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Egregio direttore di "Chiamami Città", nel suo fondo del n. 672 ("Se il credito non fa più credito"), lei ha già ben segnalato i confini del problema.
La questione riminese, rispetto al contesto nazionale, ha un valore aggiunto di segno del tutto negativo: l'uso spregiudicato del proprio potere personale da parte di chi, alla vigilia dello scoppio di situazioni particolarmente gravi, tramite interviste concesse a cronisti compiacenti, negava l'esistenza di ogni prospettiva di confusione o di incertezza.
Quanto accaduto di recente mi fa ricordare un incontro avuto molto tempo fa con una personaggio romagnolo della diplomazia italiana e poi uomo di banche pure lui. Concluse la nostra conversazione con una battuta crudele, messa a sigillo di un'analisi delle cose che non andavano nella mia città: "Rimini è mafiosa".
L'ambasciatore non si riferiva alle questioni oggi d'attualità relative alle infiltrazioni malavitose, ma proprio alla serie dei comportamenti di chi gestiva cose ed affari pubblici.
Molte banche a Rimini hanno voluto fare tutto, ed alcune hanno gestito un governo parallelo che ha portato al trionfo di vanità, protezioni, favori, ed alla perdita di valore delle azioni possedute da chi aveva creduto non di fare un affare con esse, ma soltanto di partecipare alla vita collettiva della città.
Lei ha ragione: "Ma le banche che mestiere fanno?". Mi permetto di aggiungere che per comprendere la situazione odierna, dovremmo chiederci pure: "Ma le banche riminesi che mestiere hanno fatto sinora?".
E' venuto il momento di accantonare il sistema tolemaico (con tutto il sistema di governo pubblico cittadino che girava torbidamente attorno a loro), per tentare di credere in quello copernicano, a meno che non arrivi la consueta scomunica, a conferma che il denaro non è lo sterco del demonio. Come le cronache purtroppo raccontano a livello nazionale.
Antonio Montanari |
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