Alle origini di Rimini moderna (12). Il grande sogno umanistico di Sigismondo: con il tempio dell'Alberti costruire un ponte ideale con il passato da rivivere nel presente
Strade del potere e della cultura
[Versione non definitiva]

Leon Battista Alberti a metà del XV sec. ridisegna l'esterno della chiesa di san Francesco a Rimini per trasformarla nel tempio voluto da Sigismondo Pandolfo Malatesti. Realizza un'idea coltivata nel suo "De re aedificatoria". Le opere dell'antichità, vi leggiamo, sono dei modelli da cui molto si può apprendere per pensarne di nuove. Nella facciata del tempio, Alberti mette in pratica il principio teorico scandendo lo spazio con quattro semicolonne ispirate al vicino Arco di Augusto. L'esempio del passato diventa novità e fonde in un'immagine originale il richiamo alla Storia.

Un progetto
L'edificio progettato da Alberti sovrasta la città allo stesso modo in cui il suo signore domina la scena politica aldilà della cerchia delle mura. Il valore ideale del richiamo al mito iconografico degli imperatori non è un vano esercizio di retorica finalizzato a scopi di propaganda politica. Esso incarna il sogno di rinnovare nel tempio un progetto universalistico che, oltre le strade della politica, cerca di costruire un ponte ideale con quanto dal passato poteva ritornare nel presente. In un territorio meno ovvio e bellicoso delle rivalità fra governanti, quello della cultura.
È un sogno umanistico in piena regola, non gretta amministrazione di un patrimonio condizionato da condotte militari e trattative diplomatiche. Le armi degli eserciti e le insidie dei canali politici cedono il passo a un progetto grandioso, simboleggiato dall'operazione architettonica eseguita da Alberti nel tempio riminese.
Nella cui fiancata destra che guarda verso Roma, trovano ospitalità i sarcofagi di studiosi e letterati proprio per dimostrare quel sogno umanistico che fa della cultura non uno sterile strumento della politica, ma l'habitat naturale di una corte e della vita cittadina.

Testo greco
Da questa premessa deriva pure la scelta di apporre su entrambe le sue fiancate l'adattamento di una celebre iscrizione greca di Napoli. Essa documenta l'alta cultura umanistica presente in àmbito malatestiano riminese. Sigismondo, “scampato a moltissimi e grandissimi pericoli nella guerra italica”, dedica il tempio (“un monumento illustre e caro”) “a Dio immortale ed alla città”. Di Sigismondo il testo elogia il valore delle sue imprese, ma non dimentica la “buona fortuna” che lo ha assistito. L'accenno alla “buona fortuna” rimanda a testi contemporanei, confermando lo spirito umanistico proiettato con meraviglioso vigore nel tempio.
Nel 1453 nell'orazione tenuta a Vada (quando Firenze conferma a Sigismondo la guida del proprio esercito prima che si concluda la guerra italica a cui si riferisce l'iscrizione), Giannozzo Manetti spiega che un capitano ideale deve avere quattro doti: scienza delle armi, virtù, autorità e “”la prosperità, cioè la buona fortuna, e come vulgarmente si dice la ventura”.

Fortuna e virtù
Alberti nel “Della famiglia” ammaestra che “tiene giogo la fortuna solo a chi se gli sottomette”, per dimostrare il primato della “virtù”. Su questo primato concorda anche Basinio Basini in un'epistola poetica dedicata proprio a Sigismondo, anche se non dimentica il ruolo avuto dalla “buona fortuna” nelle guerre condotte dal signore di Rimini. Di essa tratta pure nel poema “Hesperis” a lui offerto. È quella “buona fortuna” di cui si legge nella tradizione greca.
Alberti umanista, ha scritto Ezio Raimondi, reinventa la romanità nel tempio di Sigismondo con una “dimensione grande” che, proponendosi come risposta “alla miseria dell'uomo”, “rinasce con un volto tutto riminese, adattata a un territorio in cui la pietra si porta dentro anche il senso dell'acqua”.
La nascita del tempio di Sigismondo è una grande pagina di storia non soltanto locale, che può essere letta correttamente se la inquadriamo in quel grande libro della cultura italiana composto nell'arco di due secoli: non soltanto il Quattrocento del Malatesti, ma anche quel Cinquecento che vede il tramonto della sua signoria. La vicenda artistica dell'edificio dell'Alberti dimostra che le strade di potere e di cultura sono sempre affiancate, anche nei momenti in cui il declino del primo elemento tenta di offuscare il valore della seconda realtà.

Linea padana
Sulle signorie padane Gian Mario Anselmi ha scritto una pagina fondamentale quando ha osservato che esse permettono alla cultura ed alla letteratura rinascimentali di raggiungere “uno sviluppo che le colloca al vertice della storia italiana ed europea del tempo”. Per comprendere come ciò avviene, Anselmi delinea una mappa culturale e politica, dominata dalla diagonale che lega le corti francesi a Milano, Mantova, Parla e all'area estense con il centro a Ferrara. Scendendo verso Sud incontriamo Bologna, Ravenna e la Romagna in direttrice con lo Stato della Chiesa e con Roma.
Uscendo da questa mappa di grande suggestione, per Rimini resta da osservare soltanto che va citato anche il ponte con l'Oriente che Sigismondo getta in un momento difficile. Dopo la presa di Costantinopoli, Sigismondo tenta un simbolico abbraccio culturale tra Oriente ed Occidente. Nel 1461 aderisce all'invito del sultano dei Turchi ad inviargli uno dei migliori artisti della sua corte, Matteo de' Pasti, con l'incarico di fargli un ritratto. A lui Sigismondo affida per Maometto II una copia del “De re militari” di Valturio. In una elegante epistola latina stesa dallo stesso Valturio, Sigismondo dichiara di voler far partecipe il sultano dei propri studi ed interessi.

L'Oriente
Matteo de' Pasti, arrestato in Candia prima di giungere a destinazione, è trasferito a Venezia dove è processato e liberato il 2 dicembre 1461 dopo esser stato riconosciuto innocente. Contro Sigismondo i suoi avversari inventano un'altra gravissima accusa: d'aver invitato Maometto II a combattere il papa. In tal modo lo accreditano in un solo botto come nemico della Religione, dello Stato della Chiesa, delle signorie e dell'Italia tutta.
L'accusa e la vicenda che la genera, dimostrano quanto si diceva prima: le strade del potere e della cultura corrono parallele.
Pletone, teologo a Costantinopoli, era giunto a Firenze per il Concilio nel 1439. La sua “concezione cristianeggiante del platonismo” sarebbe stata trasformata “con un cumulo di bugie e di contumelie” da Giorgio di Trebisonda (osservava G. De Ruggiero) nella leggenda di un riformatore religioso che annuncia la fine delle tre grandi religioni: ebraica, cristiana e maomettana. Gemisto sognava uno Stato ideale come incarnazione della repubblica di Platone, vero idolo dei nostri umanisti. Sigismondo recupera a Mistra le ossa di Pletone il 16 agosto 1464 a dodici anni dalla sua morte, per farle collocare nel terzo sarcofago esterno del Tempio.
Dopo la conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II (29 maggio 1453), quando sembra accentuarsi la necessità del dialogo fra mondi in apparenza divisi su tutto, Sigismondo continua ad agire da filosofo umanista. Il suo compito non è quello d'ordinare sistematicamente il pensiero precedente, ma di cogliere nel suo divenire gli spunti sui quali costruire quello futuro.

Verità nascoste
Per comprendere quanto di umanistico offrano le idee ed i progetti culturali di Sigismondo, è utile rammentare con lo storico della Filosofia Paolo Rossi “che le verità presentate come ovvie nei manuali sono in realtà dei risultati; che quei risultati hanno alle spalle processi lunghi e complicati; che dietro ciascuno di quei risultati sono presenti, contrasti, difficoltà, tentativi di individuare le crisi e di uscire da esse; che anche il passato (e non solo l'avvenire) è pieno di cose imprevedibili”.
La figura di Sigismondo rassomiglia molto a quella dell'Alberti che, come scrisse Francesco De Sanctis, è l'ideale sintesi dell'uomo nuovo, quale si andava allora elaborando in Italia. E che si proietta su tutto il Cinquecento.
(12. Continua)

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Antonio Montanari

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