10. Il ruolo del cardinal Galeotto.
Come osserva Franceschini [p. 392], non sappiamo quanto merito spetti al cardinal Galeotto «delle migliorate condizioni del papato» che permettono di lasciare Napoli con la Curia e di andare a Genova. Galeotto è in viaggio con il Pontefice: «Sperava, come molti altri prelati moderati» che Urbano VI «fatto molto più saggio dalle molte avversità incontrate e dalle umiliazioni subite nell'avventura napoletana, si fosse alquanto ravveduto e fosse più propenso ad ascoltare le istanze di quanti imploravano che si riponessero in libertà i cardinali prigionieri, i quali, al giudizio appunto dei più, non avevano altro torto all'infuori di quello di aver avuto un giudice spietato nella causa giusta ch'essi difendevano». Il problema più grave del momento era quello di assicurare pace all'Italia «per poter rivolgere tutte le forze alla eliminazione dello scisma ed alla riunione della Chiesa. Ma gli sforzi di questi elementi moderati riusarono vani». Fu così, come si è già visto, che Papa Urbano VI lanciò contro i Cardinali Galeotto e Pileo da Prata «l'accusa d'aver ordito un complotto per avvelenarlo od ucciderlo», come loro stessi narrano in una «lettera circolare», dove si ricorda il loro tentativo di far liberare «illos cardinales captivos, qui etiam hosti crudelissimo miserandi erant» [Franceschini, p. 393, ed ivi nota 1]. In quell'ostinata residenza di Urbano VI a Nocera, osserva Muratori [Annali, 8, Milano, p. 410], patisce la dignità della santa Sede, al punto che un «ardito legista», Bartolino da Piacenza teorizza che i Cardinali potessero «dargli uno o più Curatori» [Annali, 8, cit., p. 411]. Il Cardinale Tommaso Orsini di Manoppello segretamente avvisa il Papa che ci sono dei Cardinali che stanno sposando la tesi di Bartolino: «Fu in oltre supposto al Papa, che essi avessero tramata una congiura per prenderlo nel dì 13 di Gennaio, e di condannarlo poscia come Eretico». Spiega Muratori che quei cardinali sono sei, gli arcivescovi di Taranto e Corfù, i porporati di Genova, Londra, San Marco e Santo Adriano. Muratori precisa anche che secondo altre fonti, essi sarebbero non sei ma cinque. Circa Bartolino da Piacenza, va detto che si tratta di «un tal Bertolino Gabelli» o di «un Bertolino da Piacenza, Arciprete di S. Pietro Castel di Verona» [cfr. C. Poggiali, Memorie storiche della città di Piacenza, VII, Giacopazzi, Piacenza 1759, p. 15]. Leggiamo nel cit. Becchetti [«Istoria degli ultimi quattro secoli della Chiesa», tomo I, Fulgoni, Roma 1788, p. 121], che al cardinale di Rieti Pietro Tartaro non «era stato difficile di ritrovare un curiale, per nome Bartolino di Piacenza, che più ardito degli altri e più intraprendente formasse un piano per condurre a fine questa congiura. Avvezzo costui come era a sostenere tutte le più disparate cause per avidità di danaro, stese uno scritto diviso in dodici articoli, o questioni, ed in esso per attestato di Teodorico di Niem, il quale lo ebbe sotto gli occhi, pretese di provare che se il Pontefice fosse o negligente nella esecuzione dei doveri del suo sacro ministero, o incapace di governare, e così amante delle proprie opinioni, che per sostenerle mettesse mettesse in pericolo la Chiesa, o amasse far tutto il suo capriccio senza il Consiglio dei Cardinali
». Urbano VI l'11 gennaio 1385 fa arrestare, incarcerare e torturare i sei cardinali dissidenti [cfr. M. Dykmans, in Dizionario Biografico degli Italiani, vol. 26 (1982), ad vocem COGORNO, Bartolomeo], ovvero i citati Bartolommeo di Cogorno, Gentile di Sangro, Giovanni d'Amelia, Ludovico Donati, Marino del Giudice e l'inglese Adam Easton. Il quale è però liberato per intervento di Riccardo II re d'Inghilterra, ma è pure privato dal papa della dignità, restituitagli da Bonifacio IX. A lui è attribuito il trattato «De potestate ecclesiae», contro le teorie di Marsilio da Padova e di Occam. I cinque rimasti, il papa «li fece affogar in mare, o strangolare in prigione» [Roseo da Fabriano, T. Costo, Compendio dell'Istoria del Regno di Napoli di Pandolfo Collenuccio da Pesaro, Gravier, Napoli 1770, p. 543], secondo le versioni dei fatti giunte a noi. «Chi disse, che furono affogati in mare entro dei sacchi; ma Gobellino scrisse, che furono strangolati in prigione» [L. A. Muratori, Annali, XII, cit., p. 323]. Gobelinus cit, p. 267, scrive: «Dominus Papa recessit de Ianua, et in recessu quinque Cardinales, quos usque tunc in carceribus detinuit, ibidem mortuos reliquit, sed quomodo, aut quali morte vitam finierint, non plene mihi constat. Undecimo tamen anno Domini Bonifacii Papae, succesoris immediati Domini Urbani, intellexi a quodam, qui dixit se eorum sepulturae praesentem fuisse, quod ipis in carcere iugulati, et in stabulo equorum clam noctu sepulti fuerint». La traduzione di questo passo si trova in Odorico Rinaldi, «Continuatione degli Annali ecclesiastici», Masotti-Chellini, Roma 1783, p. 497: «Il Papa nella partenza sua da Genova vi lasciò morti cinque Cardinali tenutivi insino all'hora in prigione: ma come, o di qual morte e' finissero, non m'è manifesto. Ben'è vero, che nell'anno undecimo di Papa Bonifacio immediato successore di Urbano io udii raccontare da uno, il qual disse d'essersi trovato presente, quando furon sepelliti, ch'erano stati strangolsti nella carcere, e sotterati di notte nascostamente in una stalla di cavalli». Torniamo a Muratori che a p. 324 parla dei sospetti del Papa sugli autori della congiura, individuati in Pileo da Prata Arcivescovo di Ravenna ed in Galeotto Tarlati da Pietramala: «amendue conoscendo, a che pericolo fosse esposto, chi solamente cadeva in sospetto presso un Pontefice sì violento, se ne fuggirono da Genova
». Muratori scrive [Annali, VII, Pasquali, Milano 1744, p. 412]: «Narra l'autore degli Annali napoletani, che il Pontefice assediato tre, o quattro volte il dì s'affacciava ad una finestra, e colla campanella e torcia accesa andava scomunicando l'esercito del re; e l'esercito non per questo si moveva di là. Durante questo assedio, furono altre volte crudelmente martoriati i cardinali prigioni per farli confessare. Teodorico da Niem presente non poté reggere a quell'orrendo spettacolo. Niun d'essi secondo lui confessò. Furono rimessi nelle carceri coll'ossa slogate, a patir fame e sete e gli altri malori della prigionia». Teodorico da Niem è Dietrich von Niem, scrittore della cancelleria pontificia, scompare nel 1418. L'anno dopo, nel 1386, due Cardinali di Urbano VI fuggono da lui e vanno a Milano da Gian Galeazzo Visconti conte di Vertù, «il quale già aveva preso grande isdegno» con lo stesso papa Urbano, e che si riteneva parteggiare adesso per il papa di Avignone. (Il nome di conte di Vertùgli deriva dalla contea di Vertus portata in dote [1360] dalla moglie, Isabella di Valois, figlia del re di Francia Giovanni II: cfr. A. Gamberini, Gian Galeazzo Visconti, DBI, 54, 200.) Nella «Cronica volgare di anonimo fiorentino dall'anno 1385 al 1409», di Piero di Giovanni Minerbetti, in «Rerum Italicarum Scriptores», II, Firenze 1770, col. 101-105, leggiamo: «Furono i detti Cardinali, l'uno il Cardinal di Ravenna, il quale era di nazione Frigolano, ed era savio, e malizioso, e ardito molto; e l'altro fu Messer Galeotto di Messer Magio di Pietramala, il quale era molto giovane. Questi due Cardinali non stato poi lungo tempo quivi, si accordarono col Papa d'Avignone, e a lui credettero, e da lui ebbono grandi rendite di beneficj. Ma pur per allora si rimasono in Savoia» [cfr. Gobelinus cit, p. 267]. I due cardinali scappano perché il papa li accusa d'averlo voluto uccidere, avvelenandolo: «E questo disse Papa Orbano in Consistoro in loro presenza, essendovi tutti gli altri Cardinali, e molti altri uomini presenti. Laonde li detti Cardinali si fuggiro da Genova per paura della furia sua». Il papa li scomunica, privandoli del cappello e di ogni beneficiio, «e fece questo predicare in tutte le Terre d'Italia, e altrove». Saputo di questo, i due Cardinali partono dalla Savoia e vanno ad Avignone da Papa Clemente, «e fu fatto loro grande onore da lui, e da tutti gli altri Cardinali, che con lui erano». I due Cardinali trovano riparo a Pavia, secondo la ricostruzione di Gino Franceschini (p. 393) che scrive: «Riuscite vane le pratiche intercorse fra il Conte di Virtù ed il pontefice, per ottenere la liberazione dei cardinali prigionieri e il perdono verso i due fuggiaschi, questi l'8 agosto 1386 pubblicavano una violenta requisitoria contro Bartolomeo Prignano, che usurpava, dicevano essi, la dignità del pontificato romano, causando gl'innumerevoli mali che affliggevano la Chiesa, l'Italia e la Cristianità tutta». (Il Visconti nel 1386 invia un'ambasciata «presso Urbano VI per offrire al papa la sua intermediazione per la riappacificazione del papa con alcuni cardinali - in particolare Pileo da Prata e Galeotto Tarlati di Pietramala, accusati di aver complottato contro Urbano VI e rifugiatisi proprio presso la corte viscontea - e per la soluzione dello scisma»: cfr. «The Languages of Political Society. Western Europe, 14th-17th Centuries», a cura di A. Gamberini, J-P. Genet, A. Zorzi, Roma 2011, p. 129, nota 29.) Osserva Franceschini: il testo della loro «aspra requisitoria» documenta che i due Cardinali «erano passati all'obbedienza di Clemente VII». Ma essi, prima di recarsi ad Avignone, si fermano in Savoia come si è appena visto, per conoscere la reazione di Urbano VI: «Il 13 settembre il pontefice faceva pubblicare da Genova i processi contro i due cardinali deposti e scomunicati», come documenta P. Stacul, Il cardinale Pileo da Prata, Roma 1957, pp. 346, 544-545. Da parte di Clemente VII arriva subito a Galeotto un donativo di quattromila scudi per una prima sistemazione, a cui fa seguito la sua creazione a Cardinale diacono di San Giorgio in Velabro. Galeotto entra in Avignone il 4 maggio 1387, trovando altri due colleghi toscani, Pietro Corsini e Tommaso degli Ammannati Vescovo di Napoli (Franceschini, pp. 394-395). Galeotto resta in Curia ad Avignone per nove anni. Il 10 marzo 1391 Clemente VII gli conferisce la prepositura di San Cristoforo dell'Ordine degli Umiliati. Morto Clemente VII (il 16 settembre 1394), Galeotto sostiene la candidatura di Pedro Martínez de Luna, divenuto Benedetto XIII: «Lo legava al nuovo pontefice una profonda stima e un'amicizia nata fin da quando aveva potuto riconoscere nel cardinale de Luna specchiata rettitudine e profonda cultura e il comune amore per gli studi di umanità e la ricerca degli antichi testi» [Franceschini, p. 395]. La ricostruzione di Gino Franceschini ed i documenti in essa contenuti offrono una versione diversa da quella che si legge in Onofrio Panvinio, secondo il quale Urbano VI aveva restituito il cardinalato a Galeotto. E ciò «in gratiam sororis suae», moglie del proprio nipote Francesco Prignano [Panvinio, op. cit. Epitome, pag. 260: «Galeottus de Petra Mala [
] cum fido Cardinale Ravennae fugit, verum non longe post in gratiam sororis suae [
]»]. Dall'Ammirato (S. Ammirato, Delle famiglie nobili napoletane, Parte prima, Marescotti, Firenze 1580, pag. 160) si ricava l'esistenza di una Agnese di Pietramala, moglie di Filippo Iamvilla (o Gianvilla), deceduto nel 1382, e figlia del non meglio determinato «Signore di Pietramala» e di Caterina de Hugot signora di Campomarino. [Altre notizie, con rinvio al cit. Ammirato, sono in C. De Lellis, Discorsi delle famiglie nobili del Regno di Napoli, Parte prima, Honofrio Savio, Napoli 1654, p. 42. Qui , dove il nome della signora però è Agnesa. Sua madre Caterina de Hugot nasce da Pietro de Hugot iuniore signore di Campomarino dal 1340. Per un albero genealogico della famiglia, cfr. A. Mustoxidi, Le cose corciresi, Tipografia del Governo, Corfù 1848, p. 694. Il nome Hugot diventa poi in uso Ugoti o Goti (cfr. ivi p. 446).] È stata questa Agnese vedova a diventare amante del Prignano? Circa la parentela con il Cardinal Galeotto, non si può però sostenere che ne fosse sorella, ma semmai una nipote. Le cronache narrano che la moglie del Prignano è sì una Agnese, bellissima, ma di cognome fa Ruffo. Per Francesco Prignano si legge pure che a Napoli rapì da un monastero «una Monaca professa, di nobile condizione, e la tenne seco nel suo appartamento» [J. Hardion, Storia universale, XIII, Tasso, Venezia 1834, p. 210]. Del Cardinal Galeotto, scrive Eugenio Gamurrini [Istoria genealogica delle famiglie nobili toscane et umbre, I, Onofri, Firenze, 1668, p. 197]: egli era «ornato di una finissima prudenza, e di un coraggio incomparabile, per il che si era reso in posto di gran stima, e desiderabile a tutti i Principi». Gamurrini per confermare il lettore nella propria immagine del porporato, cita questi versi dalla Cronica di Arezzo, Capitolo X di Bartolomeo Gorello: «Da Pietramala quel Cappel Vermiglio / Famoso di virtù oltre l'etade / Raccolse lui con amoroso ciglio». [I versi si trovano anche in Cronica dei fatti d'Arezzo di Ser Bartolomeo di ser Gorello, a cura di A. Bini e G. Grazzini, in R.I.S. Tomo XV, I, a cura di G. Carducci e V. Fiorini, Bologna 1917, p. 89. Su Galeotto cfr. ivi la nota 1.] Nel dicembre 1386 papa Urbano se ne va da Genova a Motrone, nel litorale di Pietrasanta. Alla vigilia di Pasqua 1387 entra a Lucca, restandovi sino al 22 settembre 1387. Con lui sono dieci cardinali. Nel frattempo a Genova in una stalla da cavalli sono rivenuti nove cadaveri, cinque dei quali sono dei Cardinali che il papa «avea tenuti lungamente e in misera prigione» [Minerbetti, cit., col. 104] per i contrasti, mentre gli altri quattro sono di grandi prelati. Dall'esame dei corpi, pare emergere che egli prima li fece imbavagliare, e poi sotterrare ancora vivi. Secondo altre testimonianze, li avrebbe fatti uccidere prima di farli sotterrare. Il papa si difende: volevano uccidermi. Sulla famiglia a cui appartiene Bartolomeo di Pietramala, si legge nello stesso testo: «Aveano quegli da Pietramala, cioè quella famiglia lungo tempo signoreggiata con le loro ladronaie tutte quelle contrade, e molestate, e rubate, e guaste. Ma la verità era, che tutte le Castella, che tenevano, erano del Comune di Arezzo, e però le vollono i Fiorentini» [Minerbetti, cit., col. 84]. [Continua.] Antonio Montanari (c) RIPRODUZIONE RISERVATA |