Tutti
gli spettatori della serie tv avrebbero voluto credere di poter vedere
un bel film tratto dalla saga decennale delle avventure paranormali di
Mulder e Scully, soprattutto se firmato dallo stesso creatore di X
Files. Eppure il secondo film, estraneo al flusso narrativo seriale (il
primo era invece un ponte tra due stagioni), ormai conclusosi,
sconcerta. Sciatto nella tensione del racconto, solo marginalmente in
sintonia con le tematiche a cui ci avevano abituato i due agenti
dell’Fbi, il film si concentra soprattutto sulle vicende amorose
dei due colleghi, sul rapporto non facile per le divergenze
caratteriali, sulla dolorosa assenza del figlio, sull’ipotesi di
una convivenza finalmente lontana dall’oscurità di forze
incomprensibili, aliene o dai complotti governativi. Muder e Scully si
amano a distanza; rimasti in contatto, lei si dedica alla professione
medica, mentre lui permane ossessionato da un passato non ancora
sepolto. Richiamati ufficiosamente in servizio per uno strano caso di
omicidi seriali legati a percezioni extrasensoriali, devono affrontare
il passato ben più che il presente dell’indagine, turbati
da verità personali dissimulate o represse, da angosce
esistenziali, dall’affetto assopito dalla lontananza.
Girato in lande innevate dove il nero della notte si scontra con il
bianco della neve gelata, il film si aggira nel grigio dei sentimenti
dei protagonisti, tentando di dar loro vita e colore, provando a
suggerire una conclusione alle loro vicende in una parvenza di
normalità non aliena da incursioni psicanalitiche, dialoghi che,
rimandando alla serie, ne fanno riaffiorare catarticamente i traumi per
affrontarne una soluzione.
Muovendosi in un terreno minato da pedofilia, etica e morale religiosa,
Carter affronta temi scottanti, alternando l’ironia di Mulder al
tormento di Scully si concede beffarde similitudini tra Bush jr e il
paranoico direttore dell’Fbi Hoover, e porta a conclusione
l’indagine, come in una puntata dilatata e autoconclusiva della serie, richiamando
in servizio anche Skinner a dare man forte ai due prediletti.
Ma il centro di ogni interesse rimane il rapporto tra i due ex-agenti,
quel bacio sospirato per tutte le stagioni di un’intesa
discordante che si è trasformata in amore sincero. Il film, in
fondo, racconta di un matrimonio in crisi, sebbene mai celebrato, di
una coppia legata e lontana, tormentata ma ancora innamorata, portando
in primo piano il pudico melò carsico che innervava tutte la
serie, nascosto dal predominante ingrediente fantastico e
fantascientifico. E Carter regala ai suoi personaggi un meritato lieto
fine, nascosto tra le pieghe dei titoli di coda. Un discutibile
montaggio musicale di immagini naturali sposta la scena, a vicenda
terminata, dal gelo invernale al caldo tropicale, verso un placido mare
solcato da una barca in cui i due protagonisti si concedono
l’intimità e la parvenza di felicità che si erano
sempre colpevolmente negati. Guardando in alto, salutano la macchina da
presa (già vista un attimo prima riflessa sull’acqua) e si
congedano dalla narrazione e smettono le vesti dei loro personaggi,
ormai indirizzati verso un diverso destino. Denunciano la finzione e se
ne separano, assieme alle restrizioni seriali di una codifica
comportamentale reiterata e ormai lisa, si abbandonano al futuro e
all’infinito campo delle sue possibilità. I personaggi e i
loro attori si sono liberati e, con quel gesto, affrancano gli stessi
spettatori da qualsiasi ulteriore aspettativa. Non tutti i nodi
narrativi sono stati sciolti (il figlio, la sorella, il rapporto
stesso), ma la vacanza sembra ormai definitiva. Resta agli spettatori,
lontani, a guardare Fox e Dana da un elicottero spia o da un ufo o
attraverso una semplice cinepresa, scegliere se rimanere o andare
oltre, se continuare a credere o lasciare la barca libera di salpare
verso la sua vaga destinazione.
|