La natura sovrasta l'uomo e lo guarda con suprema
indifferenza mentre combatte con assurda violenza i suoi simili per briciole di
terra, che è sempre territorio di conquista e non terreno fertile di felicità.
Ancora una volta, come già ne La sottile linea rossa, Malick tesse una
sinfonia di voci che tentano di dare un senso al caos della guerra, cercano
un'impossibile comunicazione nell'alternarsi folle di vita e morte violenta. Il
pessimismo ontologico di Kubrick contagia Malick, si affaccia nelle geometriche
ricostruzioni degli interni europei, nel ricordo degli scimmioni di Odissea
nello spazio che nella sopraffazione trovano la radice dell’evoluzione,
nell’asserzione che la guerra è l’unica forma di comunicazione efficace tra i
popoli perché inconfutabile, nella formidabile violenza delle scene di
battaglia.
Nei pensieri e nelle azioni dei colonizzatori
britannici approdati sui territori indiani che diventeranno parte degli Stati
Uniti, ci sono riverberi di quelle motivazioni che ora spingono gli americani
ad imbracciare le armi su altri fronti. Ma l’aggressività dei coloni, le
barbarie dell'avidità avversa alla pacifica vitalità degli indiani d'America
non è che l’avvio di una esposizione ben più ampia che, partendo dalla politica
dell'invasione forzata per necessità esclusive dei coloni, affamati di oro,
terra e guadagno, si dipana e svolge nel melodramma della principessa indiana
innamorata di uno straniero.
Approdata
per amore nella società a lei ignota, la ragazza finisce colonizzata e
imborghesita, trattata come animale da voliera esotico volentieri esibito
ingabbiato in estranee consuetudini, pur mantenendo la silenziosa fedeltà alle
proprie verità.
Nella delusione del sogno di un mondo nuovo basato
su nuovi e degni principi, presto annullato dall'avidità dell'America delle
origini, Malick insinua l’utopia di una comunicazione tra le persone che è
fusione di anime e sensazioni, in una compenetrazione empatica con la natura,
in cui sentimenti e emozioni non dovrebbero tradursi verbalmente. E
nell’esprimere questo, Malick cerca un’idea di cinema, in cui parole (periodi
di pensiero interiore, ben più che dialoghi narrativamente intesi) si
accompagnino alle immagini in un rapporto di indiretto rafforzamento, per
giungere ad un’emozione più alta e complessa.
Così
facendo, il racconto procede a sprazzi impressionistici, il film avanza per
blocchi sensoriali e la narrazione si diluisce senza sintesi tra eccessi
volutamente lirici di una prosa artefatta e l’intersecarsi discordante di voci
private e dialoghi espressi. Ma l’utopia cinematografica di una comunicazione
totale e pura non si concretizza perfettamente in questo melò sull'innocenza
perduta, dove le utopie sono auspicabili, ma rimangono dei bei sogni presto
avvizziti.
Eppure,
sebbene l’incomprensione sia insuperabile, incomunicabilità inevitabile, e
infelicità ineluttabile, Malick non si rassegna a non sperare che una qualche
forma di serenità sia in fondo possibile, e insita nella capacità di inserirsi
nel flusso della vita, in comunione, piuttosto che in comunicazione con essa.
Come, in effetti, lo stesso film, convulsamente, cerca di fare.
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