Antonio Montanari Nozzoli
Rimini 1061, una guerra dimenticata


Una vicenda politica del sec. XI emerge dalla nuova lettura di un componimento poetico di quel periodo, opera di Pier Damiano, proposta nel 1965 da uno studioso illustre, il prof. Scevola Mariotti (1920-2000). La vicenda è ambientata a Rimini, ma coinvolge pure i territori delle Marche ed inevitabilmente il quadro politico-religioso italiano, su cui lasceremo la parola a Ludovico Antonio Muratori per documentare pure il ruolo svolto dallo stesso Pier Damiano in àmbito ecclesiastico.


La lezione delle parole

Nel 1964 a Stoccolma Margareta Giordano Lokrantz (1935-2004), allieva dello studioso della latinità medievale Dag Ludvig Norberg (1909-1996), pubblica L'opera poetica di S. Pier Damiani, contenente la descrizione dei manoscritti e la loro edizione [1]. Tra i componimenti più famosi, c'è il n. XCIX, ovvero il Bennonis Epitaphium, come è intitolato nell'Opera omnia apparsa «Parisiis, Sumptibus Caroli Chastellain, MDCXLII» (tomo IV [2] , p. 22) e riedita nel 1743 sempre a Parigi [3]. Eccone il testo completo nell'edizione del 1964:

Ariminum, luge, lacrimarum flumina funde;
Laus tua Benno fuit, pro dolor ecce ruit.
Benno decus regni, Romanae gloria genti,
Ipse pater patriae, lux erat Italiae.

Hunc socium miseri, durum sensere superbi;
Lapsos restituit, turgida colla premit.
Fit leo pugnanti frendens, tener agnus inermi;
Hinc semper iustus perstitit, inde pius.

Hic fidei dum iura colit, dum cedere nescit,
Firma tenens rigidae pondera iustitiae,
Reticolae iugulus prauorum pertulit ictus.
Per quem pax uiguit, bellica sors perimit.

Obsecro, tam diram sapientes flete ruinam
Et pia pro socio fundite uota Deo.

Il v. 12 dell'epitaffio è edito da Lokrantz come «per quem pax uiguit, bellica sors perimit», anziché il classico «bellica sors periit», per cui abbiamo: «la guerra uccise colui per merito del quale fiorì la pace» (anziché «per lui fiorì la pace, la guerra cessò»). Questa traduzione è contenuta in un testo pubblicato nel 1965 dal prof. Scevola Mariotti [4], in cui si ricorda come la nuova lettura del v. 12 offerta da Margareta Lokrantz, comporti conseguenze «di ordine storico». Mariotti precisa: «…a quanto pare, Bennone fu ucciso in un fatto di guerra». (D'ora in avanti chiamiamo Benno il personaggio detto Bennone da Mariotti, seguendo lo stesso Pier Damiano che inizia così l'epitaffio: «Ariminum, luge, lacrimarum flumina funde; / Laus tua Benno fuit».)
L'accenno contenuto nell'epitaffio sarebbe l'unica testimonianza pervenutaci di lotte locali tanto violente da giungere all'uccisione di un capo politico cittadino. Benno infatti è definito da Pier Damiano «onore del regno, gloria della stirpe romana, padre della Patria, luce dell'Italia» («Benno decus regni, Romanae gloria genti, / Ipse pater patriae, lux erat Italiae», vv. 3-4). Padre della Patria o della città era chiamato il rappresentante della vita municipale che doveva vegliare alla difesa del Comune sotto il dominio della Chiesa romana. Era una figura ben distinta dal Conte, il quale era un delegato pontificio od imperiale. Uomo giusto e pio, severo con gli oppositori ma dolce con gli indifesi, Benno è quindi dato da Pier Damiano per ucciso nel corso di una «guerra»: «lui, per merito del quale fiorì la pace», fu forse vittima di una lotta sulla cui origine possono essere avanzate soltanto ipotesi connesse al ruolo politico svolto dallo stesso Benno.
Uomo di fede e difensore degli interessi della Chiesa (altrimenti Pier Damiano non l'avrebbe glorificato), mentre la feudalità laica mirava ad una sostanziale autonomia politica ed aumentavano i sostenitori dell'indipendenza cittadina, Benno probabilmente non riuscì a pervenire ad una sintesi originale tra mondo laico ed ecclesiastico, per conciliare gli interessi «particulari» cioè cittadini con quelli della sede di Pietro. I riminesi possono aver visto in Benno un capo che finiva per essere più il rappresentante del Pontefice (come il Conte) che della loro stessa comunità. E quindi possono aver cessato di considerarlo come un'espressione della giustizia e dell'equilibrio nei rapporti fra la città e Roma. Nell'additarlo pubblicamente come traditore, sarebbe stata così scritta la sua condanna a morte. Portata ad esecuzione nell'anno stesso [5] della fondazione del monastero di San Gregorio in Conca, il 1061.
Ho ripreso sin qui una mia breve nota giornalistica [6] del 1983, in cui concludevo che la morte violenta di Benno potrebbe inserirsi nella serie di azioni che precedono la nascita del Comune, e testimonierebbero una serie di fermenti che coinvolsero la Chiesa, l'impero e la realtà cittadina. Ritorno a queste vecchie righe soltanto perché, negli ultimi trent'anni, non è venuto da parte di più autorevoli e prestigiosi autori, nessun nuovo contributo sulla figura politica di Benno e sulla sua tragica fine, ipotizzabile attraverso le fondamentali annotazioni di Scevola Mariotti all'edizione critica di Margareta Lokrantz.
Nel 1997 ho citato l'opinione di Scevola Mariotti in una nota al testo della Storia di Rimino dalle origini al 1832 di Antonio Bianchi, nel cap. 12 dedicato all'XI secolo [7]: «Mariotti precisa che questa nuova lettura comporta conseguenze "di ordine storico". Ed ha ragione: se Bennone fu ucciso, il fatto va inquadrato in lotte precomunali nel corso delle quali egli sarebbe stato colpito per il ruolo di "pater patriae" che gli viene attribuito da Angelo Battaglini, in Saggio di Rime [8], Rimini 1783, pp. 8-14».
Delle lotte precomunali si occupa lo stesso Antonio Bianchi proprio all'inizio del suo cap. 12, come necessaria introduzione alla raccolta delle notizie elencate in successione cronologica: «Se la prima metà di questo secolo non fu totalmente pacifica pel nostro paese, peggiore di molto dovett'essere l'altra metà, giacché alleggeritosi in Italia il predominio dell'autorità imperiale, crebbe talmente lo spirito d'indipendenza, che ogni città, ogni vescovo ed ogni conte, insomma qualsiasi persona potente, che avesse mezzi da sostenersi voleva farla da padrone assoluto…» [9].
Degna di analisi è la parte dello scritto di Antonio Bianchi dedicata al «pater civitatis»: «Oltre i conti, altra autorità esisteva nelle nostre città col titolo di "pater civitatis", che doveva essere il capo della magistratura civile; il più antico di cui ci sia rimasta memoria è un certo Bennone, morto fra il 1028 e il 1061 [10]; del medesimo abbiamo un pomposo elogio scritto da San Pier Damiano [11], il quale aveva ottenuto dallo stesso Bennone e da altri di sua famiglia molti terreni, sopra uno dei quali fabbricò il monastero di San Gregorio in Conca, che nel 1071 lo stesso San Pier Damiano mise sotto la protezione del vescovo di Rimini e dei suoi successori [12]. Molto ricca e potente era la famiglia di quel Bennone, possedendo castelli e molti terreni, come rilevasi dai documenti pubblicati dal chiarissimo canonico Battaglini [13]».
Subito dopo, Antonio Bianchi, sotto l'anno 1060, scrive: «Goffredo duca di Toscana […] fa eseguire un concordato fra l'abbate di Pomposa ricorrente contro alcuni ivi nominati, i quali promisero di non recare alcuna molestia tanto nelle persone che ne' beni di detta abbazia esistenti nel Contado di Rimini: vi erano presenti, fra molti altri» il vescovo di Rimini e due giudici della stessa città, uno dei quali è «Petrus de Benno» [14], ovvero Pietro figlio [15] del Benno da cui siamo partiti. Nel 1060 il Pater Civitatis ricordato è Bernardus [16]: però «del suo governo non sappiamo né il cominciamento né la durazione» [17]. Goffredo voleva proteggere Rimini e le altre città come Pesaro, le più esposte alle armi tedesche «qualora queste, calate in Italia, avessero per questa parte della Romagna preso cammino a ricondurre l'Antipapa all'ambita sede di Roma: oltreché qui d'appresso l'Arcivescovo di Ravenna era spacciato partigiano imperiale» [18].
Pietro figlio di Benno è divenuto celebre per un'altra donazione [19 del 1069 a favore dello stesso Pier Damiano. Nel 1070, come vedremo, Pier Damiano dona il monastero di San Gregorio in Conca al Vescovo di Rimini [20]. Questa donazione è molto importante circa la sua consistenza, come scrive Luigi Tonini: infatti riguarda «tutti i possedimenti suoi». Lo storico riminese li elenca nel testo (p. 327) citandoli dal documento LVII, poi riprodotto integralmente (pp. 542-545) da copia autentica conservata nelle Schede Garampi della Civica Biblioteca Alessandro Gambalunga di Rimini (cfr. p. 545). Nel 1071 «Opizone vescovo di Rimini si obbliga a proteggere e difendere il Monastero di S. Gregorio in Conca», come leggiamo nel titolo del documento n. LXI del 16 novembre, in cui si cita il «bone memorie» Pietro Bennone [21].
Nelle Memorie istoriche di Rimino e de' suoi signori pubblicate da Francesco Gaetano Battaglini a Bologna nel 1789 presso Lelio dalla Volpe, leggiamo un ricordo sia di Benno («Bennone di Vitaliano») sia di suo figlio Pietro in una pagina che merita attenzione. Francesco Gaetano Battaglini prima richiama il parere espresso da suo fratello Angelo Battaglini (che abbiamo visto cit. in Antonio Bianchi) circa i conti riminesi dell'XI sec., secondo cui non erano «Governatori, ma semplici conduttori de' proventi del Riminese contado appartenenti alla Camera Pontificia» [22]. Poi, in base a questo fatto, egli differenzia e precisa il ruolo di Benno, a cui era affidata «la pubblica amministrazione della giustizia». Partendo proprio dall'epitaffio di Pier Damiano, Francesco Gaetano Battaglini osserva: «certamente se n'ha a dedurre, che quel Pater patrie della città nostra fu l'unico depositario della giustizia, e della pace de' Riminesi». E conclude che non si può «credere, che ad un uom sì giusto, e sì reputato, e che pel governo da sé fatto meritò encomio sì degno, fosse prima di sua morte tolta di mano la bilancia della giustizia».
Angelo Battaglini, a sua volta, ricorda la crisi politica del periodo, con il «lasciare all'arbitrio de' più potenti l'attruppar genti, e muover le forze per decider di lor ragioni». In tale contesto, non «sembra, che il comune diritto de' cittadini potesse sussistere illeso senza d'un qualche valido avvocato o proteggitore» [23]. Il «pubblico patrocinatore», ovvero «cittadino di potere di senno e di probità fornito», è detto appunto «Padre della Patria» [24]. Aggiunge Angelo Battaglini che «tale ci fu dipinto Benno figlio di Vitaliano» da san Pier Damiano [25]. Infine, secondo lo stesso Angelo Battaglini, si può ipotizzare che nelle città di Esarcato e Pentapoli sia presente quel «Padre della Patria» che egli ha trovato descritto nelle storie ravennati, «non per iscuotere il supremo dominio della Chiesa Romana, ma per essere liberati dall'angariante governo de' Conti, e per ridursi in una forma di stato libero al solo immediato dominio della Chiesa stessa soggetto» [26]. Per Giuseppe Ferrari [27], a Ravenna i «padri della Patria» sono i Conti «nominati alla caduta del regno» sul finire del sec. X. (Ravenna è detta da Ferrari «padrona dell'arcivescovado» e dominatrice di tutta la Romagna [28]).
Luigi Tonini, richiamandosi alle pagine dei fratelli Battaglini [29], ipotizzava che l'elogio di Benno indicasse «servigi prestati alla società sedendo molto più in alto che entro le mura della patria», e concludeva: «Per la qual cosa, mentre non ci asteniamo dal recare le nostre dubitazioni su quest'uffizio, proviamo vivissimo il desiderio che altre memorie ci venissero ad illustrazione di cariche vere sostenute da personaggio sì venerando». Qualche riga prima aveva già osservato: «Per quanto volesse credersi esagerato questo encomio», ovvero l'epitaffio appena riprodotto dal Tonini, «tuttavia è a tenere che Bennone abbia esercitate cariche luminose non solo nella patria, ma anche fuori; delle quali siamo in perfetta ignoranza, poiché né Storia alcuna parla di lui», né si ritrova il suo nome negli atti relativi accompagnato da dignità o magistratura ricoperta [30].
Di tutti i passi che abbiamo letto nei fratelli Angelo e Francesco Gaetano Battaglini, non c'è la minima traccia in un saggio [31] del 1999 in cui è citato il nostro Benno, considerandolo «un esperto di diritto sulla base di un passaggio dell'epitaffio», quello appunto in cui si legge che egli fu «decus regni, gloria Romanae gentis, pater patriae» e «lux Italiae» [32]. In questo saggio del 1999 si aggiunge che si tratta perciò «di un personaggio di primo piano e non solo a livello locale». Benno, che è «membro eminente del ceto dominante cittadino», incarna nei versi di Pier Damiano «la figura del perfetto governante» che sa essere «iustus» e «pius». Nulla si legge nel saggio del 1999 del suggerimento di Scevola Mariotti («…a quanto pare, Bennone fu ucciso in un fatto di guerra»).
La stessa osservazione vale a proposito dell'edizione apparsa nel 2007 delle Poesie e preghiere di Pier Damiano [33] che del v. 12 dell'epitaffio in questione («Per quem pax uiguit, bellica sors perimit»), propone questa traduzione: «Grazie a lui si rafforzò la pace e scomparvero le minacce di guerra». Su questo volume, in relazione all'epitaffio che ci interessa, sono inevitabili due osservazioni di fondo. Anzitutto l'edizione 2007 è condotta su quella di Margareta Lokrantz, per cui il testo del v. 12 reca correttamente «bellica sors perimit» e non «bellica sors periit», come abbiamo già sottolineato. La traduzione però non coglie la differenza tra l'antico «periit» ed il nuovo «perimit». Differenza che, come si è visto, è ben segnalata e sottolineata da Scevola Mariotti, con quel che ne consegue sul piano del contenuto storico.
La traduzione, infine, non tiene conto di una semplice regola sintattica che riprendiamo da un classico testo (che un tempo, parlo di mezzo secolo fa, era obbligatorio conoscere bene per sostenere gli esami di Lingua latina almeno all'Ateneo felsineo), il Gandiglio-Pighi da cui cito: «Le forme oblique del pronome determinativo "is" [...] e dei pronomi personali ordinariamente s'omettono quando il nome della persona o della cosa a cui il pronome si riferisce è espresso nello stesso caso nella proposizione che precede...» [34]. Ovvero il v. 12 va "costruito" così, per farne una corretta traduzione: «Per quem pax viguit, bellica sors [eum] perimit». L'«eum» omesso è l'«antecendente pronominale» per cui si ha questa struttura logica del verso: «bellica sors perimit [eum] per quem pax viguit»: ovvero, «la guerra uccise [colui] per merito del quale fiorì la pace» come appunto, con chiarezza, traduce Scevola Mariotti.
Circa il saggio del 1999, va precisato che la citazione dall'epitaffio non rispetta la versione Lokranz, quando è ricordato il titolo di «gloria Romanae gentis», che la stessa Lokranz modifica in «gloria Romanae genti» per motivi che non sono chiari, derivando esso dall'Eneide, VI, 767 dove si legge «Troianae gloria gentis». Nell'edizione italiana delle poesie di Pier Damiano del 2007, il testo della Lokranz è rispettato («gloria Romanae genti», p. 326), ma in nota c'è un duplice errore: si modifica la citazione virgiliana da «Troianae gloria gentis» in «Troianae gloria genti» (per adeguarla stranamente alla versione della Lokranz del testo damianeo?), e la si indica come «XII, 907», anziché «VI, 767».
Nel 2010 esce il primo volume della «Storia della Chiesa riminese», intitolato Dalle origini all'anno Mille, dove si parla di «Bennone figlio di Vitaliano detto Bennio, che nel 1014 dona al figlio Pietro il castello di Morciano», e lo si dichiara «un importante esponente del ceto dirigente riminese, definito da Pier Damiani decus regni, pater patriae, lux Italiae» [35]. In nota, si rimanda al testo sopra esaminato del 1999, senza ulteriori notizie. Recensendo sul web questo volume, facevo notare quello che mancava sulla figura di Benno [36], e che il lettore ha già qui appreso da quanto scritto. La risposta ufficiale mi è venuta nel 2012 dal secondo volume della stessa «Storia della Chiesa riminese», dove lo studioso che ha composto il saggio del 1999 ha osservato: l'ipotesi di Scevola Mariotti (che «alluderebbe alla morte violenta di Bennone»), «è accolta dal Montanari, che inquadra il fatto in non meglio precisate lotte precomunali». E qui si rimanda alla mia già cit. nota di p. 99 alla Storia d'Antonio Bianchi.
Come ho sopra osservato, è lo stesso Antonio Bianchi che a p. 94 della sua opera scrive: «alleggeritosi in Italia il predominio dell'autorità imperiale, crebbe talmente lo spirito d'indipendenza, che ogni città, ogni vescovo ed ogni conte, insomma qualsiasi persona potente, che avesse mezzi da sostenersi voleva farla da padrone assoluto». Queste sono le lotte precomunali riassunte dall'autore stesso della Storia di Rimino, che evidentemente non è stata fornita integralmente al censore per rispondere alle mie osservazioni. (Posso ipotizzare, come ho scritto allo stesso autore del saggio, che persone poco informate dei fatti gli abbiano fornito, per pura malevolenza nei miei confronti, fotocopia soltanto della p. 99 dell'opera di Antonio Bianchi, e non di tutto il capitolo che inizia a p. 94…)
Nel passo che mi riguarda in questo vol. II della «Storia della Chiesa riminese», immediatamente dopo la citazione riportata, si legge: «Di avviso diverso sono stati, invece, i traduttori dell'opera omnia del Damiani, i quali rendono il passo con una versione più neutra, che esclude ogni riferimento a effettive vicende politiche riminesi: "grazie a lui si rafforzò la pace e scomparvero le minacce di guerra"» [37]. Non si tratta, in verità, di offrire versioni più pronunciate o neutre del testo in questione, ma soltanto di comprendere, come ho già scritto, il costrutto sintattico sottolineato da Scevola Mariotti. Il verso edito da Lokranz come «per quem pax uiguit, bellica sors perimit», non può avere altra versione che quella suggerita da Mariotti stesso («la guerra uccise colui per merito del quale fiorì la pace»), in virtù soltanto della ricordata regola sintattica dell'«antecendente pronominale» omesso. D'altro canto, non è colpa del lettore se in una stessa pagina dell'Opera omnia di Pier Damiano, come abbiamo visto, il ricordo di un verso dell'Eneide ha un doppio errore nel rimando al testo e nella citazione testuale (per cui, come si è visto, «gentis» diventa «genti»). Non è certo colpa della vista del Montanari a cui sfuggono i contorni. Errare humanum est, sed perseverare… E soprattutto non sta bene perseverare quando di tratta di una storia della Chiesa. O forse, proprio per questo, il Maligno meglio si cela tra le pagine dei relativi libri? (Viene purtroppo in mente l'«Agnosco stilum…» di Paolo Sarpi.)
Ritorniamo al discorso sulla donazione del 1069 da parte di Pietro di Benno al monastero di San Gregorio in Conca. Si è già ricordato che nel 1070 Pier Damiano dona al vescovo di Rimini il monastero stesso. A proposito di questo atto, nel cit. saggio del 1999 leggiamo che «non è facile capire» il gesto di Pier Damiano [38]. La "risposta", l'autore del saggio ce la dà in un altro suo lavoro [39] del 2002, ora raccolto in un volume (2007) molto importante ai fini anche del discorso su Benno. Questa "risposta" si può sintetizzare con un passo in cui si ricorda la ferma opinione di Pier Damiano, secondo cui «le proprietà delle chiese servono per il sostentamento dei poveri e dei deboli, compito essenziale dell'ufficio vescovile» [40]. Poco dopo leggiamo ancora il passo fondamentale per comprendere il gesto damianeo del 1070: «il vescovo compare come il destinatario delle donazioni dei fedeli» [41]. Tutta l'analisi condotta nel saggio del 2002, parte da documenti damianei anteriori allo stesso 1070. Quindi i conti tornano perfettamente per quanto riguarda l'atto di trasferimento della donazione ricevuta nel 1069, al Vescovo di Rimini l'anno successivo.
Nel saggio del 2002 non si parla di Rimini, come invece lo stesso autore deve fare nel cit. secondo volume della «Storia della Chiesa» di questa città (2012). Merita ora di esser citato un passo fondamentale nel nostro discorso: Rimini era «oggetto di una costante attenzione da parte del gruppo riformatore romano, che aveva uno dei suoi elementi di spicco in Pier Damiani, il quale coinvolse i vescovi della Romagna nel vasto movimento di riforma propugnato dall'imperatore Enrico III» [42]. A questo punto, tralasciando i precisi riferimenti alla situazione ecclesiale di Rimini che non rientra nel nostro discorso, va detto che è introdotto un importante richiamo a «Bennone di Vitaliano», cioè al nostro Benno, definito «capostipite di un'importante famiglia di vassalli episcopali, dotata di ingenti patrimoni a cavaliere tra la città e il contado» [43]. Si cita poi anche Pietro di Benno per concludere: «Siamo perciò di fronte a personaggi di primo piano nella vita riminese, in contatto strettissimo con persone del calibro di Pier Damiani, consigliere di papi e imperatori e scrittore tra i massimi del Medioevo europeo. L'epitaffio di Bennone è il frutto del legame affatto particolare che raccordava le élites cittadine e il Regno italico, concretizzandosi in peculiari modelli culturali e di comportamenti ispirati alla classicità e sintetizzati in una tavola di valori al contempo civili e religiosi» [44].
Importante è anche la conclusione su Pier Damiano e la sua attività che potremmo definire «politica», per la sua «intenzione di estendere la sfera d'influenza del papato in una zona di confine tra l'area romana e quella ravennate, nel quadro di una generale ristrutturazione della geografia politica ed ecclesiastica della regione nordadriatica» [45]. Qui c'imbattiamo in un passo in cui l'atto del 1070 (con cui Pier Damiano pone la donazione del 1069 sotto la protezione del Vescovo di Rimini, concedendo a lui ed ai suoi successori la piena proprietà del monastero di San Gregorio in Conca), è definito come una «apparente schizofrenia» che «può forse spiegarsi con l'intenzione del Damiani di rafforzare il vescovo di Rimini, fedele ad Alessandro II, in contrapposizione alla filoimperiale Ravenna».
Tutto il contesto qui descritto segnala quelle tensioni di cui mi occupavo nel 1983 nella breve nota giornalistica, concludendo che la morte violenta di Benno potrebbe inserirsi nella serie di azioni che precedono la nascita del Comune, e testimonierebbero una serie di fermenti che coinvolsero la Chiesa, l'impero e la realtà cittadina. Stando così le cose, non vedo dove sia il motivo di scandalo in quanto da me scritto nel 1983 e brevemente riassunto nella nota all'opera di Antonio Bianchi. L'accusa del 2012 di non aver precisato a quali lotte precomunali mi riferissi, meraviglia soprattutto perché tutto il lungo capitolo sulla «Storia della Chiesa riminese» nell'XI sec. (pp. 49-66), le illustra con estrema chiarezza, in un capitolo che è naturaliter dedicato alla «lotta per le investiture». Non volendo apparire come il portatore di una provocazione puramente accademica, alla quale non ho alcun titolo, cedo la parola a chi ha sufficiente autorità per essere ascoltato. E riassumo il quadro storico dell'Italia del decimo secolo e della crisi della Chiesa, attraverso la lettura di Ludovico Antonio Muratori [46].


La lezione dei fatti

Premetto alla breve raccolta di citazioni da Muratori, quanto Carlo M. Cipolla nella sua Storia economica dell'Europa pre-industriale osserva sul piano metodologico [47]: «le "spiegazioni" facili di complessi fenomeni storici affascinano la gente, proprio perché sono facili e quindi "comode"». Alla «spiegazione» che piace, Cipolla contrappone quella «problematica» che invece irrita: «Eppure la "spiegazione" è il più delle volte irraggiungibile, mentre la "problematica" resta sovente la sola cosa valida».
Ciò detto, mi si permetta di ricordare che è molto comodo tradurre a proprio piacimento un verso latino, senza rispettarne la struttura sintattica. È molto comodo pure accantonare un suggerimento autorevole come quello di Scevola Mariotti, per semplificare il discorso e chiuderlo nella cassaforte delle verità passate in giudicato. Ma c'è sempre un giudice a Berlino che insinua il dubbio e mette a confronto testi e contesti. E che può suggerire come, dietro l'accettazione delle versioni semplici con le spiegazioni facili, ci sia molto gusto di parlare ex cathedra e soprattutto la volontà di sottrarsi a quel sano principio etico e metodologico ben sintetizzato da Alberto Meloni: la Storia dev'essere «aperta», al «momento certosino della competenza» deve seguire «quello della verifica pubblica» [48]. La parola adesso passa a Ludovico Antonio Muratori.
Considerazioni generali sul periodo storico di cui ci stiamo occupando. «Non abbiamo Storia d'Italia, che ci dia lume degli avvenimenti d'allora» (p. 42); «Resta forte allo scuro la Storia Italiana, e Romana in questi tempi» (p. 135); «secondo l'abuso comune di questi tempi corrotti, i Re, i Principi, e i Vescovi vendevano, cioè conferivano le Chiese per danari» (p. 142); «la corruzion del Secolo era allora grande, ed esso Imperadore pieno d'ottimi sentimenti, altro non desiderava, che il ben della Chiesa» (p. 144). Circa Pier Damiano («grande ornamento del secolo», p. 30), Muratori osserva che giunse «a negare a i Papi il diritto di far guerra" (p. 165). Una considerazione sul clima morale (la malvagità «allora più che mai era in voga»), introduce ad un prezioso consiglio valido ancor oggi: «sta a i prudenti Lettori camminar qui con gran riguardo, prestando solamente fede a ciò, che si truova patentemente avverato dalla misera costituzion d'allora» (p. 198). Muratori poche righe prima ha osservato che «i tempi di guerra son tempi di bugie» e che allora, nelle discordie fra il sacerdozio e l'Impero, si lascia larga briglia «alla bugia, alla satira, alla calunnia».
Le discordie fra il sacerdozio e l'Impero sono annunciate all'inizio del tomo con la felice formula di «un'Iliade di gravi scandali, e sconcerti non meno in Italia, che in Germania» (p. 1). Poco dopo incontriamo un accenno che c'interessa. Muratori osserva che certi racconti di Pier Damiano («che neppure era nato in que' tempi») non sono «sicuri», come si ricava dal confronto con testimonianze del tempo. In un passaggio successivo (p. 5), Muratori ricorda ancora Pier Damiano, definendolo «Scrittore, che creduto più degli altri imbottì l'Opere sue di visioni, sogni, e miracoli strani». Pier Damiano ritorna per la notizia della morte di Ottone III (p. 6). Muratori accusa Pier Damiano di aver inventato la cessione del Ducato di Spoleto e della Marca di Camerino da parte di Ottone, precisando che Spoleto e Camerino erano in mano di Ugo Marchese di Toscana.
Gli eventi di inizio secolo, premessa delle situazioni in cui opera Benno, sono riassunti così da Muratori: morto Ottone III, «Augusto senza successione, i Principi, Vescovi ed altri Primati d'Italia furono in gran moto» (p. 11). È eletto re d'Italia Arduino re d'Ivrea che «diede principio al suo governo con confermare i Privilegj di varie Chiese» (p. 12). L'Arcivescovo ravennate con i popoli dell'Esarcato non riconosce Arduino, giurando fedeltà «ad Arrigo, come a suo Signore»: «Dal che resta sempre più avverato, che in que' tempi l'Esarcato di Ravenna era parte del Regno d'Italia, e non ne godevano i Papi alcun temporale dominio» (p. 22). Più avanti leggiamo che «da gran tempo l'Esarcato era divenuto parte del Regno d'Italia, forse per qualche convenzione seguita fra la santa Sede, e gl'Imperadori» (p. 58). Al proposito Muratori cita Pier Damiano dalla Vita S. Mauri, di «circa l'anno 1060»: «Eo tempore quum adhum Romana Ecclesia spatiosius multo quam nunc jura protenderet, et inter cetera Caesenate Oppodum possideret etc.» («Adunque a' tempi del Damiano Cesena non apparteneva più al Dominio temporale de' Papi»). Arrigo nel 1014 raduna a Ravenna un Concilio per nominare arcivescovo il fratello Arnaldo o Arnoldo, fatto poi consacrare dal papa Benedetto VIII. Il 14 (o 24) febbraio si fa solenne coronazione imperiale in Roma, di Arrigo e Cunegonda sua moglie (p. 44). Nel 1016 «in Lombardia si cominciano a raunare eserciti, e a far guerra, senza dipendere dall'imperatore» (p. 52). In Lombardia signoreggia, specialmente in Mantova, il marchese Bonifazio, padre della Contessa Matilda (pp. 53-54). Bonifazio è marito di Richilda, figliola di Giselberto, Conte del sacro Palazzo in Italia (p. 55).
1024: muoiono l'imperatore Arrigo ed il papa Benedetto VIII (p. 75). Rivolta a Pavia contro la memoria di Arrigo: è atterrato il palazzo regale, ridotto ad un monte di pietre (p. 77). Il negoziato «per iscuotere il giogo tedesco» inizia nel 1025 e termina nel 1026. L'Arcivescovo di Milano Eriberto «andò in Germania a darsi al Re Corrado, e a promettergli la Corona del Regno Italico, ogni volta ch'egli calasse in Italia» (p. 80). Arrigo è incoronato re d'Italia (p. 82).
1042: «Bolliva più che mai fra i Nobili usciti di Milano, e il basso Popolo, restato padrone della Città, l'odio, la discordia, e la guerra» (p. 128). 1044: «Per tre anni [...] durò il blocco di Milano, già intrapreso da i nobili Fuoriusciti contro la Plebe di quella Città» (p. 132). Per lo stesso anno 1044, leggiamo un'annotazione fondamentale relativa alla crisi religiosa: «Patì una fiera confusione, e burrasca in quell'anno la Chiesa Romana. Erano arrivate al colmo le disonestà, le ruberie, e gli ammazzamenti di Papa Benedetto IX» (p. 134). Fu eletto un antipapa, Silvestro III, cacciato dopo tre mesi dallo stesso Benedetto che poi rinunzia e vende simoniacamente il pontificato a Gregorio VI: «In questo miserabile stato cadde allora la santa Chiesa Romana, non per la prepotenza di Principe alcuno, ma per la disunione, ed avarizia del Popolo Romano, che avendo mano nell'elezion de i Papi, facilmente sturbava chiunque del Clero serbava il timore di Dio, ed avrebbe forse saputo canonicamente provvedere al bisogno della santa Sede». 1045: «Le oblazioni, che si facevano alle Chiese Romane degli Apostoli, e Martiri, venivano tosto rapite da i potenti scellerati» (p. 135), ed a nulla servirono le scomuniche (p. 136), per cui il pontefice passa dalle parole ai fatti: «Unì dunque fanti, e cavalli armati, che colle spade sterminarono gran parte di quella mala razza, e per tal via ricuperò molti Poderi, e Città tolte alla Chiesa Romana».
1046: «Widgero eletto, e non consecrato Arcivescovo di Ravenna, dopo aver per due anni in circa occupata quella Chiesa, e commesse varie crudeltà, e cose improprie, chiamato in Germania dal Re Arrigo, fu da esso deposto» (pp. 138-139). Arrigo raduna a Sutri «un gran Concilio di Vescovi, e v'invitò anche Papa Gregorio». In questo «Concilio fu esaminata la causa di tutti e tre i Papi, cioè di Benedetto IX, di Silvestro III e di Gregorio VI e trovato, che con male arti, e colla simonia aveano conseguito il Pontificato, furono tutti deposti, o per dir meglio, dichiarato nullo, ed illegittimo il loro Papato» (p. 139). Muratori richiama Pier Damiano per gli encomi da lui dati «per questo allo stesso Imperadore Arrigo» (p. 140).
La crisi morale derivante dalla «infelice condizione della Chiesa» in questi anni, è ben descritta da Marco Battaglini, Vescovo di Nocera, nella sua Storia dei Concili [49], nel passo in cui ricorda (p. 71) che un «semplice Prete» di nome Graziano mise d'accordo Benedetto, Silvestro e Gregorio per «deporre l'apparenza del Papato», suddividendo tra loro grosse somme di denaro e «le rendite, che opulentissime godea la Santa Sede in Inghilterra». Aggiunge Battaglini: «Seguìta questa concordia, si rivoltarono i Popoli, ed il Clero ad altamente encomiarne l'Artefice» sino a farlo eleggere come nuovo papa con il nome di Gregorio VI (pp. 71-72). Ma non «si posarono in pace le cose, ma fluttuanti, e torbide andarono sempre ondeggiando» (p. 72). Come andarono le cose lo spiega Muratori: «Fu poscia condotto in Germania il deposto Gregorio VI e quivi terminò i suoi giorni, non si sa bene in qual Città, o Monistero. [...] Dopo il Concilio di Sutri entrò in Roma il Re Arrigo, e raunatosi tutto il Clero, e Popolo Romano nella Basilica Vaticana co' Vescovi stati al suddetto Concilio, restò eletto, per consentimento di tutti, Sommo Pontefice Suidgero Vescovo di Bamberga, personaggio cospicuo per la sua Pietà e Letteratura, il quale con gran ripugnanza accettò e prese il nome di Clemente II. E ciò, perché non si trovò nel Clero Romano, chi fosse creduto degno di sì sublime ministero» (pp. 140-141). La frase conclusiva di Muratori è tratta da due testimoni del tempo, di cui uno è Pier Damiano, «che sulle prime, per non sapere il mercato fatto, cotanto lodò esso Gregorio, poscia di lui scrisse» che fu deposto «quia Venalitas intervenerat» [50].
Natale 1046: consacrazione del Papa e ed acclamazione di Arrigo imperatore dei Romani, secondo di questo nome (mentre era terzo fra i Re di Germania), alla presenza della consorte Agnese che riceve l'Imperial Corona dal novello Pontefice (p. 141). Nello stesso 1046 Beatrice Duchessa di Toscana partorisce a Bonifazio suo consorte la Contessa Matilda, «i cui fatti la renderono poi celebre nella Storia d'Italia» (p. 143).
1047: Muratori ricorda che contro il vizio della simonia, papa Clemente II celebra un Concilio in Roma «di cui fa menzione S. Pier Damiano, ma gli Atti sono periti» (pp. 143-144). Pier Damiano esalta Arrigo imperatore «per la cura, ch'egli si prese di estirpar la Simonia ne i Regni a lui consegnati da Dio, e massimamente in Italia, con recedere affatto dal pessimo esempio de' suoi Predecessori». Allo scopo (e dato che in passato «per amore della pecunia» erano state conculcate le leggi divine ed ecclesiastiche, con tanti scandali e la rovina materiale della Chiesa ridotta in tanta povertà»), l'imperatore «obbligò il Clero e Popolo di Roma, che non potesse eleggere e consecrar Papa alcuno senza l'approvazione sua» [51]. Osserva Muratori: «la corruzion del Secolo era allora grande, ed esso Imperadore pieno d'ottimi sentimenti, altro non desiderava, che il ben della Chiesa» (p. 144). In quel «Concilio insorse nuova lite di precedenza fra gli Arcivescovi di Ravenna, e di Milano, e il Patriarca d'Aquileia; e la sentenza fu data in favore del Ravennate», secondo quanto risulta da una bolla di Clemente II, «la qual veramente ha tutta l'apparenza di non essere finta», pur se senza data. Altre fonti attribuiscono a Milano la vittoria nella questione (p. 145). Marco Battaglini spiega «perché fu più degna la Chiesa Ravennate della Milanese», partendo dalla Storia di Ravenna di Girolamo Rossi: la «Chiesa Ravennate […] mai riconobbe alcuna soggezione, che la suprema di Roma [52]» (p. 72).
1047. Clemente II muore, si narra «per poculum veneno» di mano di Benedetto IX (p. 147). «Ora il già deposto Benedetto IX Papa, udita che ebbe la morte di Clemente, col mezzo de' suoi parenti potentissimi in Roma, tanto si adoperò, che per la terza volta tornò ad occupare la Sedia di S. Pietro» (p. 148). E la tenne per otto mesi e dieci giorni. Nel 1048, a luglio, è eletto papa il vescovo di Bressanone Poppone, con il nome di Damaso II (p. 149). Sopravvive per soli ventitré giorni (p. 150). Gli succede Leone IX, Brunone Vescovo di Tullo, parente dell'Imperatore. Fu titubante, timoroso ed incerto, poi chiese anche l'approvazione del Clero e del Popolo di Roma. Alla fine accettò, e s'incamminò verso Roma in compagnia del monaco Ildebrando, futuro Gregorio VII. A Roma è applaudito ed eletto dal Clero e dal Popolo Romano (p. 151). Convoca un gran Concilio di Vescovi a Roma, poi ne tiene un altro a Pavia. Quindi si reca dall'imperatore in Sassonia «per informarlo dello stato d'Italia, e de' bisogni della Chiesa». Altri Concili tiene a Rems e a Magonza, qui presente l'imperatore (p. 152). A Natale ritorna in Italia, a Verona. Dopo aver scomunicato, su istanza dell'imperatore, due ribelli, Gotifredo di Lorena e Baldovino di Fiandra.
1050. Il papa depone due Arcivescovi convinti di simonia. Tra maggio e settembre ci sono due Concili, uno a Roma nella basilica lateranense, l'altro a Vercelli: oggetto, le perverse dottrine di Berengario Franzese e del fratello Lanfranco, nato in Italia a Pavia e priore in Normandia e poi Arcivescovo santo di Canterburì in Inghilterra (p. 153). Sul Concilio di Vercelli, Battaglini riporta che Berengario («grand'Avolo dell'empietà de' moderni Eretici Sagramentarii», p. 75), fu «come contumace scomunicato, e come empii detestati i di lui seguaci» (p. 76). Berengario sosteneva che «l'Eucarestia non conteneva altrimente la verità, e realtà del Corpo del Signore, ma che era una semplice figura del medesimo»; voleva che i fanciulli non dovessero essere battezzati «innanzi all'uso della Ragione»; «dannava il Matrimonio» e «chiamava la Chiesa Romana una Conventicola di Satanasso» (p. 75).
Per il 1051 in Muratori leggiamo: «l'imperatore rimise in grazia del Papa Unfredo Arcivescovo di Ravenna» (p. 155). Era stato sospeso l'anno prima per una «qualche contesa» sorta tra lui («spalleggiato da alcuni della Corte imperiale») ed il Papa Leone (p. 153). Secondo Wiberto (Vita Leonis IX, l. 2, c. 7), Unfredo fu scomunicato. Prosegue Muratori: «Unfredo fu chiamato da Arrigo ad Augusta, e dopo aver restituito al Papa alcuni beni ingiustamente occupati, fu forzato a chiedere l'assoluzion delle Censure. […] Nel levarsi Unfredo in piedi, fu osservato, che quasi burlandosi del Papa, e tuttavia gonfio di superbia, sogghignava. Vennero le lagrime a gli occhi al buon Pontefice, e con voce bassa disse ad alcuni, che gli stavano intorno. 'Oimè, questo miserabile è morto'. Poco stette Unfredo a cadere malato, ed appena ricondotto in Italia, diede fine alla vita e all'alterigia sua» (p. 155).
1052: Arrigo, vicecancelliere dell'imperatore, è promosso all'Arcivescovado di Ravenna (p. 158). Questo Arcivescovo Enrico sarà consacrato dal Papa Leone IX, a Rimini il 14 marzo 1053, come vedremo infra. Ad Arrigo dedica il suo libro o sia opuscolo Gratissimus, Pier Damiano, nato nella stessa città di Ravenna, «e gran luminare di santità e Letteratura per questi tempi». (Su altro tema, 1053: Pier Damiano giunse «a negare a i Papi il diritto di far guerra», p. 165.) 1054, nozze fra Gotifredo o Gofredo Duca di Lorena con Beatrice vedova di Bonifazio, marchese e duca di Toscana (p. 168). Suo figlio Gotifredo il Gobbo sposa Matilda figlia di Beatrice, «allora di età assai tenera». Contro le nozze di Beatrice, da Roma e da altre parti d'Italia si protesta per «l'esorbitante accrescimento di potenza in Italia» di Gottifredo (pag. 170).
1055. È scelto il nuovo papa, Gebeardo che era Vescovo di Aichster, «Prelato di gran prudenza e facoltoso», assai ascoltato dall'imperatore, dopo un anno di sede vacante (pp. 168-169). L'imperatore per sistemare la faccenda scende in Italia con la sua armata. Gottifredo manda la moglie Beatrice a colloquio con l'imperatore, di cui lei era parente stretta (p. 170). Nello stesso 1055 Beatrice di Lorena, l'anno dopo il matrimonio con Goffredo il Barbuto, è rapita dall'imperatore Enrico III, disceso in Italia per sottomettere Goffredo, considerato un temibile rivale nella penisola. Beatrice è incarcerata a Lucca.
1055: a Firenze si tiene un altro Concilio. Muratori ricorda che è ancora condannata «l'eresia di Berengario, e la Simonia, e vietata l'alienazione dei beni Ecclesiastici» (p. 171). Battaglini osserva: nuovamente vi fu condannata l'eresia di Berengario, «affine di mostrare al medesimo Enrico, che ancora il nuovo Papa Vittore II detestava quella Dottrina, e che non era perseguitata per passione del defunto Pontefice Leone, che l'havea dannata, e che nuovamente dannavasi con assistenza, ed approvazione del Principe Secolare» (p. 76). Nello stesso anno, narra Muratori, si tenta di avvelenare il Papa. La colpa è attribuita, visti i suoi precedenti, a Benedetto IX che «già deposto era tuttavia vivente» (p. 172). Nello stesso 1055 muore l'imperatore Arrigo III. Suo figlio Arrigo IV ha soltanto sei anni d'età. La «morte troppo frettolosa di Arrigo III» e la minorità del suo figliolo «furono il principio d'immensi malanni sì in Italia, che in Germania, e di un orribile sconvolgimento di cose, con essersi spezialmente sciolto il freno alle ingiustizie, alle ribellioni, alle guerre civili». Comincia un «periodo di avvenimenti, che fecero a poco a poco mutar faccia anche all'Italia» (p. 176).
1057. Liberazione di Beatrice (p. 177). Lettera di Pier Damiano al Papa, in cui si fa parlar Gesù Cristo: «Ego te quasi Patrem Imperatoris esse constitui...». Sul ruolo politico del papa, Muratori osserva, in base ad un documento pubblicato dall'Ughelli, «ch'esso Papa avea il governo o di tutta l'Italia, o almeno della Marca di Fermo, e del Ducato di Spoleti» (p. 178). Papa Vittore II muore il 28 giugno. (p. 179). Suo successore è quel Cardinal Federigo (fratello del Duca Goffredo), Stefano IX, definito da Muratori «dotato di religiosa perfezione, e di singolari virtù» (p. 178). Federigo nel 1055 è diventato monaco a Monte Cassino. «Applicossi tosto questo zelantissimo Papa alla riforma della Disciplina Ecclesiastica, con tenere più d'un Concilio, dove condannò i maritaggi de' Preti Latini, le nozze illecite, le simonie, ed altri pubblici, e comuni disordini di que' corrotti secoli» (p. 179). In questo anno «il nuovo Papa Stefano, ben conoscente della rara virtù, e letteratura di Pier Damiano, dall'eremo il chiamò a Roma, e l'alzò al grado di Cardinale, e di Vescovo di Ostia. Ripugnò forte ad accettar queste dignità il santo Monaco, con resistere finché poté alle preghiere d'esso Papa, e di molti Vescovi; ma l'intimazione della scomunica, se non ubbidiva, quella fu, che in fino l'espugnò» (p. 180). Stefano IX scompare il 29 marzo 1058 (p. 181).
Nobili romani, «guadagnata con danari buona parte del Clero, e Popolo», con un tumulto armato fanno eleggere papa Benedetto X, Giovanni Vescovo di Velletri, detto Mincio da cui l'odierno Minchione (p. 182). «Era uomo privo affatto di lettere per attestato di S. Pier Damiano». Muratori la definisce una «sregolata elezione, contraria a i sacri Canoni, e fatta anche senza il consentimento della Corte Germanica». All'elezione «con tutto vigore si oppose il suddetto S. Pier Damiano Vescovo d'Ostia con altri Cardinali. Protestarono, intimarono scomuniche; ma indarno tutto. Furono essi astretti a fuggirsene, e a nascondersi per timor della vita; e il Popolo, giacché non si potea avere il Vescovo Ostiense, a cui apparteneva la consecrazion del nuovo Pontefice, per forza obbligò l'Arciprete d'Ostia, uomo ignorante, a consecrar questo illegittimo, e simoniaco Papa: cosa anch'essa affatto ripugnante alla disciplina della Chiesa» (p. 182). Contro il nuovo Papa parte da Roma un'ambasceria all'imperatore, invocando un suo intervento. Come succede al Concilio di Siena dove si elegge il vescovo di Firenze Gherardo (Niccolò II), di nascita Borgognone, «personaggio per senno, e per ottimi costumi degno di sì sublime dignità» (pp. 182-183).
Il Papa simoniaco è cacciato l'anno appresso (1059). Sotto Niccolò II, con il concilio (p. 184) di 113 vescovi nella Basilica Lateranense a Roma, è stabilito che l'elezione dei pontefici romani deve farsi «in Roma principalmente da' cardinali» e poi dal resto del Clero e dal Popolo, «salvo debito honore, et reverentia» all'imperatore. Ovvero prima della sua consacrazione ci dev'essere l'approvazione del regnante imperatore (p. 185).
Il morbo del concubinato non riguarda soltanto Milano, ma tutta l'Italia e la stessa Roma (pp. 188-189). Il papa manda a Milano Pier Damiano, «santo e celebratissimo Cardinale» assieme al vescovo di Lucca, Anselmo. «Andarono essi anche per isradicare il vizio della simonia, di cui era patentemente reo l'Arcivescovo, giacché egli a niuno conferiva gli Ordini Ecclesiastici senza farsi pagare» (p. 189). L'arcivescovo di Milano confessò le sue colpe, alla fine, «pure per la saviezza, ed eloquenza del Damiano». Ne parla lo stesso Damiano in una sua relazione. «Ma Pier Damiano in ricompensa delle sue fatiche fu spogliato dal Papa de' suoi Benefizj, e ricevette altri affronti, per li quali modestamente dimandò licenza di rinunziare al suo Vescovato d'Ostia» (p. 190).
1061, muore il papa Niccolò II nella sua Firenze verso il 22 luglio (p. 192). A quella scomparsa tengono dietro «gravissimi sconcerti, che furono preludj anche d'altre maggiori calamità». «Pontefice benemerito della Santa Sede, e degno di maggior vita», lo chiama Muratori. Roma era divisa: c'era chi voleva rispettare le prerogative («o pretese, o accordate») del re di Germania Arrigo. E chi «escludeva ogni dipendenza da lui», come «l'intrepido Cardinal Ildebrando». Alla fine è eletto Anselmo da Baggio, milanese, Vescovo di Lucca, «uomo di gran bontà, e zelo ecclesiastico», con il nome di Alessandro II, «senza voler'aspettare consenso alcuno dal Re Arrigo» (p. 193). Favorevole a questa procedura d'indipendenza è Gotifredo Duca di Toscana, «Principe allora pontentissimo in Italia». Dalla parte di Roma contro l'ingerenza tedesca, ci sono i Normanni «che aveano giurato fedeltà alla Sede Apostolica» (p. 194). La corte germanica parla di «affronto fatto al Re». Ma il decreto di Papa Niccolò tratta di un Imperatore coronato che doveva approvare il Papa eletto, mentre Arrigo era solamente Re d'Italia, anche se talora si definisce «Romanorum Rex».
Nel frattempo, i Vescovi lombardi si erano adoperati per avere un Papa «di tempra meno rigorosa de' precedenti zelantissimi», e che «sapesse un po' più compatire le lor simonie, ed incontinenze», ovvero «che il Papa non si dovea prendere nisi ex Paradiso Italiae, cioè dalla Lombardia». In Germania essi, tramite una loro delegazione, riescono a far eleggere un antipapa, il vescovo di Parma Cadaloo, «uomo ricco di facoltà, ma più di vizj»: «Ne fecero perciò gran festa tutt'i simoniaci, e concubinarj di Lombardia» (p. 194).
1062: «Null'altro avea fatto nel verno di quest'anno l'Antipapa Cadaloo, che ammassar gente armata, e denaro per passare a Roma, con disegno di cacciarne il legittimo Successor di S. Pietro, e di farsi consacrare». Forse si fece chiamare Onorio II. Molti capitani e nobili romani si vendono a lui (p. 196). «Si venne dunque ad una battaglia, che riuscì sanguinosa, e finì colla peggio della fazione del legittimo Papa». Il quale però riceve il soccorso di «numerose squadre» inviate da Gotifredo Duca di Toscana, che rovesciarono le sorti dello scontro: l'antipapa sconfitto è lasciato libero di tornarsene «colla testa bassa a Parma». Pier Damiano sospetta «che il Duca Gotifredo non operasse con tutta lealtà, ed onoratezza o in questa, o nelle seguenti congiunture» (p. 197).
Circa il re Arrigo IV, leggiamo in Muratori che il potere era in effetti esercitato da sua madre, l'imperatrice Agnese, donna savia e pia, «la quale regolava gli affari unicamente col consiglio di Arrigo Vescovo di Augusta»: «Era savia, era pia Principessa Agnese: tuttavia non poté schivar la maldicenza degli altri Principi invidiosi della fortuna del Vescovo Augustano, perché sparsero voce d'illecita familiarità fra lei, e quel Prelato» (p. 197). Per cui ad Agnese è tolto il giovinetto Arrigo, passato sotto tutela di Annone, Arcivescovo di Colonia, «col consenso di molti altri Principi» (pp. 197-198). La malvagità «allora più che mai era in voga»: nelle «discordie fra il sacerdozio, e l'Imperio» si lasciava larga briglia «alla bugia, alla satira, alla calunnia. Le più nere iniquità s'inventarono, e sparsero de i Papi, de' Cardinali, de' Vescovi da chi era loro contrario, ed altre vicendevolmente si spacciarono da i mal'affetti contra di Arrigo VI e di tutti i suoi aderenti. Però sta a i prudenti Lettori camminar qui con gran riguardo, prestando solamente fede a ciò, che si truova patentemente avverato dalla misera costituzion d'allora» (p. 198). «La vendita de' Vescovati, delle Abbazie, e dell'altre Chiese, cioè la simonia, era un mercato ordinario di que' sì sconcertati tempi, per colpa spezialmente della Corte Regale di Germania, in cui più potea l'amore dell'oro, che della religione, e troppo regnava l'abuso, non però nato allora, di eguagliar lo spirituale al temporale». (Arrigo ha 13 anni.)
Per testimonianza di Pier Damiano, «non tardò l'Arcivescovo di Colonia Annone a dare, per quanto era in sua mano, la pace alla Chiesa», deponendo al Concilio di Osbor l'Antipapa (p. 199). «Avea precedentemente il medesimo Pier Damiano scritta una lettera di fuoco al predetto Cadaloo, chiudendola con alcuni versi, e dicendo in fine: "Diligenter igitur intende, quod dico:/ Fumea vita volat, mors improvisa propinquat, / Imminet expleti paepes tibi terminus aevi. / Non ego te fallo: capto morieris in anno"». Sopravvissuto Cadaloo alla previsione infausta, Pier Damiano «cercò uno scampo, con dire, ch'egli s'era inteso della morte civile, cioè della di lui deposizione, e non già della morte naturale» (ib.).
1063, Cadaloo ci riprova: «Ci fu sospetto, che Gottifredo Duca di Toscana segretamente il favorisse» (p. 203). Molti a Roma erano ancora per l'antipapa. Alla fine si rifugia per due anni in Castel Sant'Angelo.


La lezione dei Battaglini

A questo quadro generale del secolo XI fornitoci da Muratori, dobbiamo far seguire un breve cenno sulla famiglia dei Bennoni e sul ruolo da essa svolto. Con una modesta precisazione: Rimini e la Romagna vissero, più o meno direttamente, le vicende e le lotte di Chiesa ed Impero, a tal punto da esserne oscurata la vera e propria storia locale, rimasta poi in balia di chi, come Luigi Tonini (1807-1874), professava di non voler narrare episodi di storia nazionale, sui quali poi si dilungava per pagine e pagine. Al contrario, Francesco Gaetano Battaglini (1753-1810) ebbe lucidamente presente il significato del rapporto tra le «storie particolari delle città» e quella nazionale, osservando che le prime «ove fossero ben conosciute, ci darebbero pure una cognizione chiarissima della Storia della nazione. E per questo ho io voluto notarvi della nostra Storia Riminese alcuna cosa, che facilmente vi sarà stata sconosciuta sinora» [53]. Nelle pagine di Francesco Gaetano Battaglini (che lo stesso Luigi Tonini trascurò) possiamo incontrare utilissimi suggerimenti che chiariscono molti aspetti dell'argomento. E che sembrano proprio essere frutto della lezione muratoriana.
Il primo accenno ai personaggi di cui stiamo parlando è in Cesare Clementini, il quale avverte «che anche dopo le ruine dell'Italia erano qui molti personaggi, e Signori Titolati, e in particolare viveva con molto splendore Gisaltrude [54]», la quale nel 1027 vende «ad Armingarda, Figliuola già di Tebaldo, moglie di Benno il Castello di Monte Rotondo nel territorio di Urbino con tutte le sue pertinenze, la quale Armingarda poi lo donò al Monastero di San Gregorio» [55]. Assieme al Castello di Monte Rotondo, vende anche il titolo feudale connesso. Il padre di Gisaltrude è detto «signore illustre» da Angelo Battaglini [56].
Armingarda è madre del ricordato «Petrus de Benno», suo terzo figlio. Benno è forse diminutivo di Benedetto. Suo padre si chiamava Vitaliano Bennio come risultata dal ricordato atto del 1014 (in copia del secolo XIII), dove si legge [57] che l'imperatore era Enrico «jubente in Italia anno primo»: Enrico II è incoronato imperatore a Roma il 14 febbraio 1014. Da Benno ed Armigarda nascono Tebaldino, Bennolino e Pietro Bennone. Nel documento del 15 ottobre 1044 si legge che Benno figlio di Vitaliano Bennio cede al figlio Pietro i diritti di amministrazione, riservandosi quelli di proprietà, sull'intero castello di Morciano e su altri possessi. Benno ripete un'operazione già compiuta in precedenza a favore degli altri due figli, Tebaldino e Bennolino. Nell'atto, Benno è detto «venerabilis» come riconoscimento del prestigio goduto dal personaggio.
Il documento parla anche di campi dominicati e di mansi, secondo la classica formula feudale risalente alla dominazione longobardica. L'elenco dei mansi contiene i nomi dei lavoranti (o affittuari), con la precisazione delle loro attività artigianali: sono grosse famiglie che uniscono il lavoro dei campi a quello della bottega. Ciò significa che l'economia è ancora da "rivoluzionare" nella zona riminese dell'XI secolo, e che il rapporto città-campagna vive un complesso scambio di contributi, da valutare soprattutto come conseguenza di una struttura feudale più rigida e sacrale nelle nostre terre, per opera soprattutto dell'intervento religioso all'interno di tale struttura.
La prima apparizione pubblica di Pietro Bennone è in un documento del 1059, la concessione di innumerevoli terre, da parte di Uberto Vescovo di Rimini ai coniugi conte Everardo e contessa Marocia [58], con la precisazione «exceptis que Petrus Bennonis causa beneficii ibi tenet». Il ricordo del titolo feudale fa di Bennone un personaggio altolocato, il cui ruolo dipende esclusivamente da quello giocato da suo padre.
Segue un documento politico del 1060, il «Placito di Gottifredo Duca di Toscana» a Santa Cristina di Rimini [59], che abbiamo già visto nelle pagine di Antonio Bianchi. Qui aggiungiamo che la sua presenza, in quel momento e tra tante autorità, dovrebbe suggerirci qualcosa, non soltanto sul suo ruolo, ma pure sulla vita politica della città di Rimini nel suo complesso. Nel 1069 la donazione di Pietro Bennone comprende pure il palazzo posseduto a Rimini. Forse vuole ritirarsi dalla città verso le Marche, terra d'origine del padre e della madre. Si chiude una storia di famiglia, con un finale che non possiamo non collegare alla tragica fine del padre. Da intendersi pure come fatto simbolico di tutto il momento storico vissuto da entrambi. I signori feudali come il grande Gottifredo di Toscana od il piccolo Benno emergono lentamente nella scena con ruoli o modi diversi, mentre Papato ed Impero si preparano al culmine dello scontro.


La lezione di papa Leone IX

Su quella scena il nostro Benno è protagonista che resterebbe dimenticato del tutto, se non ci fosse la nuova lettura di quel verso che ci ha accompagnato in tutte queste pagine, con la proposta di Scevola Mariotti di intenderlo correttamente come «ucciso in un fatto di guerra». Per questo motivo si è voluto intitolare semplicemente il nostro discorso «Rimini 1061, una guerra dimenticata». Non abbiamo indicato tra virgolette inglesi ("guerra") la parola centrale perché nulla ci autorizza a demistificare il livello dello scontro, uno dei tanti conflitti di cui nulla si sa perché, lo scrive Muratori, «resta forte allo scuro la Storia Italiana, e Romana in questi tempi».
Di sicuro ci sono certe pagine ormai classiche per lo studio della Storia medievale, che si debbono a Gina Fasoli (alla cui memoria va il grato ricordo di un antico allievo). Soltanto una breve citazione da un suo saggio, per riassumere il contesto romagnolo nel quale si colloca la vicenda di Benno: la Chiesa ravennate ha una costante «tendenza autonomistica e antipapale», realizzata appoggiandosi costantemente all'impero. «Si trattava di un confitto politico ad alto livello, ma anche di un conflitto religioso», in cui «non erano coinvolti soltanto interessi materiali connessi all'esercizio delle attività temporali dei vescovi e all'amministrazione dei patrimoni ecclesiastici che avevano offerto a molte famiglie cittadine la possibilità di acquisire ricchezze e poteri: erano in gioco interessi spirituali, profondamente sentiti e vissuti…» [60].
Quel contesto romagnolo si arricchisce di un evento particolare, il 14 marzo 1053, quando «la Chiesa riminese […] accolse una sacra Funzione quanto solenne per se medesima, altrettanto singolare per la eminenza del grado in coloro che furono a celebrarla». Il giorno prima, 13 marzo, «era il santo Pontefice Leone IX di ritorno dalla Germania» pervenuto a Ravenna [61]. Di qui si trasferisce a Rimini dove, appunto il 14, fa solenne consacrazione di «Enrico Eletto Arcivescovo di Ravenna» [62].
Tonini ipotizzava una «ragion d'ufficio e segno di sudditanza che» il Pontefice «volle dall'Arcivescovo, obbligandolo a venire per la Consacrazione sua nella Provincia Romana» [63]. Aveva ragione. La lettura offertaci da Scevola Mariotti di quel verso di Pier Damiano dedicato a Benno, suggerisce però una diversa interpretazione del gesto di Leone IX che, per consacrare l'Arcivescovo ravennate, convoca a Rimini un'assemblea numerosa di ecclesiastici illustri: il Cardinale Umberto Vescovo di Santa Ruffina, Oterigio Vescovo di Perugia, Federico Cancelliere del S. Palazzo Lateranense, Stefano romano Giudice dello stesso S. Palazzo, Laudegario Primate di Vienna, Aimone Vescovo di Syon sul Rodano, Araldo Vescovo di Grazianopoli (Algeria odierna), Adalberto Vescovo di Metz, Tietmaro Vescovo di Merseburgo. Davanti al Papa ci sono pure i Vescovi di Rimini, Montefeltro, Bobbio, Pesaro, Senigallia, Cervia, Forlimpopoli, Forlì, Comacchio, Cesena, Imola [64].
Non sembra assurdo pensare all'intenzione di Leone IX di riaffermare, proprio a Rimini, il primato del potere ecclesiastico, a conferma di tensioni per le quali un rappresentante della Chiesa sarà tragicamente eliminato dalla scena politica locale nel 1061. L'anno prima, come abbiamo visto [65], Goffredo voleva proteggere Rimini e le altre città tra cui Pesaro, le più esposte alle armi tedesche «qualora queste, calate in Italia, avessero per questa parte della Romagna preso cammino a ricondurre l'Antipapa all'ambita sede di Roma: oltreché qui d'appresso l'Arcivescovo di Ravenna era spacciato partigiano imperiale» [66]. Il ricordo del 1046 era ancora fresco.
Eugenio Dupré Theseider in un suo testo classico apparso nel 1942 [67], osserva che il 1046 è «l'anno critico» in cui Enrico III interviene a deporre i tre Papi concorrenti e ne elegge uno nuovo, tedesco: «È il momento della più esplicita supremazia dell'impero». Nello stesso anno, l'imperatore si rende conto della pericolosità del vasto Stato dei Canossa nel cuore del Regno Italico, «nodo di transito imprescindibile per scendere a Roma e nell'Italia meridionale» [68]. La «linea» adriatica aveva un suo valore strategico, e Rimini ne era uno dei punti di passaggio fondamentali. Per non dimenticare Ravenna, per la quale il 1046 significa la deposizione da parte dell'imperatore del suo Arcivescovo «Widgero eletto, e non consecrato» [69]. Significa qualcosa, infine, che proprio nella parte degli Annali muratoriani dedicata al 1046, leggiamo quel passo già riportato: «secondo l'abuso comune di questi tempi corrotti, i Re, i Principi, e i Vescovi vendevano, cioè conferivano le Chiese per danari» [70]. L'ultima erede delle casa di Canossa, la contessa Matilde, «mise la sua potenza politica e militare al servizio della Chiesa riformatrice, mentre gli arcivescovi di Ravenna con tutti o quasi i loro suffraganei si schierarono nel campo opposto, come imponeva la lunga tradizione di fedeltà all'impero, propria della metropoli ravennate» [71].
Augusto Vasina, proprio nel secondo volume della «Storia della Chiesa riminese» del 2011, avverte autorevolmente che le esigue testimonianze sull'XI sec. ci offrono soltanto «una pallida e desultoria idea di quanto poté accadere in quei tempi» [72]. E che il territorio del Riminese rappresentava «un'area particolarmente nevralgica del confronto fra Roma e Ravenna». Roma era ben determinata ad esercitare i propri diritti su estese proprietà nel territorio diocesano di Rimini ed i pieni poteri temporali. La Chiesa di Ravenna era «largamente dotata di proprietà fondiarie e di diritti signorili che, diffusi nel Riminese, si estendevano pure latamente nelle terre della Marca Anconetana» [73].
Un altro aspetto, infine, mi permetto di segnalare circa i rapporti tra le città della «linea» adriatica, ovvero la questione della presenza ebraica [74], documentabile per Rimini sin dal 1015 con il teloneo «judeorum», ovvero l'appalto dei dazi d'entrata nel porto. La questione è esaminabile soltanto in senso indiziario, partendo dai secoli successivi. A metà del 1400 Rimini è il principale centro finanziario ebraico della Romagna, dalla quale transitano gruppi provenienti dalla Marca e dall'Umbria e diretti nella pianura padana per evitare gli effetti della predicazione degli Zoccolanti contro gli Ebrei e le loro attività finanziarie caratterizzate da tassi che a Ravenna sono documentati anche al 30 ed al 40 per cento. Di solito gli Ebrei praticavano «tassi notevolmente inferiori agli usurai cristiani» [75]. E per questo dovettero subire nel 1429 e nel 1503 un assalto ai loro banchi [76].


La lezione di Carlo Tonini, 1895

Carlo Tonini (1835-1907), figlio di Luigi, nel 1895 manda alle stampe il primo volume del suo Compendio della Storia di Rimini [77], dove troviamo due pagine che ci interessano, e che nessuno di quelli che si sono occupati di Benno hanno, non dico esaminato, ma neppure lontanamente intravisto. La prima è un esame delle figure dei Conti e dei Padri della Città, condotto sulla scia del testo di Angelo Battaglini: evitiamo di analizzarla perché già ne abbiamo riferito ad abundantiam.
La seconda pagina, invece, è del tutto originale, ed offre un esame serio dell'epitaffio in onore di Benno. Dall'elogio che ne fa Pier Damiano, scrive Carlo Tonini, «risulta chiaramente che questi fu un intrepido e sapiente amministratore di pubblica giustizia; quanto mite e pio verso i miseri, altrettanto rigido e severo coi superbi […]. E non potrebbe forse inferirsi da ciò, che ei cadesse vittima delle vendette d'alcun nemico potente, che avesse provato i rigori di quella sua cotanta ed inflessibile giustizia? E non varrebbe per avventura a confermarci in questo sospetto segnatamente il penultimo verso dell'elogio - Obsecro tam diram sapientes flete ruinam? A noi pare che il Damiani non avrebbe usata una simile espressione, se il grand'uomo fosse morto placidamente nel suo letto e nella pienezza de' giorni suoi» [78].
Carlo Tonini ricorda: Damiano scrive di Benno che «pravorum pertulit ictus». Il problema, qui ed oggi, non è di dare una «versione più neutra, che esclude ogni riferimento a effettive vicende politiche riminesi» nella traduzione dell'epitaffio, come si sostiene autorevolmente. La questione fondamentale è intendere, aldilà della rivoluzione provocata dalla lettura di Scevola Mariotti nel 1965, il senso di quello che si legge nel passo così ben spiegato da Carlo Tonini: «pravorum pertulit ictus». Carlo Tonini cominciò a dubitare che «il grand'uomo fosse morto placidamente nel suo letto». Purtroppo oggi si scrivono le Storie di quei momenti ignorando le pagine di chi se ne è già occupato, addirittura nel 1895, con una prospettiva innovatrice per interpretare i fatti e le figure di cui si parla .


NOTE
[1]. Il sottotitolo completo è Descrizione dei manoscritti, edizione del testo, esame prosodico metrico, discussione delle questioni d'autenticità, a cura di Margareta Lokrantz, Stockholm, Almquist & Wilksell, 1964.
[2]. I precedenti tomi escono a Roma nel 1606, 1608, 1615: cfr. A. CAPECELATRO, Storia di S. Pier Damiano e del suo tempo, II, Barbèra, Firenze, p. 567.
[3]. L'epitaffio è pubblicato nel secondo tomo degli Annales Camaldulenses Ordinis Sancti Benedicti, Venezia 1756, p. 334. Questo tomo copre il periodo storico dal 1027 al 1079. Nell'indice, p. 500, Benno è detto «vir illustris Ariminensis». Nello stesso tomo, pp. 333-334, si trova pure la donazione del 17.6.1069 a Pier Damiano da parte di Pietro figlio di Benno «bonae memoriae». A p. 334 è riprodotto l'epitaffio composto da Pier Damiano a perenne memoria di Benno, padre del Pietro donatore. Circa la donazione del 17.6.1069, va aggiunto che partendo da essa, si può stabilire la data della scomparsa di Pietro figlio di Benno, come si legge in G. RABOTTI, Le relazioni tra il monastero di San Gregorio in Conca ed il vescovo di Rimini nei secoli XI e XII, «Studi Romagnoli», L (1961), pp. 232-235, ove si pone il termine ad quem nel novembre 1070.
[4]. Cfr. S. MARIOTTI, Note di poesia medievale, «Rivista di cultura classica e medievale», 7 (1965), pp. 640-649, p. 641 nota 44, poi in ID. Scritti medievali e umanistici, Roma 1976, pp. 33-43.
[5]. Sulla determinazione della data, cfr. infra nota 15.
[6]. Cfr. A. MONTANARI, Benno, una storia dell'anno Mille, «Il Ponte», settimanale, Rimini, VIII, 22, 12 giugno 1983, p. 11. Questo articolo è stato da me richiamato in altra nota, sullo stesso settimanale (XXXII, 8, 24.02.2010), dedicata al volume, curato da A. Donati e G. L. Masetti Zannini, che raccoglie due antiche storie della presenza olivetana in Santa Maria di Scolca a Rimini, edite nel 2009 dalla cesenate Badia benedettina di Santa Maria del Monte. Storie composte da Gasparo Rasi (1630) e da padre Giacinto Martinelli (post 1777). Nella recensione ricordavo che Gasparo Rasi, «avvocato primario» del monastero, aveva grande stima di sé (essendo cittadino nobile), e nessuna verso chi prima di lui si era occupato delle vicende dell'abbazia. Non cita infatti né il padre olivetano Secondo Lancellotti (1583-1643) né il riminese Cesare Clementini (1561-1624), autore del Raccolto istorico (in due tomi, Simbeni, Rimini 1617 e 1627). Nel pezzo, aggiungevo quanto segue. Donati osserva che gli scritti di Lancellotti, «definito un "chierico vagante della cultura", hanno assunto un indiscutibile valore storico». Di «chierico vagante della cultura» (come dichiarato in nota da Donati), si legge in Anatomie secentesche di Ezio Raimondi (Pisa 1966). Le cui parole, nel contesto originale, però hanno un significato opposto. Raimondi precisa che «il credito da attribuire alla battaglia culturale del Lancellotti non può essere molto alto», e lo paragona ad una «piazza chiassosa». Masetti Zannini, scrivevo poi, tira le orecchie a «coloro, che hanno fatto intendere» di averlo consultato, dicendosi sicuro che se «l'avessero anche effettivamente letto e studiato, certi lavori [...] sarebbero riusciti più utili». A questo punto aggiungevo: anche Pier Damiano è molto citato e poco letto; a lui nel 1069 Pietro Bennone dona vasti possedimenti (poi passati alla stessa abbazia di Scolca) per l'abbazia di San Gregorio in Conca di Morciano, da Pier Damiano medesimo fondata nel 1061. Bennone è figlio di Benno, grande feudatario e uomo politico di Rimini. Pier Damiano compiange la morte di Benno (1061) in un carme, definendolo «padre della Patria, luce dell'Italia». A questo punto introducevo il richiamo all'articolo del 1983, Benno, una storia dell'anno Mille.
[7]. Cfr. A. BIANCHI, Storia di Rimino dalle origini al 1832, Manoscritti inediti a cura di A. Montanari, Rimini 1997, pag. 99, nota 70.
[8]. Il titolo completo è: Saggio di rime volgari di Gio. Bruni de' Parcitadi riminese, con le notizie storiche e letterarie di lui e del suo casato, presso Nicola Albertini.
[9]. Cfr. A. BIANCHI, Storia di Rimino, cit., pag. 94.
[10]. La fonte è A. BATTAGLINI, Saggio di rime, cit., p. 14: «Mancò egli fra gli anni 1028 e 1061…». In C. CURRADI, Pievi del territorio riminese nei documenti fino al mille, Rimini 1984, p. 96, si fa morire Benno nel 1050, richiamando un documento dell'Archivio Arcivescovile di Ravenna, pubblicato in M. FANTUZZI, Monumenti ravennati, I, Venezia 1801, p. 382, n. 39) dove la data è però il 1052. Nel documento elencato da Fantuzzi è citato come Arcivescovo di Ravenna Enrico (e non Unifrido come in Curradi), che resta in carica fra 1052 e 1072. La versione di Curradi (cioè, Benno scomparso nel 1050) è accettata da Emiliano Bianchi in un saggio del 2004, La famiglia di Pietro di Bennone e i suoi possedimenti tra Montefeltro e Riminese (secoli X-XI), edito in «Studi Montefeltrani, 25». Cfr. p. 10: «Nel 1050 Bennone di Vitaliano era già morto». Nella relativa nota 14 si legge: «La morte di Bennone è da fissarsi nell'arco di tempo che va dal 1041 al 1050». Però E. Bianchi poco prima (p. 7 nota 2), dà per vivo il nostro Benno nel 1060, parlando di Pietro «de Benno» in relazione al «Placito di Gottifredo Duca di Toscana» del 25 maggio 1060. Sempre a p. 7, proprio all'inizio del saggio, E. Bianchi, richiamando la donazione del 17 giugno 1069 di Pietro figlio del fu Benno al Monastero di San Gregorio in Conca (su tutto ciò cfr. infra), scrive «Pietro di Bennone», come se Benno fosse ancora vivo in quella data. A pag. 10, il nostro autore accusa L. Tonini di aver proposto come data della morte di Benno il 1060. Le cose non stanno così. Tonini ragiona per ipotesi: «Non è certo se Bennone fosse vivo nel 1059 […]. In tal caso converrebbe dirlo morto, o almeno uscito d'uffizio, prima del 1060…». Poi Tonini propone il cit. «Placito di Gottifredo Duca di Toscana» del 25 maggio 1060, in cui si legge «Petrus de Benno», ovvero Benno era vivo. Cfr. L. TONINI, Rimini dal principio dell'era volgare all'anno MCC, vol. II della «Storia civile e sacra riminese», pp. 326-327, 536. Da osservare infine che ad E. Bianchi è ignota l'ed. Lokranz 1964 dell'epitaffio damianeo, da lui presentato (p. 10) seguendo la versione che trovasi in L. TONINI, Ibidem, p. 326.
[11]. È a questo punto che si rimanda alla cit. nota 70.
[12]. Qui Antonio Bianchi rimanda alle Memorie ecclesiastiche appartenenti all'istoria e al culto della B. Chiara di Rimini raccolte dal conte Giuseppe Garampi canonico della basilica vaticana e prefetto dell'archivio segreto apostolico, Roma MDCCLV appresso Niccolò, e Marco Pagliarini, p. 45, nota e.
[13]. Qui Antonio Bianchi rimanda alle «Notizie Bruni», ovvero al citatoA. BATTAGLINI, Saggio di rime, cit., del 1783.
[14]. A. BIANCHI, Storia di Rimino, cit., p. 100. Qui si tace sul periodo dal 1060 al 1080.
[15]. Benno è vivo nel 1060: poco prima Antonio Bianchi ha posto come data possibile della morte il 1061 («morto fra il 1028 e il 1061», cfr. p. 99), seguendo quanto si legge nel Saggio di Rime del 1783, p. 17: da un documento del 1061, in cui è citata Armingarda moglie di Benno (su cui cfr. infra) «si vede, che Benno il marito era morto».
[16]. F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino, cit., p. 18.
[17]. L. TONINI, II cit., p. 323. Cfr. pure p. 309 per gli eventi, e p. 536 per il cit. documento.
[18]. F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino, cit., p. 19.
[19]. L. TONINI, II cit., p. 327.
[20]. Cfr. N. D'ACUNTO, I laici nella Chiesa e nella società secondo Pier Damiani. Ceti dominanti e riforma ecclesiastica nel secolo XI, Istituto storico italiano per il Medio evo, Nuovi studi storici 50, Roma 1999, p. 375.
[21]. «… de monastero predicto fondato iuxta Concam in predio bone memorie Petri Bennonis», in L. TONINI, II cit., p. 552.
[22]. F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino, cit., p. 16.
[23]. A. BATTAGLINI, Saggio di rime, cit., p. 7.
[24]. Ibidem, p. 8. Una lunga nota, che va dalla p. 8 alla p. 14, analizza il ruolo del «Padre della Patria» nel contesto storico del tempo. Ne riproduco soltanto una breve citazione nel testo.
[25]. Ibidem, p. 9.
[26]. Cfr. ibidem la nota di cui si è detto sopra (che inizia a p. 8), alla p. 13.
[27]. Cfr. G. FERRARI, Storia delle rivoluzioni d'Italia, I, Treves, Milano, 1870, p. 291.
[28]. Ibidem, pag. 370: «Nelle città pontificie il papa sostiene le parti dell'imperatore e da lui deve il popolo ottenere l'elezione dei vescovi. Quindi preme a Ravenna di nominare il suo arcivescovo; padrona dell'arcivescovado, essa regna sulla Romagna e forse si estende fino a Reggio, a Parma e a Modena, comprese nella sua diocesi. Dal 1004 al 1014, vediamo l'arcivescovo Adalberto, detto intruso, e sostenuto dal popolo in odio di Roma. Più tardi Ravenna cerca la sua libertà opponendo l'alto dominio dell'impero a quello della Chiesa. Perciò l'arcivescovo Geberardo è protetto dall'imperatore Corrado II; nel 1047, regna l'arcivescovo Umfredo, fratello dell'imperatore Arrigo III, che scaccia Vidigero probabilmente imposto dal papa. Tosto egli estende il suo dominio a tutta l'Italia come vicario imperiale; e la sua ostilità contro il papa s. Leone rammenta tutti gli odii gotici di Ravenna contro Roma».
[29]. L. TONINI, II cit., p. 327: «Fu ben creduto dai Battaglini…».
[30]. Ibidem, pp. 326-327.
[31]. Si tratta del cit. D'ACUNTO, I laici nella Chiesa e nella società secondo Pier Damiani.
[32]. Ibidem, pp. 375-376.
[33]. Si tratta del IV vol. delle «Opere di Pier Damiani», Città Nuova Editrice, Roma, cura di U. Facchini e L. Saraceno.
[34]. Cfr. A. GANDIGLIO, Corso di lingua latina, III. Sintassi latina, volume primo. Terza edizione rifatta a cura di G. B. Pighi, Bologna 1961, p. 10.
[35]. Cfr. R. SAVIGNI, La Chiesa di Rimini nella tarda antichità e nell'alto Medioevo, «Storia della Chiesa riminese, I. Dalle origini all'anno Mille», Rimini 2010, pp. 29-68, p. 65.
[36]. Del tema ho parlato anche in una lettera pubblicata dal «Corriere di Romagna» il 28 dicembre 2010: «Scevola Mariotti aggiungeva che la nuova edizione di quel testo comporta conseguenze di ordine storico. Spiace constatare che non se ne siano accorti quanti hanno composto la nuova "Storia della Chiesa riminese", il cui primo volume è appena apparso (cfr. p. 65)».
[37]. Cfr. p. 327 di Poesie e preghiere.
[38]. D'ACUNTO, I laici nella Chiesa…, cit., p. 375.
[39]. D'ACUNTO, L'importanza di chiamarsi Urbano, ora in «L'età dell'obbedienza. Papato, Impero e poteri locali nel secolo XI», Napoli 2007, qui cfr. nella Nota editoriale, p. 444.
[40]. Ibidem, p. 183.
[41]. Ibidem, p. 184.
[42]. D'ACUNTO, Rimini durante la lotta per le investiture, «Storia della Chiesa riminese, II, Dalla lotta per le investiture ai primi anni del Cinquecento», Rimini 2011, p. 54.
[43]. Ibidem, p. 55.
[44]. Ibidem, p. 56.
[45]. Ibidem, pp. 57-58.
[46]. Si cita dal tomo VI degli Annali, Gravier, Napoli 1773.
[47]. C. M. CIPOLLA, Storia economica dell'Europa pre-industriale, Bologna 2009, p. 215. Già nel mio saggio L'Europa dei Malatesti, apparso nel n. 9/2010 di questi «Quaderni dell'Accademia Fanestre», ho inserito il medesimo richiamo, pp. 47-48.
[48]. A. MELLONI, Il diavolo non abita la storia. E non ci servono i tribunali, «Corriere della Sera», anno 103, n. 26, 01.02.2005, p. 31.
[49]. Citiamo dal tomo II della V ed., Poletti, Venezia 1714 (la I ed. è del 1685). Marco Battaglini, vescovo di Nocera e Cesena, nasce in Romagna a San Mauro il 25 marzo 1643, e vi muore il 19 settembre 1717. Una sua prima biografia è curata da Giovanni Bianchi (Iano Planco, 1693-1775), illustre medico e studioso di Rimini, per i «Memorabilia» di Giovanni Lami, Firenze 1747, pp. 121-132: cfr. A. MONTANARI, Rapporti culturali e circolazione libraria tra Venezia e Rimini nel XVIII secolo, «Ravenna studi e ricerche», X/2 (2003), pp. 229-259, p. 252. Per altre notizie, cfr. C. TONINI, La Coltura letteraria e scientifica in Rimini, Danesi, Rimini, 1884, II, pp. 114-123.
[50]. Questo il testo integrale di Damiano che si legge in Muratori: «Super quibus, praesente Henrico Imperatore, quum disceptaret postmodum Synodale Concilium, quia Venalitas intervenerat, depositus est».
[51]. Segue al proposito una citazione da Pier Damiano (p. 144): «Et quoniam ipse anteriorum tenere regulam noluit, ut aeterni Regis praecepta servaret, hoc sibi non ingrata divina dispensatio contulit, quod plerisque decessoribus suis eatenus non concessit: ut videlicet as ejus nutum sancta Romana Ecclesia nunc ordinetur, ac praeter ejus auctoritatem Apostolicae Sedi nemo prorsus eligat Sacerdotem».
[52]. Cfr. H. RUBEI, Historiarum Ravennatum Libri Decem, Venetiis MDLXXII, «Quod nequaquam Ravennae, nulli, preterquam Romane, umquam subiecte, contigit […]», p. 240.
[53]. F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino, cit., p 13.
[54]. Gisaltrude è figlia del fu Pietro e vedova di Falcuino. Cfr. L. TONINI, II cit., p. 538, nota 1: il castello è detto di «Monte rotundo» ed è «colle Chiese di S. Angelo e di Santa Felicita».
[55]. Raccolto istorico. Appendice. II vol. p. 6 (è l'ultima pagina del volume).
[56]. A. BATTAGLINI, Saggio di rime, cit., p. 16.
[57]. L. TONINI, II cit., doc. XXXXLII. pp. 508-509. Cfr. A. BATTAGLINI, Saggio di rime, cit., p. 15 in nota. Secondo la Scheda Garampi n. 101, Biblioteca A. Gambalunga Rimini, il documento è del 1015.
[58]. F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino, cit., pp. 25-29. L. TONINI, II cit., doc. LIII, pp. 531-535.
[59]. L. TONINI, II cit., pp. 309-310, doc. n. LIIII, pp. 536-537.
[60]. Cfr. G. FASOLI, Profilo storico dall'VIII al XV secolo, in «Storia della Emilia Romagna, I», Bologna 1975, pp. 374-375. Nello stesso volume, sul tema si veda pure il saggio di M. G. TAVONI, Le città romagnole conquistano la loro autonomia. Tentativi egemonici di Bologna, pp. 435-460. Ne ricordiamo alcuni passi. Dal 999 si ha «un principato ecclesiastico che sembra destinato a dare origine ad uno stato regionale»: Pavia passa in secondo piano, e Ravenna è «ricondotta alla sua funzione di capitale» (p. 436). I «potenti arcivescovi ravennati», nel «tremendo scontro tra Roma e le forze dell'Impero si schierano dalla parte degli imperatori e degli antipapi» (ib.). La Chiesa di Ravenna aspira all'autocefalia. La sua storia passa attraverso due momenti. Dapprima «prevalgono le forze che sono legate alla politica filoimperiale degli arcivescovi e, in linea generale, l'appoggiano». Poi viene «del tutto allo scoperto un atteggiamento antimperiale», per il «bisogno di autonomia di un più largo complesso sociale anche nei confronti dell'autorità dell'arcivescovo» (p. 438). Di un qualche interesse è la constatazione dell'affermarsi a Ravenna di una borghesia che, assieme ai rustici, «si agita per modificare il quadro sociale e aspira a raggiungere le posizioni di potere detenute dai primores civitatis» (p. 439). Per Rimini, va detto che la città non dipende da Ravenna ma fa parte della Pentapoli (p. 441), ovvero di quel «principato ecclesiastico» di cui abbiamo letto sopra. Questo dato ci permette di concludere che le analogie sociali tra Rimini e Ravenna riguardano lo sfondo, appunto il contesto, non l'iter processuale dei fatti. Non sempre risulta chiara a tutti gli studiosi la posizione di Rimini, parte della Pentapoli ed indipendente da Ravenna: ad esempio, G. Vespignani parla stranamente di «scarsezza di informazioni circa rapporti "feudali" tra arcivescovo di Ravenna e maiores del Riminese» (cfr. p. 356 del cit. vol. I della «Storia della Chiesa riminese», nel suo saggio Ceti dirigenti e patrimonio fondiario nel Riminese, pp.347-358).
[61]. L. TONINI, II cit., p. 331.
[62]. L. TONINI, II cit., p. 332. G. M. CANTARELLA, nel II vol. della stessa «Storia della Chiesa riminese», p. 40, osserva: anche se «formalmente, dell'Esarcato non faceva parte l'area riminese» tuttavia «non è un caso se proprio a Rimini il 14 marzo 1053 fu consacrato il nuovo metropolita ravennate»: cfr. il suo saggio Introduzione alla lotte per le investiture, pp. 35-48. Nel cit. I vol. della «Storia della Chiesa riminese», p. 397, R. SAVIGNI, nel saggio L'organizzazione ecclesiastica del territorio, pp. 379-400, considera la consacrazione del nuovo metropolita ravennate «simbolicamente un processo si avvicinamento del Riminese alla provincia ecclesiastica ravennate» (p. 397).
[63]. L. TONINI, II cit., p. 332. In Appendice, alle pp. 525-526, si trova il documento LXX. Forma electionis Petri episcopi Aniciensis (ripreso da J. MABILLON, Annales, t. IV Venturini, Lucae 1739, p. 681: «pontifex apud Ariminum […] episcopum consecravit»). Assieme all'Arcivescovo di Ravenna, è consacrato il Vescovo di Annecy che dà il titolo al documento. (Cfr. L. NARDI, Cronotassi dei pastori della santa chiesa riminese, Albertini, Rimini 1813, p. 78.) Sul tema, si veda pure G. BUZZI, Per la storia di Ravenna e di Roma, p. 191 del vol XXXVIII dell'«Archivio della R. Società Romana di Storia Patria», Roma 1915: pure qui si rinvia come fonte a J. MABILLON, Annales, t. IV. (Esiste la più antica ed. di Robustel, Parigi 1707, liber LX, XXXIII, Petrus Aniciensis episcopus a Leone ordinatus, p. 538.) Muratori sotto il 1118 ricorderà «come cosa di rilievo» il fatto che «Gualtieri Arcivescovo di Ravenna, seguendo non l'esempio di alcuni suoi Antecessori scismatici, ma il dovere del suo ministero, fece il questi tempi risplendere la sua devozione verso il vero Papa Gelasio II e con questo meritò, ch'esso Pontefice rimettesse sotto la Metropoli di Ravenna le Chiese di Piacenza, Parma, Reggio, Modena e Bologna, a lei tolte da Pasquale II…» (Annali d'Italia, VI, Lucca, 1763 per V. Giuntini, p. 333).
[64]. L. TONINI, II cit., p. 332, con rinvio al cit. documento LXX. Forma electionis Petri episcopi Aniciensis.
[65]. L. TONINI, II cit., p. 323. Cfr. pure p. 309 per gli eventi, e p. 536 per il documento cit.
[66]. F. G. BATTAGLINI, Memorie istoriche di Rimino, cit., p. 19.
[67]. Cfr. in Questioni di storia medievale, a cura di E. Rota, Milano 1951, p. 321.
[68]. B. ANDREOLLI, Il trionfo del particolarismo, «Storia dell'Emilia Romagna», I, Bari 2004, pp. 75-92, p. 78.
[69].MURATORI, Annali, VI, cit, pp. 138-139.
[70]. Ibidem, p. 142.
[71]. FASOLI, Profilo storico dall'VIII al XV secolo, cit., p. 374.
[72]. A. VASINA, La Chiesa Riminese in età comunale, «Storia della Chiesa riminese, II, Dalla lotta per le investiture ai primi anni del Cinquecento», cit., pp. 137-158, p. 137.
[73]. Ibidem.
[74]. A. MONTANARI, La presenza degli Ebrei a Rimini dal 1015 al 1799, 2011, <http://www.scribd.com/doc/46468695/Ebrei-a-Rimini-1015-1799>. Il testo sviluppa quattro articoli pubblicati sul settimanale «il Ponte» di Rimini nel 2005: 1. Rimini anticipa il ghetto ebraico (n. 42), 2. Ebrei, dal dazio del porto ai prestiti (n. 43), 3. Ebrei, le sinagoghe e il cimitero (n. 44); e nel 2006: 4. Ebrei di Pesaro a Rimini a fine 1700 (n. 22). Per questi ed altri materiali poi usciti a stampa, tra cui «L' Heretico non entri in fiera». Società, economia e questione ebraica a Rimini nel secoli XVII e XVIII. Documenti inediti, «Studi Romagnoli» LVIII (2007), Cesena 2008, pp. 257-277, si veda <http://www.webalice.it/antoniomontanari1/indici/storia.ebrei.rimini.1192.html>.
[75]. A. FALCIONI, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L'economia, Rimini 1998, p. 158.
[76]. Di tutto ciò non si trova traccia nel cit. II vol. della «Storia della Chiesa riminese» che arriva sino «ai primi anni del Cinquecento», nella parte dedicata all'argomento. A p. 322 si legge infatti: «… da parte della Chiesa locale non si rilevano atteggiamenti di intolleranza od ostilità verso gli ebrei»: cfr. O. DELUCCA, La comunità ebraica, il credito, i Monti di Pietà, pp. 317-340. Guardiamo ai fatti. Nel 1515 (il 13 aprile) a Rimini si discute la proposta di bandire gli Ebrei dalla città quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo. Ed il Consiglio generale approva all'unanimità l'adozione di tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandire gli Israeliti; far loro pagare le spese per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi; ed infine stabilire «che nell'avvenire volendo detti Ebrei continuare l'habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla». Per le donne, il successivo 28 aprile, è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte, facendo loro nel contempo divieto di porre sul capo i mantelli. Restano disattesi questi ordini del segno distintivo se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco, sono ripetuti in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio». Gli Ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta od alla benda gialle, ma di recare semplicemente un segnale sul mantello. La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città». Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale della città obbliga gli Ebrei riminesi a non abitare fuori delle tre contrade dove già si trovavano. Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV che con la «bolla» intitolata «Cum nimis absurdum» del 17 luglio 1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa, seguendo il modello realizzato nel 1516 dalla Serenissima Repubblica di Venezia. Cfr. MONTANARI, La presenza degli Ebrei a Rimini dal 1015 al 1799, cit. L'importanza del ruolo degli Ebrei riminesi è attestata dal fatto che essi realizzano in città tre sinagoghe, e non due come si sostiene dal cit. DELUCCA, La comunità ebraica, il credito, i Monti di Pietà, p. 329. La prima sinagoga è attestata sin dal 1486, sulla piazza della fontana (ora Cavour) dal lato della pescheria settecentesca, nella contrada di San Silvestro. Essa è poi definita come «vechia», quando è realizzata la seconda che in rogito del 1507 è chiamata «magna», nella contrada di Santa Colomba o San Gregorio da Rimini (via Sigismondo), nella porzione di quartiere tra l'odierna via Cairoli ed il Teatro Galli, lato monte. Nel 1555 la sinagoga «magna» risulta invece situata in contrada di San Giovanni Evangelista detta «delli Hebrei» (via Cairoli), a poca distanza dalla chiesa di San Giovanni Evangelista (Sant'Agostino), e proprio dalla sua parte, come si ricava dal documento datato 14 novembre riguardante la decisione presa dagli Ebrei riuniti nella Sinagoga «magna» di vendere la casa detta «la Sinagoga vechia». Della sinagoga «vechia» in questo documento del 1555 si scrive che è posta vicino («iuxta») alla strada detta «Rivolo della Fontana» o «del Corso», cioè nell'angolo della piazza Cavour con la contrada di Santa Colomba (via Sigismondo). Il «Rivolo» andava dalla piazza del Castello sino alla piazza Cavour, cambiando poi qui il nome in contrada di San Silvestro. La sinagoga «vechia» era quindi situata nella parrocchia di San Silvestro, delimitabile con il corso d'Augusto, via Cairoli e via Sigismondo e piazza Cavour. La nuova sinagoga è trasferita prima nella zona della parrocchia di Santa Colomba che è speculare verso monte rispetto alla parrocchia di San Silvestro; e poi nella parrocchia di Sant'Agostino sul lato dove sorge la chiesa. Nel 1569, dopo che il 26 febbraio papa Pio V ha dato il bando agli Ebrei da tutte le sue terre ad eccezione di Ancona e Roma, gli israeliti di Rimini decidono di vendere l'ultima sinagoga, quella posta nella parrocchia di Sant'Agostino. Il 16 maggio il bolognese Prospero Caravita (abitante in Rimini) ed il ravennate Emanuellino di Salomone, come rappresentanti della comunità israelitica locale, stipulano l'atto relativo, consapevoli che per l'editto pontificio tutti gli Ebrei che si trovavano nella nostra città l'avrebbero dovuta abbandonare entro breve tempo. Quest'ultima sinagoga è composta di tre stanze («una domum consistentem ex tribus stantiis»): la più grande è quella dove si riunivano a pregare gli uomini, un'altra più piccola dove si adunavano a pregare le donne, ed un'altra infine posta sopra quest'ultima e sempre ad uso delle donne.
[77]. C. TONINI, Compendio della Storia di Rimini. Dalle origini all'anno 1500, Renzetti, Rimini.
[78]. Ibidem, pp. 156-157.

Fonte: Rimini 1061, una guerra dimenticata, Quaderni Accademia Fanestre, 10/2011, Fano [2013], pp. 9-42.

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