Alle origini di Rimini moderna (9). Camminiamo nelle tenebre, scrive Guicciardini a Machiavelli, "ho perduto la bussola". La crisi della coscienza italiana, tra armi ed affari
Uomini nuovi tra idee vecchie
[Versione non definitiva]

Il presidente di Romagna Francesco Guicciardini scrive a Niccolò Machiavelli da Faenza il 7 agosto 1525: "Di nuovo non intendo niente che abbia nervo, e credo che ambuliamo tutti in tenebris, ma con le mani legate di dietro per non potere schifare [schivare] le percosse". Osserva M. Palumbo: è un pensiero pessimistico: quell'ambulare "appartiene fatalmente al regno esclusivo delle tenebre né esiste possibilità di invertire il senso di marcia del destino".

Bussola perduta
Per Girolamo Savonarola invece le tenebre potevano rovesciarsi nel loro opposto attraverso la riscoperta di Cristo: "La fratellanza, la solidarietà, la redenzione presuppongono il suo sacrificio, che s'immette come un cuneo nelle maglie della storia e si propone come un ideale da abbracciare senza riserve". Questa rigenerazione riguarda non soltanto l'individuo, ma l'intera collettività: "dico a voi, che volete vivere bene: Ambulate dum lucem habetis, - camminate mentre che avete la luce", predica Savonarola.
Il 26 dicembre 1525 Guicciardini ancora a Machiavelli confessa che sulle cose pubbliche non sa che dire, "perché ho perduto la bussola". Poi aggiunge: "conosceremo tutti meglio i mali della pace, quando sarà passata la opportunità del fare la guerra". La bussola perduta è un'efficace immagine della crisi della coscienza italiana, combattuta tra le armi e gli affari, con in mezzo l'arbitro della Politica che non risolve i problemi se non con la violenza. Gli affari e le ricchezze che ne derivavano, nel corso di questo secolo, scrive N. Bazzano, sono minacciati da un'inflazione che caratterizza la vita economica. Peggiorano anche le condizioni dei contadini, come testimonia la rivolta di quelli tedeschi tra 1525 e 1526. Paura e disprezzo dei ceti superiori, spiega V. Beonio Brocchieri, ricadono sui lavoratori della terra.

Giustizia dei nobili
In Italia come nel resto d'Europa "i nobili, per diritto o consuetudine, hanno la possibilità di amministrare la giustizia civile o penale", scrive Bazzano, introducendoci ad un argomento di grande importanza per la storia del cinquecento: l'organizzazione dello Stato. Essa avviene, leggiamo in A. Musi, attraverso corpi scelti di funzionari che rappresentano la nascente borghesia degli affari. Lo Stato alimenta anche la "civiltà della carta bollata". Con avvocati e magistrati che costituiscono una parte delle borghesie del secolo. Come troviamo in un celebre storico, F. Braudel, il denaro distingue il ricco dal povero già come un pregiudizio di nobiltà.
Il cronista ducentesco Salimbene da Parma aveva osservato che i nobili vivevano allora in campagna e nei loro possedimenti, mentre i borghesi erano nei borghi cittadini, dai quali derivava il loro titolo. I nobili invece erano detti "cives", cittadini, anche se stavano fuori della mura dei centri urbani. Tra i borghesi emerge, scrive C. Di Girolamo, una ricca borghesia degli affari capace di inserirsi in profondità sia nel possesso fondiario sia nelle istituzioni del governo cittadino.

"Uomini nuovi"
Sono "uomini nuovi" per usare la definizione classica che riguarda quanti come Catone e Cicerone, in Roma antica, erano giunti alle prime cariche della Repubblica senza alcuna raccomandazione da parte degli antenati. Contro la "gente nuova" venuta dal contado nella città di Firenze, si scaglia Dante (Inf., XVI, 73-74) accusandola di aver fatto soldi in fretta e di aver prodotto orgoglio e sfrenatezza. Bernardino Daniello da Lucca, un commentatore di Dante vissuto nel sec. XVI, spiega che la "gente nuova" è quella nuovamente venuta dal contado ad abitar in città. E che i guadagni "sùbiti" di cui parla Dante, sono quelli non leciti ed ingiusti, come ad esempio i frutti dell'usura.
Un "uomo nuovo" che fa una straordinaria carriera come studioso di Diritto partendo proprio da Rimini è Sebastiano Vanzi.

Vanzi da Rimini
Nato in una famiglia non nobile della periferia riminese, forse in un contesto di proprietari fondiari immigrati già da qualche generazione dalla Toscana, egli ben rappresenta la società del tempo.
In Vittorio Spreti ("Enciclopedia Storico-Nobiliare Italiana", VI) si legge che la sua antica famiglia era originaria da Scorticata. Francesco, figlio di Gaspare, detto anche Avanzi, andò ad abitare nel 1505 a San Clemente, dove sposò Bernardina Bellino. "Morì nel 1544 lasciando vari figli, fra i quali Lodovico e Sebastiano. Quest'ultimo si diede alla carriera ecclesiastica che percorse brillantemente", divenendo vescovo di Orvieto.
Il filosofo olandese Ugo Grozio (1583-1645) in una lettera del 1631 inserisce citazioni tratte da scritti di due giuristi italiani, il bolognese Ippolito Marsili (1450-1529) e mons. Vanzi, autore di un trattato sulle nullità processuali, concluso nell'anno giubilare 1550 ed apparso in prima edizione a Lione nel 1552. Sino al 1625 il volume, che gli dà fama internazionale di giurisperito, è pubblicato 24 volte: oltre che a Lione (4), anche a Venezia (14), Colonia (5) e Spira (1). Appare poi a Colonia (5) fra 1655 e 1717.
Lione è il secondo centro tipografico della Francia dopo Parigi, ed una delle principali piazze finanziarie d'Europa per le sue fiere importanti e l'industria tipografica che era d'esportazione. Lione, senza università e Parlamento, gode di grande libertà. Da Lione partono assidue relazioni con Basilea e i paesi renani. Essa fu "quasi una città italiana" dalla fine del Quattrocento sino agli inizi della guerra di religione (1562), come osserva J.L. Fournel. Nel corso del secondo Cinquecento, Lione e Venezia si affermano quali centri dell'editoria giuridica internazionale con un mercato librario esteso all'intera Europa.

Carriera a Roma
Vanzi, prima di diventare Vescovo di Orvieto il 17 aprile 1562, lavora a Roma sotto Paolo IV (1555-1559) quale Luogotenente dell'Auditore Generale della Camera Apostolica, e Referendario (prima carica dopo quella del Prefetto) delle due Segnature, una delle quali è un vero tribunale. Pio IV (1559-1565) lo fa Auditore della Sacra Rota e suo Consultore. Nell'indice della raccolta dei «Tractatus Universi Juris», Venezia 1584, contenente la sua opera al IV tomo, egli è presentato come «romanus».
Dopo la nomina a Vescovo, Vanzi partecipa al Concilio di Trento, occupando uno dei quattro posti di Definitore. Gli affidano l'esame di delicate questioni. Circa l'obbligo per i Vescovi di risiedere in una determinata diocesi, lo ritiene fondato non su precetto divino ma sul diritto canonico. Per i matrimoni segreti, Vanzi ritiene che possano essere invalidati in caso di frode. Nella sua storia dei Concili (1714) il riminese mons. Marco Battaglini (1654-1717) sottolinea il «chiarore della Scienza legale» di Vanzi.
Vanzi scompare nel 1571 a 57 anni, si legge nell'aggiunta all'epigrafe collocata nel 1562 «a cornu Evangeli» nella cappella di San Girolamo del Tempio malatestiano, sotto il busto di Vanzi (appena fatto Vescovo), in segno di riconoscenza per averla riccamente dotata. Nel 1556 la città lo ha già onorato con un «monumento» per celebrare gli amplissimi meriti che, conseguiti negli studi e con scritti giuridici, hanno onorato la sua patria. A lui, vivente, è stata così dedicata la sesta tomba nella fiancata destra dello stesso Tempio di Sigismondo.
Essa è preceduta dalle quattro "malatestiane" (i poeti Basinio Parmense e Giusto de' Conti, il filosofo greco Giorgio Gemisto Pletone, e Roberto Valturio). E si trova tra quella dei medici Gentile e Giuliano Arnolfi (1550), e quella (vuota) per Bartolomeo Traffichetti (1581), medico. Queste tre tombe simboleggiano la scelta politica di dimenticare le vicende malatestiane, considerate fonti soltanto di disgrazie.
Il 2 febbraio 1556 il Consiglio generale di Rimini decide di aggregare Sebastiano Vanzi nel numero dei Nobili della città.
(9. Continua)

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Antonio Montanari

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