Dopo Origins, il prequel che
raccontava la nascita e le prime avventure di Logan, Wolverine – l’immortale si riallaccia filologicamente al filone
maggioritario degli X-Men ponendosi come sequel
della trilogia cinematografica e anticipazione della confluenza tra le versioni
classiche e “originarie” dei supereroi Marvel (sotto copyright Fox) con il prossimo Days
of future past, che viene introdotto in coda al film.
Se X-Men, le origini: Wolverine si perdeva introducendo una selva di
mutanti che annacquava e disperdeva la vicenda della genesi di Wolverine, il
suo successore si concentra quasi esclusivamente sul canadese errante inserendo
alcuni nemici, una storia d’amore e un complotto economico che ne fanno una
versione mutante e irsuta di un Bond d’antan,
con gli artigli a sostituire la
Walter PPK e il whisky al posto del vodka martini. James
Mangold si era già cimentato nel para-Bond con il divertito Innocenti bugie e vanta la conoscenza di
Jackman sin dai paradossi temporali di Kate
& Leopold; i titoli della sua filmografia lo definiscono come un
regista adattabile, che alterna film riusciti come Copland ad altri dall’esito poco convincente, senza nessuna
esibizione di una precisa volontà stilistica. Anche in Wolverine la regia pare rifuggire da ogni visibilità per lasciar
parlare la trama e, soprattutto, sembra non sfruttare affatto la terza
dimensione acutizzando la frenesia dell’azione con riprese mosse da macchina a
mano, artificio ben poco gratificante con la stereoscopia, oppure non si avvale
della profondità di campo con messe a fuoco successive tra primo piano e sfondo
in una stessa inquadratura.
La regia tenta però la via della
soggettiva del protagonista, di cui vediamo ossessioni e deflagrazioni oniriche
del senso di colpa per la morte di Jean Grey, la sensazione di ottundimento per
l’avvelenamento provocato da Viper e il salto temporale con ellisse narrativa
già sistematicamente sperimentata in Innocenti
bugie, qui con effetto di drammatizzazione straniante al contrario
dell’esasperazione comica sfruttata dal precedente film. L’alterazione quasi
lisergica della percezione sembrerebbe qui una cifra ricorrente, a cui si
aggiunge lo spaesamento provocato dalla società giapponese, sfruttata per
spunti di alleggerimento, e la sorpresa dell’azione fulminea dei guerrieri
ninja per creare una generale sensazione di confusione e smarrimento che sembra
possedere il protagonista sin dalla fine del doppio prologo, in parte
ambientato durante la
Seconda Guerra mondiale e che termina con l’avvio della
vicenda preminente e il trasferimento in Giappone. Il disorientamento di
Wolverine è confermato anche nell’epilogo, con la rivelazione del deus ex machina della vicenda e l’ultimo
confronto con la nemesi dell’eroe in cui un esoscheletro in adamantio affronta
uno scheletro rivestito dello stesso indistruttibile metallo, come in una lotta
tra avverse versioni di sé ed eco della guerra fratricida che animava già il
primo capitolo delle avventure di Logan. In effetti Wolverine è un personaggio
sanguigno e disadattato, solitario e malinconico in perenne contrasto con i
suoi simili e con la propria natura, odiata e sfruttata in ugual misura.
È però la stessa trama a
dissipare il potenziale del soggetto evidenziandone soprattutto la parte
avventurosa, con la complicità di yakuza e ninja ad arricchire il sapore
nipponico, e limando la componente amorosa, che diventava tragico melò nel
prototipo a fumetti, per incatenarsi ad una vicenda funesta di eredità contesa
con piccola aggiunta di ingrediente mutante ad intorbidare la situazione. E la
traduzione dello smarrimento del protagonista spesso si traduce nel riuso del
primo piano di Jackman, la cui mimica facciale trasforma stupore e ironia in
rugosità vagamente allibita.
Ponte personale per il salto
nella nuova pellicola plurale, affollata da diverse versioni temporali dei
medesimi x-men tornati nelle mani di Bryan Singer, Wolverine – l’immortale non mantiene le promesse che il titolo
italiano annunciava (il titolo originale è, laconicamente, The Wolverine) masticando il dolore per l’immutabilità nel tempo in
poche frasi senza appoggio scenico. La solitudine e la sofferenza di una
virtuale immortalità dovuta al fattore di guarigione sono elementi dati per
scontati, mai approfonditi, retaggio delle pellicole e tavole passate che non
sembrano necessitare ulteriore esplicitazione, pur costituendo il fondamento
narrativo di tutta l’azione del film e la vita del personaggio.
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