Antonio Montanari.
«L'heretico non entri in fiera»
Società, economia e questione ebraica a Rimini nei secoli XVII e XVIII.
Documenti inediti
[Testo a stampa, Studi Romagnoli 2007]


1. L'«ultima ruina» da papa Urbano VIII[1]

Gli ebrei sono stati «considerati dei “diversi” da sfruttare sempre, tollerare a tratti e vessare ogni volta che si verificavano esigenze di maggiore compattezza ed uniformità» [2]. Le conclusioni tratte da Maria Grazia Muzzarelli per la realtà cesenate quattrocentesca, valgono anche per la vicenda politica riminese di età successiva, argomento di queste nostre pagine. Il titolo datovi, «L'heretico non entri in fiera», sintetizza un passaggio dei Capitoli sulla fiera del 1671 alla quale avrebbe potuto «liberamente venire, andare, e pratticare, vendere e comprare ogni sorte di Persone, eccettuati Heretici, Scismatici, Ribelli di S. Chiesa, Banditi di vita, e condannati, acciò che li Mercanti, che vi vengano possino assicurarsi da essi» [3]. Gli ebrei, normalmente evitati dai cristiani al pari di «Heretici, Scismatici, Ribelli di S. Chiesa», non figurano nella lista degli esclusi per il motivo magistralmente indicato dalla Muzzarelli. Non accettati e riconosciuti dalle istituzioni, essi sono tollerati nella speranza che la loro presenza permetta di uscire da una situazione di grave depressione economica.
Attraverso l'esame dei rapporti intercorsi nei secoli XVII e XVIII fra Rimini ed i gruppi ebraici che la abitarono o frequentarono [4], tenteremo di riassumere la vita sociale della città, delineando aspetti inesplorati dell'azione politica della classe dirigente locale. La quale si scontrò continuamente con il potere centrale del governo ecclesiastico, e con quello periferico del clero cittadino arroccato nella difesa di privilegi e di esenzioni [5]. Nel 1659 il cardinal legato Giberto Borromeo [6] può lamentare d'aver visto messa a dura prova la propria pazienza nelle discussioni con gli amministratori riminesi durate «sette, et otto hore continue». E ne ricava l'implicito ammonimento impartito al governatore della città Angelo Ranuzzi, che il «grave sconcerto» in cui versava Rimini è la conseguenza del comportamento di quegli stessi amministratori, «disapplicati» a ben dirigere gli affari pubblici [7]. Il «tedio» di cui Borromeo parla con Ranuzzi, e che ha sperimentato in quelle discussioni, nasce probabilmente da un fatto: gli amministratori circa la crisi riminese [8] avevano opinioni diverse dalle sue, e insistevano sopra un punto particolarmente indigesto al legato ed al clero. La città, secondo gli amministratori riminesi, era stata condotta all'«ultima sua ruina» dalle spese militari imposte pochi anni prima (1641-1644) da Urbano VIII, come la Municipalità spiega alla Congregazione del Buon Governo [9].
Anche per motivi meno gravi ma non per questo di minore importanza, Rimini doveva incessantemente discutere sia con il vescovo della città sia con le autorità romane. Basti qualche esempio. Nel 1668 papa Clemente IX scioglie la Congregazione dei Girolamini che a Rimini dal 1517 aveva in affidamento la chiesa della Colonnella, il cui juspatronato era stato riconosciuto nel 1506 da papa Giulio II alla Municipalità [10]. Il vescovo vuol togliere alla comunità il diritto di nominarne i cappellani [11]. I consoli ribadiscono alla Congregazione della soppressione [12] che già nel 1622 i Girolamini «fecero litigio con il Publico, ma furono costretti a mantenere il jus patronato del Publico». La Congregazione temporeggia. Il vescovo Marco Gallio cerca anche di far «applicare» la chiesa della Colonnella al seminario vescovile, il che appare agli amministratori locali «stravagante e cosa molto disdicevole» [13]. Rimini replica a Roma che non potevano esserle tolti i propri diritti né dal vescovo né dal legato né dalla sede apostolica [14]. La morte di Clemente IX (9 dicembre 1669), e la sede vacante sino al 29 aprile 1670 quando è eletto Clemente X, bloccano la pratica. Soltanto nel gennaio 1671 la città, grazie ai buoni uffici del futuro cardinale Gasparo di Carpegna, pro-datario e vicario generale ma soprattutto ex vescovo di Rimini (1656-1659), ottiene parziale soddisfazione: restava aperto il discorso sui beni della chiesa [15]. Di una «lite» intercorsa fra la Municipalità ed un Ordine religioso, è traccia in carte relative al monastero di San Giuliano ed alla fiera su cui diremo infra e che si svolgeva nell'omonimo borgo. In occasione di essa i monaci volevano affittare alcune stanze di loro proprietà. La Municipalità si oppone, non ritenendole «opportune ad abitazione di onorati mercatanti», in quanto erano state ridotte dal monastero «a stalle d'animali, et a postriboli di femmine di mondo» [16]. Indicativa dell'ingerenza romana negli affari cittadini, è una vicenda del 1775: Pio VI, a proposito della gestione della riminese «Eredità Gambalunga», sospende gli effetti del testamento di Alessandro Gambalunga (fondatore dell'omonima biblioteca, dal 1619 la prima in Italia ad essere civica) e, anziché tutelare, come l'atto prevedeva, i diritti di quattro «Luoghi Pii», interviene per riparare alle «tante dissipazioni» e ad una mole «smisurata di debiti» che stavano portando verso la «total ruina» gli eredi di quella famiglia [17].
Il governatore Ranuzzi nel 1660 stila un ritratto di Rimini in cui si mescolano sagaci annotazioni ed ammonimenti di pedagogia politica [18]. Detto che i suoi cittadini sono «più dediti all'amoreggiare, che al combattere», e che «quasi tutti i delitti sono commessi» dai contadini in campagna, Ranuzzi osserva che i nobili per apparire eleganti sperperano con grande facilità tutto il loro patrimonio [19]. Nessun dubbio esiste circa l'incapacità dei nobili non soltanto riminesi di sapersi amministrare (come i fatti dimostrano ampiamente). Ma Ranuzzi nello scrivere quel ritrattino al curaro era forse guidato soltanto da un suo privato livore verso quanti reggevano la cosa pubblica, piuttosto che dal desiderio di recare un contributo alla comprensione di una società in crisi tremenda anche per colpa della politica romana. L'alleanza fra aristocratici e potere ecclesiastico regge sino all'arrivo dei francesi in Italia nel 1796, mentre una nuova menta¬lità sta diffondendosi in Europa, sulla scia della bufera dell'Ottantanove con i conseguenti risvolti giuridici e politici [20]. La contribuzione richiesta dai francesi alle città occupate manu militari è l'occasione per rompere ogni infingimento e denunciare che i capitali degli ecclesiastici erano «morti, e di solo lusso», in virtù di considerazioni politiche ed economiche che inserivano Rimini nel circuito dei lumi lombardi di Beccaria [21].
Se l'ascesa dei «giacobini» locali è la pagina conclusiva di una vicenda che contrappone Municipalità e Chiesa, il momento in cui (un secolo prima) si prende coscienza della necessità di gestire la città seguendo una linea di indipendenza nei confronti di Roma, è il 1670 quando Rimini chiede «un nuovo Ghetto d'Hebrei» [22], considerati «necessarissimi» [23] all'economia cittadina da decenni in ginocchio. Nel 1666 in Consiglio era stata bocciata analoga proposta [24], legata alla nuova fiera [25] sul porto autorizzata nel 1656, ripetuta nel 1659 e sospesa nel 1665 dal governatore. Essa riprenderà [26] dal 1671 al 1680 con una continua diminuzione del «concorso» di mercanti e compratori [27] per cui non porta «se non incomodo» ai commercianti locali [28]. Soltanto nel 1691 la fiera ritorna [29], senza smalto e soprattutto senza gli effetti positivi sperati.
Alla fiera del 1671 (durata undici giorni anziché gli otto previsti), sono presenti otto ditte di ebrei [30], tutte del settore tessile-abbigliamento. Tre sono di Ancona, tre di Urbino, due di Pesaro [31]. Le merci da loro introdotte hanno un valore pari al 28,25% del totale. Gli affari invece sono magri, immaginiamo non per la qualità dei prodotti offerti dagli ebrei, ma per un pregiudizio religioso nei loro confronti. Dei 5.914 scudi dichiarati come valore delle merci entrate, le otto ditte di ebrei vendono soltanto il 16,82%, pari a 995 scudi [32], cioè il 10,16% del venduto totale della fiera, pari a 9.787 scudi. Nel 1693 alcuni ebrei che erano «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini prima che fosse loro proibito «d'alcun tempo in qua», ottengono di poter inoltrare al papa un memoriale per farvi ritorno [33]. Essi sostengono che «l'avergli levato il libero commercio» ha provocato alla città un «danno comune».
La questione ebraica è una specie di cartina di tornasole nell'analisi dei due fronti: quello statuale-religioso da una parte, e dall'altra quello amministrativo locale. Il potere statuale-religioso (centrale e periferico) appare rigorosamente vessatorio ed intollerante man mano che si scende dai vertici ecclesiastici alla base del clero. A sua volta il clero influenza e condiziona il comportamento ostile delle masse popolari verso gli ebrei, fatti oggetto di scherno e violenze. Il governo cittadino ad un certo punto tenta di realizzare una propria politica autonoma da Roma nei confronti degli israeliti, non in nome di astratti princìpi ma in virtù di concretissime ragioni di generale convenienza economica. I mercanti ebraici scrivono il loro memoriale nel 1693, l'anno dopo che a Ferrara (la cui realtà economica era caratterizzata dalla predominanza del ceto ebraico [34]), è stato introdotto dal legato Giuseppe Renato Imperiali il «libero commercio» dei grani, anche se per soli dodici mesi, nella provincia e fuori di essa [35], ripetendo analogo provvedimento pontificio di Clemente IX (1667-69). Il libero commercio (già realizzato a Rimini nel 1468 sotto il governo di Isotta, Roberto e Sallustio Malatesti per mercanti cittadini e forestieri), sarà riconosciuto nello Stato della Chiesa, per eliminare il contrabbando [36], dalla Constitutio di Benedetto XIV nel 1748, in cui si dichiara come la sua proibizione nel passato fosse stata eseguita dalla Inquisizione «con tale asprezza» da rovinare le «povere» famiglie di «buona parte de' Possidenti, coloni e contadini» [37].


2. Per «un nuovo Ghetto d'Hebrei»

Su questo sfondo possiamo rievocare un emblematico episodio del 1660. L'«Hebreo Servadio» [38] è fatto prigioniero per esser stato trovato a Rimini «senza licenza di dimorarvi», assieme al «suo amico» David. Salvato dalla pena corporale dei «tre tratti di corda» per intervento presso il vicario vescovile, del signor «Girolamo Giordani, gentilhuomo di Pesaro» [39] di passaggio a Rimini, Servadio è multato di dodici scudi destinati alla curia e di due scudi per la cancelleria. L'intera somma è pagata per lui da «un tal Gioseffo Montefiore hebreo di Pesaro» [40]. Servadio e David inviano un memoriale di protesta al Sant'Offizio. Il quale chiede al governatore riminese Ranuzzi «una sincera, ed esatta informazione della verità del fatto» [41]. Nel frattempo il vicario vescovile di Rimini ottiene da Servadio la dichiarazione di non aver presentato alcun ricorso a Roma. Ma Roma ordina a Ranuzzi che siano restituiti a Servadio i dodici scudi della multa [42], con la spesa di uno scudo per lo «zoco» (emolumenti della cancelleria). Ranuzzi esegue ed informa Roma della richiesta fatta a Servadio dal vicario per la smentita circa il memoriale inoltrato dall'ebreo al Sant'Offizio. Richiesta a cui Servadio s'è sottomesso per evitare ulteriori fastidi. Dieci anni dopo, nel 1670, la Municipalità inoltra inutilmente al papa la richiesta di concedere la «facoltà di poter eriggere in questa Città un nuovo Ghetto d'Hebrei» [43], giustificandola con la necessità di portare «sollievo» economico a Rimini per mezzo di un «qualche poco» di commercio, fondamentale per una ripresa nelle «presenti contingenze della nuova fiera» per la quale gli ebrei sono ritenuti «necessarissimi» [44]. La vicenda economica locale s'intreccia con la più generale questione ebraica. Partiamo da quest'ultima, riassumendola in ordine cronologico.
Il 10 giugno 1432 Galeotto Roberto Malatesti ottiene da papa Eugenio IV un «breve» che impone agli ebrei riminesi il «segno» di distinzione obbligatorio, del resto già introdotto dal IV concilio lateranense del 1215 sotto Innocenzo III: una rotella di stoffa gialla cucita sulla parte sinistra del petto. Nel 1433 il podestà di Cesena adotta analogo provvedimento, valido anche per Bertinoro e Meldola. Il signore di Cesena Domenico Malatesta Novello, dietro supplica di due banchieri ebraici, Masetto Angeli e Leone Zenatani, ordina la revoca del provvedimento, per mantenere buoni rapporti con la società israelitica tanto utile alla città con i propri traffici mercantili e monetari. Nel 1501 nasce a Rimini il «Sacro Monte della Pietà» per fare concorrenza ai prestatori ebraici [45]. Due assalti ai loro banchi avvengono nel 1429 e nel 1503. Nel 1510 è concessa loro l'autorizzazione a «facere bancum imprestitorum», cioè di svolgere legalmente attività finanziaria [46].
A Rimini il 13 aprile 1515 il Consiglio generale, preso atto che gli ebrei sono visti in città «ut inimicos» [47], approva all'unanimità tre provvedimenti: chiedere licenza al papa di bandirli; far loro pagare le spese [48] per i soldati a piedi ed a cavallo «qui condotti, e trattenuti per guardia de gli Ebrei» medesimi [49]; ed infine stabilire «che nell'avvenire volendo detti Ebrei continuare l'habitatione in questa Città, portassero il capello, o la beretta gialla» [50]. Restano disattesi questi ordini del segno distintivo se nel 1519, dietro istanza di frate Orso dei Minori di San Francesco [51], essi sono ripetuti in obbedienza anche ai «decreti del Sacro Concilio» lateranense del 1215. Gli ebrei richiedono di non essere costretti alla berretta od alla benda gialle (secondo il sesso), ma di recare semplicemente un segnale sul mantello [52]. La città ricorre al papa «da cui fu commandato, o che quelli partissero da Rimini, overo obbedissero alla Città» [53]. Circa i soldati usati nel 1515 «per guardia de gli Ebrei», va precisato che essi forse sono parte dei seicento armati impiegati nel 1510 (per volere del papa, a causa di risse e disordini politici); oppure dei «nuovi fanti» giunti nel febbraio 1513 «per la custodia della città», afflitta da violenze continue d'ogni sorte, e delle guardie destinate a frenare i «faziosi» del contado (maggio 1513), per le quali è creata una nuova tassa. Si può ipotizzare che nel 1515 si vogliano far pagare alla comunità ebraica le spese militari registrate negli ultimi cinque anni. Soprattutto perché in quell'anno «fra gli altri mali eravi quello, di tutti forse peggiore, della mancanza di pecunia» [54].
Nel 1540 la Municipalità è costretta ad intervenire per difendere gli ebrei, con l'intimazione ai cristiani di non colpirne le case ad usci e finestre. Il 22 luglio 1548 il Consiglio generale obbliga gli ebrei riminesi [55] a non abitare fuori delle tre contrade dove già si trovavano (San Silvestro, Santa Colomba e San Giovanni Evangelista). Si anticipa così il provvedimento di papa Paolo IV che con la «bolla» Cum nimis absurdum del 17 luglio 1555 istituisce il ghetto in tutto lo Stato della Chiesa, seguendo il modello realizzato nel 1516 dalla Repubblica di Venezia. Il 27 marzo 1549 agli ebrei è imposta una contribuzione straordinaria per il Monte di Pietà [56]. Al quale però gli stessi ebrei non possono accedere [57]. La «bolla» pontificia del 17 luglio 1555 induce la nostra Municipalità il successivo 20 agosto a delimitare la zona in cui agli ebrei è permesso di risiedere, ovvero la sola contrada di Sant'Andrea [58] corrispondente all'odierna via Bonsi, in un tratto che va dall'angolo degli attuali Bastioni Occidentali (detti allora «Costa del Corso») sino all'oratorio di Sant'Onofrio. All'inizio ed alla fine del ghetto erano stati posti due portoni. Nel 1557 il ghetto è già realizzato. Vi si trasferiscono i dodici nuclei famigliari esistenti in città [59]. Nel 1562 la Municipalità proibisce (29 aprile) ai cristiani di abitare nella contrada degli ebrei [60], ma autorizza (14 ottobre) il ricco ebreo Ceccantino di avere casa «extra ghettum» [61]. Sabato 26 febbraio 1569 Pio V dà il bando agli ebrei da tutte le sue terre entro tre mesi, ad eccezione di Roma e d'Ancona [62].
Rimini va controcorrente. Il 9 dicembre 1586 il Consiglio generale autorizza gli ebrei con licenza di abitare nello Stato della Chiesa, a risiedere nel ghetto cittadino [63]. Il 22 dicembre 1586 essi chiedono allo stesso Consiglio di poter continuare a vivere «familiariter» a Rimini al di fuori del luogo detto «il ghetto», dove si rifiutano di permanere. Non ricevono risposta, a quanto risulta dalle carte [64]. Soltanto il 19 settembre 1590 in Consiglio [65] è presentata la proposta di approntare gli strumenti giuridici per cacciare dalla città gli ebrei che non l'hanno ancora abbandonata, e che sono equiparati a «vagabondi e forestieri». Approvata a larghissima maggioranza, la decisione è destinata a restare senza risultato, grazie ad una aggiunta secondo cui l'espulsione sarebbe avvenuta nel «caso si potesse e vi fosse Motu proprio o Breve pontificio». Il cavillo giuridico contraddiceva l'esito del voto stesso. Gli ordini papali c'erano già (bando del 26 febbraio 1569), ma non erano stati applicati. Nel 1593 Clemente VIII delibera l'espulsione definitiva degli ebrei dallo Stato della Chiesa, fatta di nuovo eccezione per Roma ed Ancona, sulla scia del provvedimento di Pio V del 1569.
A Rimini gli ordini di Clemente VIII restano disattesi se gli ebrei sono ufficialmente scacciati dalla città soltanto nel giugno 1615, quando una rivolta popolare (favorita dall'atteggiamento della Chiesa locale, in modo particolare dei padri Girolamini o Romiti di Scolca [66] e di alcuni nobili [67]) distrugge il loro ghetto posto «in Via S. Andrea o S. Onofrio, e in quella occasione si vide l'odio popolare contro quella gente» [68]. Nel 1624, per combattere «la pernizie che suol apportare a Christiani la frequenza, e la continua pratica» con gli ebrei, è pubblicato da Roma un bando che proibisce loro il domicilio nello Stato ecclesiastico, ma non il soggiorno in qualsiasi luogo o città «per occasioni di mercantie» [69] secondo la regola introdotta dal ricordato Clemente VIII (il fanese Ippolito Aldobrandini, 1592-1605) per periodi massimi di tre o quattro giorni. Il 15 maggio 1656 a Rimini un «Gentilhuomo Hebreo di questa Città» (forse un componente della famiglia Gentilomo, attestata a Pesaro), si fa mallevadore di «un tal Hebreo Banchiere, di cui si dirà a suo tempo», al quale è concesso di aprire un banco con la facoltà di tenere presso di sé la famiglia [70]. Il 16 giugno 1666 il Consiglio generale boccia (pro 14, contra 31) la ricordata proposta di chiedere al papa di ricostituire il ghetto ad «utile e beneficio» della città [71]. La richiesta va inquadrata nella situazione storica dello Stato della Chiesa ed in quella geografica particolare di Rimini. La città è sulla linea commerciale che dalle coste marchigiane porta a quelle ferraresi, entrambe controllate da mercanti ebraici. I dominii estensi [72] nel 1598 sono passati sotto il governo di Roma, come accadde a Pesaro nel 1631, dopo che è cessato il potere roveresco [73] per la morte di Francesco Maria II.
Nel 1693 gli ebrei cambiano politica. Non lasciano decidere al Consiglio generale come nel 1666, ma chiedono ad esso di essere autorizzati a rivolgersi direttamente al pontefice per poter ottenere di rientrare in città. Essi fanno presente al Consiglio di avere a Roma un «buon mezzo» per comunicare con il papa. Il 17 febbraio 1693 il Consiglio [74] discute il memoriale di quei commercianti ebrei «soliti a venire a servire con le loro mercanzie» a Rimini, e concede loro l'autorizzazione ad inoltrare al pontefice la supplica desiderata. Come sia andata a finire la faccenda a Roma, la Storia non lo dice. Invece i documenti riminesi contengono tra le pieghe altri interessanti elementi. Anzitutto nella votazione del 17 febbraio 1693 (pro 41, contra 2), si rovescia l'atteggiamento dei consiglieri a riguardo della presenza ebraica, rispetto a quella del 16 giugno 1666 per ricostituire il ghetto (pro 14, contra 31). Nel verbale del 17 febbraio 1693 poi si legge che «d'alcun tempo in qua» agli ebrei era stata proibita la dimora in Rimini con «danno comune» sia del Monte della Pietà sia della dogana e di «altro per la loro assenza». Gli israeliti erano dunque tornati ad essere presenti a Rimini dopo il 1615. Nel loro memoriale del 1693 si dichiara che «l'avergli levato il libero commercio» aveva provocato «danni notabili» alla vita cittadina.



3. Le fazioni annientano Rimini

Agli ebrei si addossavano responsabilità politiche che invece hanno altre cause negli eventi riminesi successivi alla scomparsa di Sigismondo Pandolfo Malatesti (9 ottobre 1468). Il breve governo di Isotta, Roberto e Sallustio è diviso sui rapporti con Milano per cui parteggia Roberto, e con Venezia, sostenuta da Isotta e Sallustio. Nell'agosto 1469 le truppe pontificie bombardano con 1.122 colpi la città e distruggono quasi completamente il Borgo Nuovo di San Giuliano. Sallustio l'8 agosto 1470 è ucciso dietro la casa della famiglia Marcheselli a cui apparteneva la giovane della quale egli s'era invaghito [75]. Ed un cui componente, Giovanni Marcheselli, è accusato del delitto. Linciato dal popolo e ridotto in fin di vita, Giovanni Marcheselli [76] è lasciato morire vicino all'anfiteatro. Le autorità fanno bruciare il suo cadavere quattro giorni dopo. I Marcheselli subiscono la condanna dell'esilio. La situazione riminese peggiora nel 1482 alla scomparsa di Roberto «il Magnifico» con la successione del figlio Pandolfo IV detto Pandolfaccio. Dieci anni dopo, il 6 marzo 1492, Raimondo Malatesti, discendente della collaterale «branca Almerici», è ucciso dai figli di suo fratello Galeotto Lodovico, tutore di Pandolfaccio (nato nel 1475). L'uccisione di Raimondo è considerata da Clementini all'origine di tutti i mali che affliggono successivamente Rimini, ovvero «il precipizio de' cittadini e l'esterminio de signori» Malatesti e della loro casa [77]. Il 31 luglio 1492 Pandolfo e Gaspare sono utilizzati dal padre Galeotto Lodovico per una congiura contro Pandolfo IV e la sua famiglia. A mandarla all'aria evitando una strage, ci pensa Violante Aldobrandini, seconda moglie dello stesso Galeotto Lodovico e sorella di Elisabetta, madre di Pandolfo IV. Galeotto Lodovico ed il figlio Pandolfo sono uccisi. Gaspare, arrestato e processato sommariamente, è decapitato [78]. Per circa un secolo, questi omicidi politici continuano «a far colare sangue» [79]. Nello stesso 1492 le comunità ebraiche di Sicilia [80] e Sardegna sono espulse dalla dominazione spagnola che, a partire dal 1505, le caccerà pure dal Regno di Napoli (Napoli, Trani, Nola, Bari). Esse si rifugeranno a Roma, nel Levante, in Turchia ed a Corfù.
Nel marzo 1497 «a Rimano morivano di fame», ricorda il veneziano Marin Sanudo che cita gli aiuti inviati in città dal suo governo, e la visita fatta in laguna da Pandolfo I e sua madre Elisabetta Aldobrandini, sorella del «conte Zoan» da Ravenna, condottiero della Serenissima [81]. Nel 1508 Rimini assiste ad una congiura «in favore degli ecclesiastici» [82], alla vigilia della sconfitta di Venezia (14 maggio 1509) da parte della lega di Cambrai, ed alla cessione della città dalla Serenissima a papa Giulio II (26 maggio) che le dà un nuovo assetto politico con la «costituzione Sipontina» [83]. In essa si prevede che le tasse degli ebrei restino nella casse municipali [84]. Agli scontri tra le fazioni cittadine si cerca di reagire durante il periodo di «disordine» del luglio 1512 con l'istituzione dei «signori Venti di Giustizia», ai quali è attribuita «facoltà assoluta di punire, e condannare». Ma neppure essi possono evitare sul finire dello stesso 1512 l'uccisione di Vincenzo Diotallevi, dopo la quale i consoli riminesi il 14 febbraio 1513 decidono (come abbiamo visto) di «condurre nuovi fanti per la custodia della città», ed il 2 maggio chiedono a Roma un governatore «virile» ossia di «petto forte», come chiosa con elegante pudicizia Carlo Tonini [85].
Le lotte intestine di Rimini favoriscono l'arroganza del potere centrale di Roma. Una vicenda esemplare, ma non troppo nota, può riassumere simbolicamente la crisi di Rimini dalla morte di Sigismondo a tutto il secolo XVIII. È quella della biblioteca malatestiana di San Francesco. Nata da un progetto del 1430, essa anticipa quella di Cesena, ed è la prima ad essere pubblica [86], precedendo l'Ambrosiana di Milano (1609), l'Angelica di Roma (1614) e la stessa Gambalunghiana di Rimini (1619). Essa è lentamente depredata prima da Giulio II nel 1511 e poi a metà Seicento dal vescovo Angelo Cesi. La dispersione del patrimonio che essa conteneva illustra bene il senso di decadenza di una città resa incapace, dalla politica romana e dalle rivalità nobiliari ad essa funzionali, di guardare alle proprie glorie passate per costruire un presente che ne fosse degno.



4. La ricomparsa degli ebrei nel XVIII secolo[87]

La prima notizia del secolo XVIII relativa alla presenza ebraica a Rimini, risale al 1775 e riguarda il battesimo di Isacco Foligno, di probabile origine pesarese [88]. Nel 1796 alla fine di giugno, la contribuzione per i francesi è imposta pure agli ebrei che sono arrestati «onde sottrarli da quegli insulti che una certa malafede del Popolo, avrebbe potuto accagionargli» [89]. Quelli «dimoranti con negozio da lungo tempo in Rimini» [90], temendo, nel «passaggio delle Truppe Francesi», di poter esser «molestati per raggion d'avere per Comando Pontefficio il solito segno nel Capello», ottengono di toglierlo dopo il versamento alla comunità riminese di un «dono gratuito» di cinquecento scudi. In realtà il «dono» è fatto, come scrivono i consoli di Rimini, «in luogo di darci conto del loro peculio, e del valore de rispettivi negozj, come da noi esigevasi». La Municipalità, soddisfatta della generosa offerta, versata oltretutto in moneta e non in oggetti preziosi, tralascia di sottolineare che essa andava contro le leggi. Nel 1799, il 30 maggio, la rivolta dei marinai [91], a cui s'accodano quelli che il mercante-cronista Nicola Giangi [92] chiama «li birbanti di Città» [93], si conclude con il saccheggio anche di due botteghe gestite da ebrei. Il notaio-cronista Zanotti descrive l'episodio come opera degli «insorgenti» antifrancesi che egli (da ferreo legittimista) riesce però a distinguere dai «rivoltosi» i quali, spinti dal «maligno furore della Plebaglia», agiscono contro la cosa pubblica.
In un documento romano del 1793 si parla delle pelli d'agnello commerciate da Abramo Levi [94] ed imbarcate proprio a Rimini verso il nord Europa. Abramo Levi aveva per le mani la maggior parte di quel prodotto: «la sua concorrenza suscitava le proteste dell'Università dei pellicciai, ultimi deboli echi di motivi antiebraici delle corporazioni di mestiere» [95]. Una «fiera delle pelli» si teneva fin dal 1500 a Rimini tra borgo San Giuliano e le Celle [96], per la ricorrenza di sant'Antonio dal 12 al 20 giugno. Era seguìta da quella di san Giuliano nata nel 1351 nell'omonimo borgo (dal 21 giugno, vigilia della festa del santo, sino al 22 luglio). Il calendario resta stabile fino all'inizio del 1600, quando soprattutto a causa delle carestie, le due fiere sono spostate fra settembre ed ottobre [97], inglobando pure quella detta di san Gaudenzio [98] nata in ottobre nel 1509 [99]. La concentrazione delle tre fiere in un unico appuntamento (successivamente tra 8 settembre ed 11 novembre [100]), è l'effetto del declino commerciale ed economico della città, a cui non si sa reagire. Nel 1627 esse come unica «fiera generale» sono anticipate dal 15 agosto al 15 ottobre, e nel 1628 ritornano dall'8 settembre all'11 novembre [101]. Nel 1630 è sospesa la «fiera delle pelli» per la pestilenza [102], preceduta da due anni di carestia. Nel 1656 nasce invece la ricordata fiera di sant'Antonio sul porto, dal 6 all'11 luglio (riscoperta soltanto di recente [103]). Nello stesso anno, come abbiamo visto, a «un tal Hebreo Banchiere» si concede di aprire un banco portando con sé la famiglia a Rimini. Di lui si fa mallevadore quel «Gentilhuomo Hebreo di questa Città» che, per quanto sconosciuto nella sua precisa identità, resta come simbolo di una verità evidente ma taciuta. Quella appunto sottolineata da Maria Grazia Muzzarelli, e che abbiamo ricordato all'inizio: gli ebrei sono stati considerati «da sfruttare sempre, tollerare a tratti e vessare ogni volta che» ce ne fosse politicamente bisogno.


Fiera di Rimini 1671.
Quadro statistico generale


Tipologia
merci

Italiani
ingressi


Stranieri
ingressi


«Hebrei»
ingressi

Merci
dichiarate

Merci vendute
%
Ingressi, valore
non dich.

Totale ingressi
Abbigl.
49
1
11
15.264
6.683
42,72
1
62
Mercerie
14


1.841
757
41,18
0
41
Strum. lavoro
59


3.363
2.268
67,44
2
61
Alimentari
5


55
55
100,00
26
31
TOT. ingressi
127
1
11



29
168
TOT. merci



20.901
9.763
46,71



Nel calcolo delle merci si è tenuto conto soltanto di quelle dichiarate (139 ingressi su 168).
Statistiche riguardanti i settori merceologici. Tutti i dati si riferiscono a 139 presenze su 168, cioè a quelle per cui è stato dichiarato il valore delle merci introdotte in fiera. Le percentuali sono arrotondate per eccesso.
Il settore tessile-abbigliamento introduce in fiera il 75% di tutti i prodotti e ne vende il 69% (ovvero il 43% dei propri). Seguono gli strumenti di lavoro (16% di entrate, 23 di vendite), e le mercerie (9% di entrate, 8 di uscite). Gli alimentari costituiscono lo 0,26% di entrate e lo 0,56% di vendite.
Se il settore tessile-abbigliamento vende il 43% delle merci dichiarate in entrata, gli ebrei (undici persone di otto ditte, tutti nel settore tessile-abbigliamento) vendono soltanto il 17% circa.
La percentuale media, su tutti i settori, delle merci vendute rispetto a quelle offerte, è del 47% circa. I valori sono espressi in scudi.

DATI RIGUARDANTI GLI EBREI (VALORE IN SCUDI)


Città di provenienza
Valore del venduto
Valore introdotto
% del venduto
Ancona
110
   144
76,38
Pesaro
450
1.500
30,00
Urbino
435
4.270
10,18
Totale
995
5.914
16,82



Note

Nota 1. Abbreviazioni usate: ASBo = Archivio di Stato di Bologna; ASCRn = Archivio storico del Comune di Rimini presso Archivio di Stato di Rimini; BGR = Biblioteca comunale Alessandro Gambalunga di Rimini; MMR = Miscellanea Manoscritta Riminese, Fondo Gambetti, BGR.
Nota 2. Cfr. M. G. MUZZARELLI, Gli Ebrei a Cesena nel XV secolo. Dalle ricerche di Antonio Domeniconi, «Studi Romagnoli» XXX (1979), Bologna, Fotocromo Emiliana, 1983, pp. 197-207, p. 207.
Nota 3. Cfr. la premessa ai Capitoli della Fiera da farsi sul Porto di Rimini (22.2.1671), AP 623, 1600-1700, C, foglio 12, ora in Carteggio generale, busta 5 «Capitoli vari» (ex AS4), ASCRn, c. 1v.
Nota 4. Le prime notizie risalgono al 1015 e riguardano il teloneo «judeorum» ovvero l'appalto dei dazi d'entrata nel porto, del quale si parla pure in un testo del 1230. Attività di prestito sono documentate dal 1357. Cfr. MUZZARELLI, Rimini e gli ebrei fra Trecento e Cinquecento, «Romagna arte e storia», 16 (1986), pp. 31-48, 32.
Nota 5. Cfr. A. RANUZZI, Informazioni sopra il Governo di Rimini [...], Roma, 1660. Il testo è in G. GARAMPI, Apografi. Miscellanea Ariminensis, I, cc. 317-34, Sc-Ms. 227 [1782], BGR; ed è stato trascritto e riprodotto in Rimini dai secoli XV al XIX nei documenti del tempo, II, Rimini, Bacchini, 1979, a cura di A. POTITO, pp. 301-320, 321-357. Qui (pp. 317-318) si cita una «grave causa» della comunità contro il clero cittadino «sopra il pagamento dei pesi» fiscali, «pretendendo gli ecclesiastici» di esserne gravati «più di quello che loro» toccherebbe secondo i beni posseduti, con la precisazione: «ma ora si tratta amichevolmente l'aggiustamento per via di concordia». Della «transazione stipulata» nel 1664 fra i cleri riminesi e la Municipalità si parla in un inedito ed importante testo, Dimostrazione degli utili…, «Rimini. Clero», MMR, spiegando che da essa gli stessi cleri ricavarono «riguardevoli vantaggi». La «transazione» fu approvata il 2 febbraio 1664 dal Consiglio cittadino (56 voti pro, uno contra) allo scopo di godere «la quiete sì bramata» con gli ecclesiastici. Cfr. AP 869, Atti Consigliari 1655-1676, ASCRn, c. 114r. Nella stessa seduta si donano tremila scudi alla Santa Sede per la guerra in corso e le conseguenti «urgenti necessità» (ivi, c. 113v).
Nota 6. Giberto III Borromeo (1615-1672), nato da Carlo III e Isabella (figlia di Ercole e Margherita d'Adda, e vedova di Carlo Barbiano di Belgioioso), studia dai gesuiti a Brera ed a Pavia, dove consegue nel 1636 la laurea in legge. Nel 1638 si trasferisce a Roma. È nominato nel 1644 vice-legato di Ferrara e governatore di Perugia da Urbano VIII (1623-1644). Sotto Innocenzo X (1644-55) entra a far parte della legazione di Avignone (1645), ed è creato cardinale (1652) e protettore dei padri minori conventuali (1654). Da Alessandro VII (1655-67) è inviato in Romagna nel 1657. Cfr. <www.nuovorinascimento.org/rosp-2000/persone/borromeo/borromeo.htm>.
Nota 7. Lo scritto di Ranuzzi è paradigmaticamente proposto in P. MELDINI, La formazione del fondo manoscritto della Gambalunga, «I codici miniati della Gambalunghiana di Rimini», Arese, Motta, 1988, p. 10. Il 19 giugno 1660 il Consiglio generale di Rimini concede la cittadinanza onorario a Ranuzzi per il suo «ottimo governo» (pro 46, contra 6, cfr. AP 869, cit., c. 64v/r).
Nota 8. Nel 1663 l'Annona riminese censisce 15.392 bocche: 3.183 (20,7%) sono in città ed 889 (5,8%) degli ecclesiastici. Le restanti 11.320 (73,5%) si dividono fra contado e bargellato. Le percentuali di grano e farina disponibili per ogni bocca sono in generale rispettivamente del 2 e dello 0,14. Quelle per il contado, dell'1,3 e dello 0,082. Quelle della città, del 3,9 e dello 0,24. Agli ecclesiastici vanno il 3,6 e lo 0,23. Il contado con il 41% delle bocche, dispone del 26% di grano e del 23% di farina. Le bocche di città (20,7%) dispongono del 40% di grano e del 34,5% di farina. Gli ecclesiastici registrano il 5,8% di bocche, il 10,3 di grano e il 9,3 di farina. Dati elaborati su Descriptio Animarum, etc, «Rimini, Annona frumentaria», MMR.
Nota 9. Cfr. doc. 31 in «Rimini, Comune di», MMR. Si tratta della «prima guerra del ducato di Castro» che ci coinvolge nel 1643: il 26 maggio Toscana, Venezia e Modena firmano un trattato per invadere dal Veneto e dalla Toscana lo Stato ecclesiastico proprio in Romagna.
Nota 10. Sulla storia della chiesa della Colonnella, cfr. A. MONTANARI, I Padri "della Becca" alla chiesa della Colonnella di Rimini. Documenti (1680-1726) dell'Archivio storico comunale di Rimini conservati nell'Archivio di Stato di Rimini, copia pro manuscripto, 2007, BGR, segn. M.0700.01085, passim.
Nota 11. Cfr. sub 10.1.1669 e 27.1.1669, in AP 452, Registro di lettere, 1669, ASCRn.
Nota 12. Cfr. ivi, sub 20.2.1669.
Nota 13. Cfr. ivi, sub 12.5.1669. In quel periodo (1668-69) mons. Gallio era nunzio papale a Napoli, dopo esser stato (dal 1666) vice reggente della diocesi di Roma e consultore del Sant'Uffizio.
Nota 14. Cfr. ivi, sub 26.5.1669.
Nota 15. Cfr. ivi, sub 29.1.1671.
Nota 16. Cfr. Informationi sopra le giurisdizioni della Fiera, e del Capitano del Porto della Città di Rimino, AP 626, ASCRn, c. 1v. (Il doc. è post 1625 ed ante 1668.)
Nota 17. Cfr. MONTANARI, L'«opulenza superflua degli Ecclesiastici». Nobili, borghesi e clero in lotta per il «sopravanzo» della contribuzione del 1796. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, per una storia sociale cittadina del XVIII secolo, «Studi Romagnoli» LI (2000), Cesena, Stilgraf, 2003, pp. 941-986, p. 953.
Nota 18. Cfr. RANUZZi, Informazioni sopra il Governo di Rimini, cit., pp. 302-303.
Nota 19. Cfr. Rimini dai secoli XV al XIX, cit., p. 302:«Vi sono molte famiglie antiche e nobili che fanno risplendere la Città, trattandosi i Gentiluomini con decoro et honorevolezza, con vestire lindamente, far vistose livree et usar nobili carrozze: nel che tale è la premura et il concetto fra di loro, che si privano talvolta de' propri stabili, né si dolgono di avere le borse essauste di denari per soddisfare a così fatte apparenze».
Nota 20. Cfr. MONTANARI, L'«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., p. 952.
Nota 21. Al proposito si veda quanto scriviamo sul ruolo di Nicola Martinelli ne L'«opulenza superflua degli Ecclesiastici», cit., pp. 956-964: si può verificare in momenti anteriori (1763) la sottomissione del potere laico a quello religioso (ivi, p. 959). Sugli eventi riminesi del 1797 e degli anni successivi, cfr. MONTANARI, Fame e rivolte nel 1797. Documenti inediti della Municipalità di Rimini, «Studi Romagnoli» XLIX (1998), Cesena, Stilgraf, 2000, pp. 671-731, e ID., Il furore dei marinai. Crisi istituzionale della Municipalità di Rimini per la rivolta dei "pescatori" (30.5.1799-13.1.1800), «Studi Romagnoli» LIII (2002), Cesena, Stilgraf, 2005, pp. 447-511.
Nota 22. Cfr. lettera dei consoli di Rimini all'agente romano Ceccarelli, AP 453, Lettere degli Eletti, 1670, ASCRn, 28.12.1670.
Nota 23. Cfr. le missive allo stesso Ceccarelli, AP 453, cit., 19.3.1671 (ove si legge che la città aveva bisogno di uscire da uno stato di «depressione» tentando «i proprij, e più risoluti sollievi») e 9.4.1671.
Nota 24. Su questa proposta, cfr. infra.
Nota 25. Circa le vicende delle varie fiere riminesi, cfr. nel testo infra.
Nota 26. Sulle difficoltà incontrate a Roma per riavere la fiera, cfr. AP 453, cit., lettere del 13.7, 4 e 18.12.1670.
Nota 27. Nel 1678 «per non essere seguiti li raccolti» non c'è disponibilità di moneta per gli affari della fiera: cfr. AP 871, Atti del Consiglio 1676-1684, ASCRn, sub 25.4.1678. Circa la crisi economica, cfr. pure lettera a Papei, 24.2.1669, AP 452, cit.; ed il divieto legatizio per l'esportazione del pesce (26.3.1669) la quale privava il clero di cibo in quaresima, AP 896, Registro de' Bandi e Patenti (1621-1694), ASCRn, c. 198r.
Nota 28. Cfr. AP 871, cit,ivi.
Nota 29. La decisione è presa il 17.6.1690: cfr. AP 873, Atti del Consiglio Generale, 1684-1702, ASCRn, c. 105v.; ed il doc. 39, «Rimini, Comune di», MMR.
Nota 30. Le loro undici presenze sono il 17,74% di quelle dell'intero settore, pari a 62 presenze su 168 ingressi complessivi in fiera. Il settore tessile-abbigliamento vende il 43% circa delle proprie merci, contro una media generale del 47% circa. La media di vendita degli ebrei è del 16,82%. I prodotti più richiesti, escludendo gli alimentari su cui ci sono dati parziali, sono gli strumenti di lavoro (67,44%). Nella merceria la vendita media è del 41%.
Nota 31. Tra le 47 provenienze dei mercanti indicate (in 120 delle 160 registrazioni, cfr. Simone Leonardi, Nota di tutte le merci vendute sulla fiera del porto, 1671, AP 836 [ora busta 1974], ASCRn), Cesena ha 12 mercanti, San Mauro 8, Milano 7, Bologna, Pesaro, Savignano ed Urbino 6, Santarcangelo 5, Gatteo e Pergola 4, Ancona, Forlì, Monte Colombo, San Marino, Sogliano e Venezia 3, Camerino, Fabriano, Iesi, Monte Grimano, Pizziegitone, Rimini, Verona 2, Caioletto (S. Agata Feltria), Cantiano, Chioggia, Comacchio, Faenza, Forlimpopoli, Francia, Friuli, Gambettola, Macerata, Macerata di Monte Feltro, Matelica, Meldola, Monte Scudolo, Montiano, Padova, Piacenza, Reggio, Sant'Angelo in Vado, Santa Sofia, Spoleto, Stia, Talamello e Valle Lagarina 1 mercante.
Nota 32. Gli anconetani vendono 110 scudi su 144 dichiarati; i pesaresi 450 su 1.500, gli urbinati 435 su 4.270.
Nota 33. Cfr. AP 873, cit., «Memoriale di alcuni Ebrei», 14.2.1693, c. 144r.
Nota 34. Gli ebrei sono presenti a Ferrara dal 1275. Tra fine del XV sec. ed inizio del XVI, gestiscono quattro banchi. Nel 1598 molti di loro abbandonano la città e seguono gli esuli estensi a Modena. Nel 1599 ottengono nuovi «capitoli» per la loro attività di prestito che si svolge dove nel 1627 è poi realizzato il ghetto. Il 6 dicembre 1683 tale attività è proibita dal legato Nicolò Acciaioli. Sino ad allora c'era stata «impossibilità da parte dei legati e della città di rinunciare ai servizi offerti dai banchieri ebrei». Cfr. M. CORBO, Alfin si fece: il monte di pietà di Ferrara, «Sacri recinti del credito. Sedi e storie dei Monti di pietà in Emilia-Romagna», a cura di M. CARBONI, M. G. MUZZARELLI e V. ZAMAGNI, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 151-167, passim.
Nota 35. Cfr. G. TOCCI, Le Legazioni di Romagna e di Ferrara dal XVI al XVIII secolo, «Storia della Emilia Romagna», 2, Bologna, University Press, 1977, p. 95.
Nota 36. Sul fenomeno del contrabbando di grano a Rimini, cfr. un doc. del 1696, «Astalli, card., 1696-1716», MMR.
Nota 37. Alla Constitutio nel 1749 tenne dietro un Moto proprio.
Nota 38. Cfr. Rimini dai secoli XV al XIX, cit., I, pp. 84-85. I docc. sulla vicenda sono qui riprodotti parzialmente. Cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, Legazione, governo e magistrato nella Informazione di Angelo Ranuzzi governatore di Rimini (1659-1660), «La legazione di Romagna e i suoi archivi. Secoli XVI-XVIII», a cura di A. TURCHINI, Cesena, Il ponte vecchio, 2006, pp. 419-427: a p. 426, nota 30, troviamo indicate tutte le Carte Ranuzzi dell'ASBo (Archivio Ranuzzi, Carte politiche, tomi III, IV) relative al nostro argomento, cfr. infra.
Nota 39. Cfr. le citt. Carte Ranuzzi, III, c. 335, lettera di Ranuzzi al card. Antonio Barberini, 11.3.1660. La risposta di Barberini (IV, c. 975) è del 15.3.1660.
Nota 40. 40 Cfr. ivi, III, lettera di Ranuzzi al card. Barberini, 18.3.1660, c. 340. A proposito del cognome di «tal Gioseffo Montefiore», va detto che si tratta di un toponimo relativo ad un paese del Riminese, in cui la presenza ebraica risale al sec. XIV: cfr. MUZZARELLI, Rimini e gli ebrei fra Trecento e Cinquecento, cit., pp. 35-36. Cfr. infra, nota 45.
Nota 41. Cfr. le citt. Carte Ranuzzi, IV, c. 801, lettera del card. Antonio Barberini, 19.2.1660.
Nota 42. Cfr. ivi, c. 975: è la cit. risposta di Barberini del 15.3.1660.
Nota 43. Cfr. lettera dei consoli di Rimini all'agente romano Ceccarelli, AP 453, cit., 28.12.1670.
Nota 44. Cfr. le missive allo stesso agente Ceccarelli, AP 453, cit., 19.3 e 9.4.1671.
Nota 45. Nel 1471 il Monte era già nato a Montefiore Conca, nel 1487 a Cesena ed il 15 gennaio 1492 a Ravenna da dove contestualmente gli ebrei sono cacciati, dopo il 2 aprile 1492 quando è imposto il segno distintivo, e prima dell'ottobre 1493. Cfr. Sacri recinti del credito, cit., pp. 14, 28, 30, 224. L'apertura dei Monti in tutto il territorio emiliano-romagnolo è la premessa per una politica forte contro gli ebrei.
Nota 46. Dal 1511 Emanuelino ed Angelo da Foligno per il loro banco pagano alla Municipalità una tassa annua di 400 lire.
Nota 47. Cfr. AP 853, Atti del Consiglio 1510-1517, c. 243r, ASCRn. Nel 1442 Eugenio IV ha pubblicato una «bolla» per interrompere ogni rapporto economico fra ebrei e cristiani, ordinando agli «infedeli» di vivere isolati e segregati, di portare il solito segno distintivo, di restituire le usure percepite e di non esigerne più per il futuro. Cfr. R. SEGRE, Gli ebrei a Pesaro sotto la signoria dei Della Rovere, «Pesaro nell'età dei Della Rovere», Venezia, Marsilio, 1998, pp. 133-165, 157-158. Nel 1462 per la fabbrica del Tempio Sigismondo ottiene un prestito da Abramo figlio di Manuello di Fano (cfr. A. VASINA, La società riminese nel Quattrocento, «Studi malatestiani», Roma, Istituto storico italiano per il Medio Evo, 1978, p. 62). Sui rapporti fra Malatesti e finanza ebraica, cfr. A. FALCIONI, La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, 1. L'economia, Rimini, Ghigi, 1998, pp. 158-161: EAD, Appendici, «Galeotto Roberto Malatesti» di A. G. LUCIANI, Rimini, Ghigi, 1999, pp. 127-129. Qui il doc. 6 (28.9.1430, p. 129) ricorda che gli ebrei a Fano «non vogliono prestare» non fidandosi dei Malatesti: viene da chiedersi se tra questo atto ed il «breve» del 1432 esista un rapporto di causa ed effetto.
Nota 48. Nel 1489 a carico loro era stata decisa un'imposta destinata a finanziare la difesa costiera contro i Turchi.
Nota 49. Cfr. C. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, Rimini, Simbeni, 1627, p. 663. Carlo Tonini, nella continuazione dell'opera del padre Luigi, invece scrive di un «tumulto per cagione degli Ebrei», del quale si ignorano i motivi, aggiungendo tuttavia che i militi erano stati chiamati in città a «difesa» degli israeliti visti «quali nemici della Religione e promotori di scandali nel popolo». Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 1, Rimini, Danesi già Albertini, 1887, pp. 133-134; vol. VI, 2, Continuazione e Appendice di documenti, 1888, p. 750.
Nota 50. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., p. 663. Per le donne il successivo 28 aprile è introdotta la regola di recare una benda gialla in fronte. Nel contempo si fa loro divieto di porre sul capo i mantelli. Cfr. AP 853, cit., c. 243r.
Nota 51. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit. p. 670; C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 156 (senza il particolare relativo a frate Orso).
Nota 52. Si veda la ricordata rotella di stoffa sulla parte sinistra del petto.
Nota 53. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., p. 670.
Nota 54. 54 Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 133; la fonte è in AP 853, cit., 22.3.1515, c. 241v.
Nota 55. La prima sinagoga è attestata dal 1486. Il cimitero ebraico è realizzato fra 1506 e 1507. Nel 1520 esso è dato in affitto ad un cristiano che s'impegna a creare le fosse «pro sepulturis Hebreorum pauperum et miserabilium decedentium in Civitate»: non tutti nella comunità ebraica riminese erano di ceto economicamente elevato o medio. Per altre notizie, cfr. MONTANARI, Ebrei, le sinagoghe e il cimitero, «il Ponte», Rimini, XXX (44), 11.12.2005, p. 24.
Nota 56. Cfr. AP 859, Libro de' Consigli, 1546-155, ASCRn, c. 97r.
Nota 57. Cfr. i Capitoli del Sagro Monte della Pietà sinora noti (1582, 1756, 1768 e 1772, AP 605 [B 1744], Sagro Monte di Pietà. Capitoli, ASCRn), e quelliinediti del 1641 («il prestar denari sopra pegni […] mai per gli Hebrei», «Rimini. S. Monte di Pietà», MMR, c. 2v). Era pure prevista una pena pecuniaria per il cristiano o per il «continuo habitante» di Rimini che s'impegnasse «per servigio di qualche hebreo» (art. 24, 1582, e poi nei successivi «capitoli» citt.). Cfr. L. MASOTTI, Sotto la loggia del palazzo, passate le prigioni. Quattro secoli di prestito su pegno nella città di Rimini, «Sacri recinti del credito», cit., pp. 253-262; sui divieti per gli ebrei, p. 257; sui «capitoli», p. 261.
Nota 58. Tale contrada non va confusa con l'omonimo borgo di Sant'Andrea, posto fuori delle mura verso Sud e pure conosciuto da fine Ottocento come «borgo Mazzini» (cfr. MONTANARI, Rimini.Dall'Italia all'Europa, 1859-2004, «Storia di Rimini. Dall'epoca romana a capitale del turismo europeo», Rimini, Ghigi, 2004, p. 271).
Nota 59. Il dato si ricava da atto notarile del 1556 (richiesta delle abitazioni necessarie ed adatte alle singole esigenze, per non risultare inadempienti alla «bolla» papale). Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, vol. VI, 2, cit., p. 758.
Nota 60. Cfr. AP 859, cit.,c. 122v.
Nota 61. Ivi, cc. 128v-129r.
Nota 62. La «bolla» Hebraeorum gens sola (1569) di Pio V è anticipata nel 1566 dalla Romanus Pontifex di Pio V, dopo che nel 1562 Pio IV ha attenuato le norme di Paolo IV del 1555.
Nota 63. Cfr. AP 862, Atti del Consiglio 1581-1591, ASCRn, c. 165.
Nota 64. Ivi, c. 167.
Nota 65. Ivi, cc. 309v-310r.
Nota 66. Costoro convincono il cardinal legato Domenico Rivarola ad ordinare l'abbattimento dei due portoni del ghetto (11 giugno 1615). I Girolamini di Scolca appartengono al ramo «pisano» fondato nel 1380 da Pietro Gambacorta (1355-1435). Il ramo «fiesolano» è quello degli Eremiti voluto nel 1360 da Carlo dei conti di Montegranelli, sacerdote e terziario francescano. I «pisani» sono presenti a Rimini dal 1430, quando ricevono l'oratorio di san Girolamo fondato sul colle del Paradiso da fra Angelo da Corsica del Terzo Ordine Regolare di San Francesco, su terreno concesso da Carlo Malatesti nel 1393. I «fiesolani» sono arrivati a Rimini successivamente (1517), quando come si è visto è concessa ai padri di Santa Maria degli Angeli di Venezia la nuova chiesa della Colonnella.
Nota 67. Tra questi nobili va ricordato un personaggio di spicco nella vita curiale romana ed in quella politica italiana, Giovanni Galeazzo Belmonti, vice gran priore dell'Ordine militare di Santo Stefano. Cfr. Villani, De vetusta Arimini urbe et eius episcopis, Sc-Ms.174, BGR, c. 290, cit. da C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 760.
Nota 68. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 410.
Nota 69. Cfr. AP 896, cit., bando del 9.4.1624.
Nota 70. Cfr. AP 869, cit., c. 10v.
Nota 71. Cfr. AP 869, cit., c. 153v. Sono consoli Mario Guidoni, Eusebio Cattanei, Giulio Postumi, Marc'Antonio Melzi, Goffredo Roggieri, Giorgio Diotallevi (che nel 1673 ucciderà il cugino Malatesta Bandi) e Sperandio Sperandii.
Nota 72. Nel 1639 papa Clemente VIII ordina a tutti gli ebrei del ducato di concentrarsi nei ghetti di Ferrara, Lugo e Cento, sorti rispettivamente nel 1627 (come si è già visto), nel 1634 e nel 1636.
Nota 73. Dopo il 1631 Roma «optò per una espulsione parziale» degli ebrei, conservando tre insediamenti ed istituendo altrettanti ghetti a Pesaro, Urbino e Senigallia. Cfr. V. BONAZZOLI, L'economia del ghetto, «Studi sulla comunità ebraica di Pesaro», a cura di R. P. UGUCCIONI, Pesaro, Fondazione Scavolini, 2003, pp.16-53, p. 17.
Nota 74. Sono consoli Domenico Tingoli (ultimo discendente maschile dell'illustre famiglia che vantava ottimi rapporti con Roma), Scipione Diotallevi, Pietro Cima, Federico Tonti, Pasio Antonio Belmonti, Niccolò Paci e Francesco Ugolini.
Nota 75. Cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, I rami collaterali della famiglia Malatesti, «I Malatesti», Rimini, Ghigi, 2002, pp. 211, 260, 236.
Nota 76. Giovanni Marcheselli aveva sposato Simona di Barignano, cugina di Sigismondo Pandolfo Malatesti. Simona era nipote ex fratre di Antonia moglie di Pandolfo IV Malatesti, la quale è pure la nonna di Roberto Malatesti.
Nota 77. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., p. 566.
Nota 78. Cfr. R. COPIOLI, Gli Agolanti e i Malatesti, e la Tomba Bianca di Riccione, in «Agolanti e il Castello di Riccione», Rimini, Guaraldi, 2003, p. 105.
Nota 79. Ivi, p. 108.
Nota 80. La grande persecuzione «raggiunge il culmine negli anni Venti del Cinquecento»: la maggior parte degli ebrei ha dovuto convertirsi, e «chi non è fuggito o non è stato bruciato ha perduto la propria identità culturale e ogni potere economico a causa della sistematica cancellazione della cultura ebraica e delle confische dei beni eseguite contro i neo-conversi». Cfr. M. S. MESSANA, Inquisitori, negromanti e streghe nella Sicilia moderna (1500-1782), Palermo, Sellerio, 2007, p. 85.
Nota 81. Cfr. G. L. MASETTI ZANNINI, I rami collaterali della famiglia Malatesti, cit., pp. 271-272, 304 nota 39.
Nota 82. Cfr. CLEMENTINI, Raccolto istorico, II, cit., pp. 620-621; C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 54. Clementini (ivi, p. 621) ricorda le scorrerie continue da parte di genti d'arme del papa «predando e uccidendo i contadini».
Nota 83. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., pp. 836-857.
Nota 84. Ivi, p. 842, e ID, Storia di Rimini 1500-1800 VI, 1, cit. p. 66. La tassa sugli ebrei era solitamente destinata alla Camera apostolica, in quanto essi erano direttamente soggetti alla Santa Sede per volere di papa Paolo II («breve» del 15 gennaio 1466).
Nota 85. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 125.
Nota 86. Questo indiscutibile primato non è mai stato riconosciuto alla biblioteca riminese, un cui inventario del 1560 conservato a Perugia è in G. MAZZATINTI, La biblioteca di San Francesco (Tempio malatestiano) di Rimini, «Scritti vari di Filologia», Roma, Forzani, 1901, pp. 345-352. Cfr. MONTANARI, Sigismondo, filosofo umanista, «La Signoria di Sigismondo Pandolfo Malatesti, II. 2, La politica e le imprese militari», Ghigi, Rimini 2006, pp. 319-339, pp. 321-322; ID., Biblioteca malatestiana di San Francesco a Rimini. Notizie e documenti, «il Rimino-Riministoria», aprile 2007, <http://www.webalice.it/antoniomontanari1/bib.malatestiana.rimini.html>.
Nota 87. Le notizie seguenti sono tratte da MONTANARI, Gli ebrei di Pesaro a Rimini a fine 1700, «il Ponte», XXXI (21), 11.6.2006, p. 16.
Nota 88. Cfr. BONAZZOLI, L'economia del ghetto, cit., p. 30. La notizia è nelle cronache di Michel Angelo Zanotti ed Ernesto Capobelli: cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 752 nota 1. (Capobelli è autore di pettegoli Commentarj, Sc-Ms. 306, BGR: quanto racconta è uno spaccato vivace della realtà riminese; le sue pagine vanno valutate con la massima attenzione, perché non espongono soltanto dati di fatto ma contengono spesso anche interpretazioni tendenziose. Nel 1769, ad esempio, accusa l'Annona di «arricchirsi col vero sangue de' poveri», e di voler far regnare «una vera carestia».)
Nota 89. Sono cinque ditte, intestate a Moisé di Bono Levi, Samuel ed Elcana (recte, Elcanà) Costantini, fratelli Foligno, Samuele Mondolfo, ed Abram e Samuel Levi. Cfr. MONTANARI, Fame e rivolte nel 1797, cit., note 42 e 44, p. 687; AP 502, Copialettere della Municipalità, dal 1° maggio 1796 al 28 febbraio 1797, ASCRn, 22.7.1796.
Nota 90. Cfr. documenti vari in AP 999, Carte concernenti le fazioni militari, ASCRn, senza data, ma successivi al 30 giugno 1796.
Nota 91. Cfr. MONTANARI, Il furore dei marinai, cit., pp. 447-466.
Nota 92. Su Nicola Giangi, cfr. ivi, p. 447 nota 1; e MONTANARI, Aurelio Bertòla politico, presunto rivoluzionario. Documenti inediti (1796-98), «Studi Romagnoli» XLVIII (1997), Cesena, Stilgraf, 2000, pp. 549-585, 564 nota 26.
Nota 93. Cfr. N. GIANGI, Cronaca (1782-1809), Sc-Ms. 340, BGR.
Nota 94. Cfr. R. SEGRE, Gli Ebrei a Ravenna nell'età veneziana, «Ravenna in età veneziana» a cura di D. BOLOGNESI, Ravenna, Longo, 1986, p. 172.
Nota 95. Ivi.
Nota 96. La fiera s'estendeva dal ponte di Tiberio o della Marecchia (dove erano allestite botteghe di legno) sino al torrione del monastero del Monte della Croce alle Celle, posto lungo la strada per Cesena (lato a monte) poco dopo il bivio con la via per Ravenna. È la zona del Borgo Nuovo di San Giuliano distrutto, come si è visto, nel 1469.
Nota 97. Cfr. R. ADIMARI, Sito riminese, Brescia, Bozzòli, 1616, II, p. 9.
Nota 98. Sino al 1538 la fiera si tiene fuori dalla porta di San Bartolo (cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 251). Tale porta sorgeva verso la attuale Flaminia uscendo dall'arco d'Augusto, il quale apparteneva al quartiere di Sant'Andrea ed anticamente aveva fatto «l'ufficio di porta, e perciò fu detto porta di San Genesio, e di San Bartolo»: cfr. L. TONINI, Rimini dopo il mille, Rimini, Ghigi, 1975, pp. 128-130. Dopo il 1538 la fiera è spostata alla piazza maggiore, ossia nell'antico foro romano, «propter ruinam» dello stesso borgo di San Gaudenzio, provocata dalle ultime guerre con i Malatesti (C. TONINI, ivi).
Nota 99. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 865.
Nota 100. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit., p. 455: talora qui date e nomi delle fiere sono riportati erroneamente, rispetto a quanto si trova in due documenti del cit. AP 626: il primo è Fiere, e Mercati (1768); il secondo, le già citt. Informationi sopra le giurisdizioni della Fiera.
Nota 101. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 1, cit, pp. 416, nota 1, e 455.
Nota 102. Cfr. C. TONINI, Storia di Rimini 1500-1800, VI, 2, cit., p. 459.
Nota 103. Cfr. M. MORONI, Il porto e la fiera di Rimini in età moderna, «Tra San Marino e Rimini: secoli XIII-XX», San Marino, Centro Sammarinese di Studi Storici, Università degli Studi, 2001, pp- 43-93, p. 75; A. SERPIERI, Il porto di Rimini dalle origini ad oggi tra storia e cronaca, Rimini, Luisè, 2004, p. 71.


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Antonio Montanari

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