di Paternò, scrive Nino Tomasello; ricordando che sino al XVI d.C, (vedasi il libro cassa delle Benedettine di Paternò), la datazione degli acquisti del Monastero riportano la voce Paterno e non Paternò, cioè senza accento. Insomma così come la Regina Viarum - com'era chiamata la Via Appia nell'antichità - che fu costruita nel 312 a. C. dal censore Appio Claudio Crasso e da lui ne prese il nome, così il Procuratore Generale di Catania, " curatores rei pubblicae" Giulio Paterno dette, quasi sicuramente, il nome alla strada e al centro abitato di Paternò, strada che da Catina arrivava oltre Centuripe passando per Paternò. Più che il ponte quindi, che risulta svincolato dal centro urbano, è la strada che passa proprio per il baricentro del paese tra il cardo e il decumano che si incrociano nell'attuale piazza " Quattro Canti" a dare il nome alla città di Paternò.
Un'intera
necropoli è venuta alla luce nel 1990 in contrada Ciappi Bianche e un reperto
di quest'area è addirittura eccezionale; trattasi di un coperchio funerario
in cotto di epoca paleocristiana recanti i segni cristiani del pesce e della
Trinità, il reperto è stato consegnato alla Soprintendenza di Catania. Rimangono
poi resti isolati di un acquedotto romano che da S. Maria di Licodia e attraverso
Paternò, arrivava nel capoluogo etneo. L'opera è datata in epoca augustea, intorno
al primo secolo dopo Cristo. Catania era infatti una delle città più importanti
dell'isola e rivaleggiava addirittura con Siracusa. Terminati i fasti di Roma,
l'immenso impero comincia a sgretolarsi: da nord irrompono con sempre più insistenza
i barbari e da sud diventano sempre più minacciosi gli arabi , fanatica popolazione
convinta da Maometto a sottomettere le altre civiltà in nome della propria religione. E'
questo il momento in cui la Sicilia diventa una terra in balia degli altri e
dove si susseguono continue scorrerie e conquiste. Alla caduta dell'impero fu
ostrogota, bizantina( dal 535 al IX secolo) e poi sotto gli arabi. Questi furono
cacciati dai normanni di Ruggero D'Altavilla.Gli Altavilla erano una principesca
famiglia francese, capostipite della quale è stato Tancredi, che occuparono
la Sicilia e il meridione d'Italia dalla metà dell'XI secolo fino alla fine
del XII. Detti anche Vichinghi, i Normanni, erano una popolazione di origine
nordica , nelle loro scorrerie invasero più volte la Normandia (Francia) e riuscirono
a fondersi con la popolazione indigena. Essi intervennero anche come truppe
mercenarie per conto degli Altavilla ( Roberto il Guiscardo e il fratello Ruggero
II).Quest'ultimo riuscì ad unire la Sicilia, la Calabria e la Puglia in un unico
Stato (1130).Tale Stato con la morte di Guglielmo II, ultimo re Normanno, passò
all'imperatore Enrico VI, marito di Costanza D'Altavilla. Costanza, madre di
Federico II, era figlia postuma di Ruggero II e per sposare Enrico, secondo
anche Dante, sarebbe stata convinta a forza e trascinata via da un convento.
I Normanni quindi furono poi assimilati dalla popolazione locale.Nel 1299 Paternò
passò sotto il domino degli Angioini e nel 1402 il re Martino assegnò la città
alla regina Bianca di Navarra. Alfonso D'Aragona nel 1431 la cedette a Nicolò
Speciale e infine nel 1456 furono i Moncada a governarla fino all'unificazione
del Regno D'Italia. Se dagli Arabi abbiamo ereditato la coltivazione dell'arancio
amaro ( e non quello attuale che è una conquista recente ) dei meloni e dei
limoni, dai Normanni rimane la tradizione dei pupi siciliani. Celebrazione artigianale-teatrale
dell'imprese cavalleresche dei cavalieri medievali che cacciavano gli invasori
musulmani. Anticamente, causa anche le continue guerre, la collina era circondata
da mura e sette porte ne custodivano l'accesso, rimane visibile quella del Borgo
sulla salita per il Castello.
E' Ruggero D'Altavilla che costruì il
maestoso castello sulla rupe lavica di Paternò ed è sempre lo
stesso Ruggero che fece costruire a scopo difensivo i castelli di
Adrano, Motta, Troina, Nicosia e in tanti altri comuni dell'isola.Secondo
le affermazioni del coevo monaco benedettino Goffredo Malaterra,
il castello di Paternò sorge su alcuni resti di una costruzione
araba fatta costruire dall'emirato musulmano dell'epoca a scopo
difensivo. Questo monaco era sempre al seguito dell'Altavilla con
il compito non solo di raccoglierne e divulgare le gesta, ma
anche perché Ruggero notò l'esigenza di contrapporre
all'elemento arabo ormai presente, la cultura cristiana. Egli
vedeva di buon animo il nascere di comunità religiose per
riaffermare il culto cristiano. In un mondo in cui infuriavano
guerre e disordini, violenze e corruzione, il monastero
benedettino sviluppava un nuovo modello di società, dove al
posto del concetto della proprietà privata e del privilegio
subentrava la cristiana solidarietà fraterna. A Paternò diversi
erano i monasteri ( S. Leone, S. Vito, S. Nicolò, L'Alena).
Col
tempo il castello normanno non ebbe solo motivi bellici ma anche amministrativi
e residenziali. Molti i personaggi storici che lo hanno abitato il più famoso
è Federico II di Svevia che vi soggiorno nel 1221 e nel 1223. Il castello fu
poi abitazione della regina Eleonora D'Aragona alla morte di Federico II D'Aragona
avvenuta nel 1337. Divenne in seguito dimora della regina Bianca di Navarra
che nel 1405 dall'alto del castello normanno promulgava le "Consuetudini
della comunità di Paternò". Il castello infine passò poi alla famiglia
Moncada, dinastia che governò la città per quattro secoli e che lo adibì ,per
periodi, a pubbliche carceri. Alcuni graffiti ne sono la triste testimonianza. Attualmente
è sotto la tutela della Regione Sicilia nella speranza di trasformarlo in sede
di civico museo. La cappella del castello, alla sinistra appena si entra, è ricca
di resti cromatici risalenti al 1200 e raffiguranti l'Annunciazione, una natività
e un Cristo solenne oltre a vari medaglioni di santi. Al castello fanno corona
una serie di chiese, la prima è quella di santa Maria dell'Alto o Matrice, poi
quella di Cristo al Monte, S. Francesco d'Assisi e poi quella dei Cappuccini
inglobata nel vicino cimitero. Poco sotto troviamo la chiesa di S. Maria della
valle di Josaphat e dall'altro lato la chiesa di S. Giacomo con il tipico campanile
moresco e poco più a sud il moderno, quanto affascinante, santuario della Madonna
della Consolazione. Ai piedi della collina storica il viaggio continua con l'antica
chiesa dell'Itria. Il termine Itria è abbreviativo di Odegitria (“Colei che indica e guida lungo la strada”), parola greca-bizantina
che ci ricorda anche il contributo dei soldati siciliani in una guerra combattuta
e vinta a Costantinopoli contro i Musulmani. Al ritorno portarono con sé anche
la tradizione di questo culto bizantino alla Madre del Salvatore. Molte chiese
in Sicilia portano questo appellativo. Troviamo poi la luminosa chiesa della
patrona S. Barbara e di fronte il santuario del Carmine, il Pantheon e vicino
poi S. Gaetano, S. Domenico, S. Maria delle Grazie, S. Margherita e S. Antonio
e la piccola chiesetta della Madonna della Scala che dà il nome all'omonima
via. Pochi centri storici possono vantare un così ricco concentrato di fede,
di arte e di storia in un così esiguo spazio.
Oggi Paternò è un vivace centro agricolo
commerciale legato, per vicinanza, alla città di Catania da
un'ampia superstrada. Superato il periodo post bellico delle due
grandi guerre che hanno listato a lutto parecchie famiglie
paternesi e creato danni notevoli alla città, la comunità ha
saputo reagire con una certa solerzia ma senza raggiungere quell'
autosufficienza nel campo lavorativo. La disoccupazione rimane uno
dei problemi che più tristemente attanagliano la vita economica
della città che rimane legata essenzialmente ad una economia
agricola e artigianale-commerciale. Manca quasi del tutto il
settore industriale di trasformazione. Nei periodi post bellici il
nord Europa e anche gli Stati Uniti sono stati i poli di
attrazione per dare un posto di lavoro sicuro ai nostri giovani e
molte famiglie paternesi hanno vissuto delle rimesse degli
emigrati. Numerosa è, per esempio, una nostra comunità di
emigrati a Milano. E' proprio a Milano, cuore economico
dell'Italia, che negli anni 60 si pone in luce nella storia
borsistica di piazza Affari il paternese Michelangelo Virgillito,
il classico immigrato in cerca di fortuna e di lavoro. Anche oggi
è ricordato come uno dei più noti "rialzisti" capaci,
all'epoca, di influenzare l'andamento degli scambi commerciali e
che legò il proprio nome ad aziende come la Liquigas e la
Lanerossi Vicenza. Dato saliente del Virgillito, cattolicissimo,
è che ad ogni affare devolveva parte dei guadagni in beneficenza
facendo così spuntare in Italia diversi asili e orfanotrofi a
suo nome. Non c'è chiesa a Paternò che non porti il nome di
Virgillito quale benefattore per interventi di restauro e tutela. Alla
statua della Madonna della Consolazione donò una corona d'oro e
brillanti di grandissimo valore. Esiste tutt'ora, a Paternò, una
fondazione intitolata a Michelangelo Virgillito che si occupa
dell'assistenza dei poveri secondo la volontà del noto defunto
benefattore, presidente attuale è il prevosto don Salvatore Alì.
Due sono i settori che non sono mai riusciti a decollare in città:l'industria
e il turismo. Eppure in apparenza tutte le carte sembrerebbero in
regola, certamente la mancanza di infrastrutture non ha aiutato
il decollo industriale ma anche una certa mentalità
individualistica e diffidente ha reso difficile la nascita del
settore. Per il turismo le cose si complicano; non è sufficiente
il grande tesoro storico e artistico, le Salinelle, le acque
ferruginose la vicinanza col l'imponente Etna se poi sono in
affanno i servizi essenziali di costante decoro , sicurezza e
fruibilità. L'oro dei paternesi rimane l'agricoltura specie con
gli agrumi,buona la produzione e ottima la qualità ma in questi
ultimi anni la concorrenza dei paesi nord africani ha reso
difficile il settore.In Italia, Paternò è conosciuto come il
paese delle arance. Ma dove il paternese dimostra tutta la sua
fantasia e la sua creatività è nel campo alimentare e
specialmente in quello dolciario. I dolci e i gelati sono superbi
sapori da ammaliare anche i palati più raffinati. Saranno gli
ingredienti sani, l'aria frizzante che sa da Etna e di mare o
forse l'acqua da sempre apprezzata anche dai forestieri a dare a
queste leccornie locali quel tocco di prelibatezza che riesce
sempre a renderle inimitabili.Famose le "Lune" di
Natale, le cassatelle, i panzarotti e poi il dissetante latte di
mandorla, ma anche un solo caffè, cremoso al punto
giusto,diventa soddisfazione e voglia di tornare. Vive sono le
tradizioni religiose, commovente quella del venerdì santo con l'
Addolorata che segue il Cristo morto e la festa della patrona S.Barbara,
il 4 dicembre, che vede un ricco cerimoniale che dura quasi un
mese. Per l'8 settembre, festa di Maria Bambina, si ripete una
fiera di antica tradizione che di recente si svolge all'interno
dei giardini pubblici Moncada.
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