l'elzeviro

  Gli restava poco da esplorare: passato e presente si erano, improvvisamente, congiunti risalendo la vena principale del braccio tracciando una via indelebile che, da allora, sarebbe diventata obbligatoria e urgente.

  Forse c’erano mille colori ad attenderlo, mondi e lune inquietanti o una notte come un abito scuro, definito, logoro che gli avrebbe rigato il volto, curvato le palpebre in una oscurità infinita ai margini della vita.

  Fu così che tutti si misero in viaggio senza una meta precisa, indossando, a loro volta, una pelle aliena, il tempo dello sconforto per ritrovarsi alla ricerca, con strani strumenti, di eventuali tracce di un miglioramento da quella dipendenza capace di forzare, con cento occhi, gli angoli più nascosti della casa alla ricerca di denaro dopo aver svenduto ogni affetto.

   Occorreva disegnare una figura geometrica perfetta, la pietra filosofale e imbrigliare le contraddizioni del giovane, le sue “ecstasy”, piantare il seme della conoscenza, l’albero dei desideri ma si accorsero di non possedere i mezzi necessari e che, per certe faccende, esiste la solitudine. Allora, dissero di dover recuperare un tempo perduto. Ogni volta che si incontravano per discutere, i loro corpi sembravano frammentarsi in un pulviscolo molecolare ricco di energia, la speranza di un big-ben per un nuovo mondo dove gli aerei non sarebbero mai più atterrati (è un eufemismo) sui palazzi, paternità e maternità non sarebbero state un contratto a termine ei gatti, con sette vite, non avrebbero sottratto sette volte, anche nella finction televisiva,il cibo ai poveri della terra che avrebbero volentieri mangiato tutti i gatti, dopo aver sgretolato i ruffiani facili alla commiserazione, senza la pretesa di soddisfare la fame accumulata come un’eredità maledetta.

   C’erano sette mulini a vento come un’apparizione, quella sera, sul davanzale della finestra dello studio del medico a ricoprire la sua immaginazione, a fermare ogni ricerca . Un alito di vento ne animò le pale come larghe vele verso una terra che non esiste. Erano sette domande che non avrebbero mai avuto risposta perché così è la vita, così contraddittoria la realtà e sofferto lo stare in piedi. In tutto questo disordine solo il numero sette era perfetto e quel cielo saturo di colori, perduto nella sua perfezione, negato nella sua intimità a qualsiasi tentativo di interpretazione. C’era forse un mondo superiore e uno inferiore che si confrontavano, uno senza materia con la superbia dei cirri come cavalli bianchi, irrequieti e al quale apparteneva la sua alienazione, il tentativo di poter creare una distanza da ogni materia sofferta, vulnerata e, quello inferiore con i diversi indizi, le molteplici contraddizioni di quel giovane drogato, affidato alle sue cure, al quale apparteneva la sua umanità.

Corrado  Caso

edita sul web il 27 maggio 2002