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di antonio fabbri

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Luchino Visconti: l'influenza francese
(1992)

 LA FRANCIA.
         A partire dal 1932 Luchino Visconti soggiorna più volte in Francia, frequentando i circoli mondani e culturali della capitale ed entrando in contatto con l'effervescente mondo artistico che vi vive, culturalmente e politicamente all'avanguardia. A Parigi, Visconti conosce alcune delle personalità più interessanti dell'epoca, e si lega d'amicizia  soprattutto con Jean Cocteau, che aveva da poco esordito alla regia cinematografica con Le sang d'un poète, finanziato dal visconte e mecenate Charles de Noailles, e Coco Chanel. E a Parigi, "oltre alle prime teatrali e ai cenacoli artistici, egli conobbe il miglior cinema del tempo, che spesso non riusciva ad ottenere diritto d'ingresso in Italia" (1). Con sempre maggiore chiarezza, il giovane Conte di Modrone, realizza di aver vissuto per anni, forse senza neppure accorgersene, in un paese di "cadaveri" viventi costretto dal giogo fascista ad un soffocante e sterile conservatorismo.          Contribuiscono alla progressiva messa a fuoco di questa consapevolezza anche le esperienze personali di Visconti, perché in Francia avviene la definitiva accettazione della sua omosessualità, sino a quel momento repressa o, al contrario, alternativamente, con scandalistico narcisismo esibita. Egli va sperimentando "una serie di rapporti estremamente liberi e anticonformistici" perché l'omosessualità, "tollerata se non addirittura esaltata in Francia (basti pensare agli ambienti di Cocteau e di Gide che Visconti aveva frequentato), [...] nell'Italia clericale e fascista" (2) è invece rigidamente ed inequivocabilmente condannata.  Molto importante è l'appassionata e duratura relazione che Visconti stabilisce con Horst, il fotografo conosciuto in quell'ambito mondano ed elegante che  questi ritrae in raffinati  e splendidi bianchi e neri: è proprio lui a portare  Visconti "à vivre et à accepter son homosexualité" (3).
         I soggiorni francesi trasformano dunque completamente Visconti, "ne ampliano gli interessi, ne dilatano la cultura" (4) e la sensibilità, permettono lo sviluppo della sua personalità. Essi servono ad aggiornarlo su cose di cui pochissima o nessuna eco arriva in Italia e lo mettono in contatto con quel mondo dello spettacolo cosmopolita che in seguito diventerà il suo e che lo porterà ad abbandonare definitivamente la pur amatissima attività di allevatore di cavalli. Sono tutti momenti di una complessiva ed importantissima presa di coscienza che si svilupperà e approfondirà definitivamente con la vicinanza e la fattiva collaborazione con Jean Renoir: sarà questa, infine, ad indirizzarlo verso decisive scelte esistenziali, ancor prima che artistiche o politiche o umane, alle quali rimarrà fedele. 

RENOIR.
         Con ogni probabilità, Luchino Visconti e Jean Renoir si conoscono tramite la loro comune amica Coco Chanel. La prima collaborazione -ma le fonti sono incerte- risale forse  addirittura al 1934, durante la lavorazione di Toni. Numerose filmografie renoiriane registrano Visconti come "stagiaire" sul set del film, un ruolo non ben identificato ma che probabilmente consiste, come il termine stesso lascia supporre, in una specie di apprendistato: guarda Renoir al lavoro senza intervenire. "Se così stanno le cose, meglio si spiega l'improvvisa passione di Visconti per il cinema: passione che non nascerebbe soltanto dalla frequentazione di certe sale cinematografiche di Parigi in cui passavano film inediti per l'Italia, ma anche, e forse soprattutto, dalla partecipazione, sia pure in veste di curioso osservatore, alla realizzazione di un film" (5). Molto più certa e concreta è invece la sua partecipazione, nel 1936, a Une partie de campagne, per il quale Renoir lo recluta come assistente e costumista: Visconti risulta "stagiaire accessoriste", ossia, nell'accezione di Gianni Rondolino, "trovarobe"; ma anche, secondo alcune filmografie, 'assistente', ultimo dopo Jacques Becker, Claude Heymann, Jacques B. Brunius, Yves Allégret e Henri Cartier-bresson. "Certains témoins du tournage de Une partie de campagne [...] évoquent le souvenir d'un garçon de courses italien qui s'appellait Luchino Visconti, d'autres disent qu'il s'occupait des costumes, les filmographies le comptent généralement parmi les assistants à la mise en scène [...] et l'on sait aussi que Renoir sympathisera avec lui au point de  lui suggérer de lire le roman de James Cain: Le facteur sonne toujours deux fois dont Visconti tirera cinq ans plus tard son premier film Ossessione. Une équipe réunie autour de Renoir ne constitue [...] pas un groupe hiérarchisé mais plutôt une petite bande" (6).

Ho conosciuto Renoir in Francia ed ho lavorato con lui per Une partie de campagne come terzo assistente. Avevo anche un po' partecipato alla preparazione de Les bas-fonds, il film che fece subito dopo e, in una certa misura, ugualmente a quella de La grande illusion [...]. Mi ricordo che a casa sua, durante qualche riunione, [...] si parlava già di un film sui prigionieri dui guerra francesi in Germania [...]. Non partecipai  direttamente alla lavorazione di Les bas-fonds e in cambio presi parte alla stesura di Une partie de campagne, film per il quale feci anche i costumi.

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Una collaborazione che sembra positiva in quanto Renoir lo chiama, e questa volta come secondo assistente, per Tosca, progetto italo-francese da girarsi in Italia, ma interrotto, dopo solo alcune sequenze girate, dallo scoppio della guerra e la conseguente partenza del regista. Il film è terminato dai due assistenti e firmato solo da Karl Coch: Visconti lo considera un risultato mediocre,  probabilmente troppo renoiriano per essere originale ma non abbastanza per essere riuscito.
         L'impronta che Renoir lascia su Visconti non è semplicemente di natura stilistica, benchè molti dei suoi tratti più caratteristici si ritrovino in seguito nell'opera dell'ex-assistente. Infatti, come Renoir, anche Visconti è portato a mettere in scena in profondità, girando lunghi blocchi narrativi, piani sequenza che legano l'attore alla scena in un continuum spazio-temporale ed evitano l'intromissione spesso dispersiva del montaggio. La profondità di campo permette inoltre un'accresciuta mobilità agli attori, ovunque costantemente a fuoco assieme agli altri elementi inquadrati i quali, per l'evidenza plastica che guadagnano, acquistano importanza espressiva. La scenografia pertanto non può più essere mera ambientazione, sfondo indefinito, e diventa automaticamente la vera 'realtà' in cui si muovono i personaggi del film.
         Nelle pellicole del regista francese, l'attore ha un'importanza basilare, ed è spesso usato, come in Visconti, in contraddizione con i ruoli tenuti in precedenza e con esiti solitamente sorprendenti: "Renoir ne prend pas ses acteurs, comme on fait au théâtre, pour leur confirmité à un emploi, mais, comme le peintre, pour ce qu'il sait qu'il nous forcera à y voir" (8), scavando e trovandovi l'essenza del personaggio, portandola in superficie con sicura "capacità rabdomantica" (9).
Nell'interpretazione, l'attore è spesso "poussé au-delà de lui-même, surprit de nudité d'être qui n'a plus rien à voir avec l'expression dramatique" (10). Vi è in entrambi i registi il medesimo puntiglioso interesse per il minimo gesto che diventa importante e decisivo per la creazione del personaggio e che deriva da un profondo rispetto per l'uomo perché: anche "le geste d'une laveuse de linge, d'une femme qui se peigne devant une glace, d'un marchand de quatre saisons devant sa voiture [a ...] souvent une valeur plastique incomparable" (11). Per Visconti "il più umile gesto dell'uomo, il suo passo, le sue agitazioni [...] danno poesia e vibrazioni alle cose che li circondano e nelle quali si inquadrano" (12).

Renoir ha esercitato su di me un'influenza enorme [...]. Non che Ossessione sia stato [...] influenzato dal cinema francese in particolare, ma è Renoir che mi ha insegnato il modo di lavorare con gli attori. Quel breve contatto di un mese è stato sufficiente, tanto la sua personalità mi aveva affascinato.

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         Soprattutto Renoir fa un cinema che si pone in diretto contatto con la realtà con la quale è sinceramente ed indissolubilmente legato, da cui trae ispirazione e a cui, in fine, rimanda:  "toute son oeuvre française et surtout celle des dernières années d'avant-guerre, porte le plus profond et le plus vivant témoignage sur la France d'alors (Le Crime de M. Lange, par exemple, est issu de l'ambiance du Front Populair dont il traduit merveilleusemente les espoirs et peut-être les naivetés). Mais le sommet de la vérité dans l'epression implicite d'une époque est certainement attaint en 1939 par La Règle du jeu, que demeure peut-être le chef-d'oeuvre de Renoir" (14). In entrambi i registi, la realtà si traduce in immagini sintomatiche e rappresentative di un dato momento storico, che determina in qualche modo l'azione, che interviene a guidare la loro mano ed il percorso dei personaggi. Tutti e due, e Visconti, è lecito supporlo, sull'esempio di Renoir, cercano di esprimere in forme autonome, concluse e personali motivi più generali. Visconti afferma di lavorare sempre "nella convinzione che per capire la società  contemporanea e i suoi problemi e cercare di trovarne una soluzione non convenzionale, uno dei mezzi e non il meno importante, sia quello di studiare l'animo di certi suoi personaggi rappresentativi, comunque collocati ed angolati" (15). Nella Règle, Renoir esprime la sotterranea angoscia che prelude l'esplosione dell'imminente conflitto mondiale, rivestendola dell'apparenza festosa di una commedia degli equivoci che, improvvisamente, vicina alla conclusione, si tramuta in tragedia.

Quand j'ai fait La Règle du jeu je savais où aller, je connaissais le mal qui rongeait mes contemporains. Mon instinct me guidait. La conscience du danger me fournissait les situations et les répliques. [...] Mais cela n'est pas tellement difficile de  bien travailler quand le compas de l'inquiétude marque la vrai diréction.

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 ANTROPOMORFISMO.
         Il cinema di Renoir è un cinema umanistico, imperniato sull'uomo e di cui vuole approfondire la conoscenza, indagandone i cangianti rapporti col mondo: l'attività artistica diventa pertanto sinonimo, nella sua continua implicazione con la realtà, di costante impegno, non solamente politico. Essa diventa infatti "l'opera di un uomo vivente in mezzo agli uomini" (17), secondo la definizione accolta da Visconti nel famoso scritto coevo alla prima uscita di Ossessione.  Quello dell'artista e, in questo caso, più specificamente, del regista cinematografico, è un lavoro che, "s'il était libre, pourrait tellement aider à la connaissance des hommes et des choses" (18). Il tentativo di Visconti di indagare l'animo umano deriva direttamente dal simile sforzo di Renoir, interessato  come lui ad un "cinema antropomorfico", somigliante ai personaggi che lo popolano e sincera espressione del loro animo e della loro personalità, indagata, senza schematismi, in tutte le visibili sfaccettature.        In quel periodo, il cinema si rivela per  Visconti come "lo strumento giusto per affrontare direttamente la realtà umana e sociale e darne una rappresentazione prospettica" (19). Il lavoro con Renoir mette a frutto tutta la preparazione culturale di Visconti, affinata proprio dai vari soggiorni francesi, e la investe di una luce nuova, probabilmente inedita per il giovane aristocratico italiano. Ed anche la sua tendenza artistica, una 'vocazione' che si era sin lì espressa in forme vagamente estetizzanti di cui sono testimonianze alcuni scritti e progetti giovanili, acquista senso nell'ormai irrinunciabile 'impegno'. Questo è forse solo intuitivamente sentito nel periodo francese ma trova in seguito modo di affinarsi e precisarsi anche ideologicamente frequentando la redazione ed i collaboratori alla rivista "Cinema" e che viene chiaramente espresso, in forma matura e polemicamente aggressiva, negli scritti pubblicati sulla stessa rivista:

quel periodo successivo al soggiorno in Francia, i contatti con gli amici di Roma restano per me fondamentali ed inconfondibili. Furono una scoperta viva e le circostanze favorirono [...] che essa si mutasse in un tentativo o in una ricerca di stile artistico. [...] Fu la scoperta del marxismo, ma in modo operativo.

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Rimane comunque il fatto che è in Francia, assieme a Renoir, che Visconti trova le sue idee comuniste: in Italia, non farà che cercare un ambiente a quello simile, nel quale continuare a sviluppare una ricerca in gran parte già indirizzata, che avesse come esito la definizione di una espressione cinematografica italiana realistica, vicina e parallela a quella di Renoir.

Furono proprio il mio soggiorno a Parigi e la conoscenza di un uomo come Renoir che mi aprirono gli occhi su molte cose. Capii che il cinema poteva essere il mezzo per avvicinarsi a certe verità da cui ervamo lontanissimi, specialmente in Italia. Ricordo che La vie est à nous mi fece una profonda impressione [...]. Durante quel periodo ardente    -era quello del Fronte Popolare- aderii a tutte le idee, a tutti i principi estetici [...] ma anche politici. Il gruppo di Renoir era schierato nettamente a sinistra e Renoir stesso, anche se non era iscritto, era certamente molto vicino al P.C. . In quel momento, ho veramente aperto gli occhi: venivo da un paese fascista dove non era possibile sapere niente, leggere niente, conoscere niente, nè avere esperienze personali. Subii uno choc. Quando tornai in Italia ero veramente molto cambiato.

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         Per Visconti, dopo l'esperienza francese e la realizzazione di Ossessione, l'attività creativa, artistica o meno, si identifica con la vita stessa, cosa vitale in rapporto con uomini altrettanto vivi, intendendo, ancora, per vita la libertà, ossia la possibilità di autodeterminarsi al di fuori di ogni condizionamento. L'artista non può trincerarsi dietro vaghi pretesti romantici, secondo una vile e ormai del tutto inaccettabile, pretestuosa 'vocazione', la quale non può essere intesa che come il maturo frutto di uno studio, di un'approfondita "specializzazione". "La vocazione non esiste" quindi, "ma esiste la coscienza della propria esperienza. Lo sviluppo dialettico della vita di un uomo al contatto con gli altri uomini"  (22), conseguenza di una precisa e ben razionale scelta in cui le semplici e da sole sterili finalità artistiche sono potenziate dalla consapevolezza di una 'missione': l'esplicito dovere dell'artista di fornire un prodotto valido in quanto risultato di "molteplici testimoniamze di vita" e "manifestazione di vita" esso stesso.
          Cinema antropomorfico è un puntuale manifesto di poetica in cui le intenzioni del regista (il progetto del lavoro da fare) vengono spiegate ed analizzate, assieme ai modi con cui realizzarle e dove Visconti espone i cardini di una pratica cinematografica che ha applicato in Ossessione e che rimarrà sostanzialmente immutata: la centralità dell'attore in quanto essere umano capace di dar vita ad una persona diversa (il personaggio) ma ugualmente viva; l'importanza della costruzione di un mondo credibile attorno ai personaggi, che approfondisca e delinei il loro carattere; l'assoluto "impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose, non le cose per se stesse", senza il quale qualsiasi attività artistica perde interesse. Ed egli sceglie di esprimersi attraverso il cinema perchè esso si presenta come un mezzo democratico in cui "confluiscono e si coordinano slanci ed esistenze di molti, tesi per un lavoro complessivo migliore". Cinema antropomorfico è una dichiarazione d'intenti estremamente razionale, ben ponderata e lucida, basata su una perfetta conoscenza dei propri mezzi espressivi e delle proprie intenzioni, che è anche la logica conseguenza del lavoro svolto in Francia, accanto a Renoir. Dopo la conquista della maturità, la prima pratica espressione del suo cambiamento è Ossessione di cui Cinema antropomorfico rappresenta il riflesso teorico.

 OSSESSIONE.
         Questo primo film, più degli altri, risente dell'influenza di Renoir, e, in misura minore, del Realismo Poetico imperante negli Anni Trenta sugli schermi francesi, e lo confessa Visconti stesso:

narrativamente, Ossessione era ancora legato a certe infuenze che intervenivano dal cinema francese. Da Renoir, da Duvivier, da Carné. Si nasce sempre da qualche cosa.

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Ossessione presenta infatti con alcuni film di quel periodo interessanti analogie e chiarificatrici divergenze. All'origine del  progetto di Ossessione vi è ancora Renoir: è lui a dare a Visconti il dattiloscritto contenente una prima riduzione del romanzo di Cain, il quale, in Francia, era già stato oggetto di una trasposizione cinematografica da parte di Pierre Chenal, Le dernier tournant, che molto probabilmente Visconti ha visto prima di scrivere il suo film: il remake doveva essere realizzato da Renoir stesso o da Duvivier, ma nessuno sembra interessarsene veramente.
         Ossessione è effettivamente tratto da The Postman Always Rings Twice, e mantiene una certa fedeltà nei confronti del pretesto letterario originale, che però arriva a Visconti attraverso un duplice filtro francese: linguistico, innanzitutto (il testo della sceneggiatura dato da Renoir è molto probabilmente in francese), ma anche culturale, per il debito che il film mostra nei confronti di una precisa tradizione cinematografica. Questa patina francese si somma ad una piccola influenza statunitense, alla tendenza di un certo ambiente letterario progressista di esaltare la narrativa americana contemporanea per trapiantarne i tratti più significativi, con tutta la loro carica polemica ed innovativa, nell'Italia fascista. Questa esigenza si coniuga alla ricerca, da parte dei redattori di "Cinema" di una forma implicitamente eversiva di realismo italiano, sulla scia della tradizione verghiana, e sull'esempio del cinema francese che si era rifatto , negli Anni Trenta, al Naturalismo letterario. Ossessione è il risultato di tutti questi influssi, i quali non emergono mai vistosamente, poichè il film, innanzitutto, è un'opera, conclusa, già matura e già prepotentemente personale, di Luchino Visconti. Il romanzo di Cain non viene scelto per i suoi pregi letterari, anzi, viene trattato alla stregua di un semplice fatto di cronaca che la censura fascista non permetteva fossero riportati sui giornali. Visconti stesso afferma che, in effetti, "non ci fu uno stretto rapporto con la narrativa americana" e che del romanzo gli sceneggiatori si limitarono a  trarre "la traccia aneddotica" perchè "qualunque altra vicenda avrebbe servito ugualmente" (24). Le intenzioni innovative di Visconti e dei suoi collaboratori certamente passavano per la novità di contenuto, che diventava automaticamente polemico, ma soprattutto erano dirette alla ricerca di una inedita forma espressiva: "era piuttosto il modo di svolgere l'aneddoto che importava" (25), lo stile, che molto risente della tradizione cinematografica francese degli Anni Trenta. Di questa, il film recupera la cura fotografica, abbinata alla scelta di girare in esterni reali, i quali, appunto per l'inusitato riguardo formale, acquistano un forte rilievo espressivo. Questa scelta dipende forse maggiormente dall'esempio diretto di Renoir piuttosto che del Realiso Poetico tradizionale il quale preferisce ambientare le sue storie in contesti realistici ma palesemente ricostruiti in studio. Renoir, proprio con quel Toni di cui Visconti forse ha seguito le riprese, tenta, già nel 1934, un'ipotesi di realismo integrale, girando tutto in esterni veri (26).
         La storia di Ossessione, sebbene di provenienza americana, ha tratti in comune con i caratteristici soggetti del cinema francese, il quale presenta spesso figure di emarginati o vagabondi, col cappello inclinato sulle ventitrè, o tenuto indietro, sull'esempio di Jean Gabin, attore allora estremamente in voga. Sono eroi romantici votati al fallimento e alla tragedia, imbrigliati in storie di amori impossibili, che sovente passano per un omicidio, un delitto passionale che accelera l'approssimarsi della morte. In apparenza, ad una superficiale lettura, il film sembra respirare la stessa aria fatale che circola in quelle pellicole, come in Quai des brumes di Marcel Carné per citare un esempio che presenta alcune analogie. Gabin vi è un soldato dal passato confuso ma sicuramente non limpido, che vive alla giornata, senza meta, sognando solo di partire per rifarsi una vita altrove. I due film si aprono su inquadrature di una strada, viste dal camion che depositerà l'uomo vicino al suo destino, alla donna  che sta per incontrare (27). Eppure, al di là di analogie apparenti, i personaggi di Ossessione non hanno niente da spartire con quelli di Carné: figure romantiche, ideali, stereotipi poetici quasi evanescenti ed astratti. "I personaggi prévertiani sono elementari, privi di sviluppo psicologico e condizionati, nei loro atteggiamenti, da una realtà sociale immobile e ostile, contro la quale i loro sforzi sono vani. Ma nella loro semplicità sono umani e riflettono le speranze e le disillusioni dell'uomo contemporaneo" (28). Girotti e la Calamai colpisco invece per la loro corposa sensualità e l'approfondimento psicologico che Visconti ne dà. I personaggi di Carné sembrano dominati da un'ironica e maligna casualità, un fato che fa di loro le vittime più o meno inconsapevoli di un destino maligno. Il pessimismo che traspare da quei film equivale all'impotenza degli stessi personaggi, mai arbitri completi della loro vita, succubi della generale crudeltà che li circonda come la nebbia. In Ossessione non c'è affatto questo senso di fatalità ineluttabile: i protagonisti di Visconti sono gli unici arbitri del loro destino, anche se non sempre lo sanno. Ogni loro azione deriva da una precisa scelta, di cui scontano le conseguenze: Gino e Giovanna sono irrimediabilmente attratti l'uno verso l'altra, la sensualità e violenza del loro rapporto è inconfutabile: ma dopo il primo fallito tentativo di fuga, si separono e percorrono strade distinte. Quella di Gino lo porta ad incontrare lo Spagnolo, figura enigmatica per molta critica, e personaggio inedito rispetto alla trama americana. Questi, negli intenti degli altri sceneggiatori del film (Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Gianni Puccini) era l'indubbio rappresentante di un'alternativa politica, nuova, a cui rimanda anche la sua natura di "spagnolo" (un collegamento con la guerra di Spagna), era l'emblema della concreta speranza antifascista. Visconti, pur non venendo meno a questi presupposti, conferisce al personaggio un suo proprio spessore psicologico, facendolo diventare, secondo una visione personale, il rappresentante, in toto, della libertà così come lui stesso l'aveva vista e vissuta in Francia, una libertà quindi non solo politica, ma anche sentimentale e sessuale: è, insomma, il simbolo stesso della Francia. Visconti gli dà una caratterizzazione che, sebbene non del tutto esplicita, è chiaramente omosessuale e che solo certa critica eccessivamente pudica e moralistica può leggere come "ambigua". Lo Spagnolo non solo offre a Gino quella istintiva solidarietà tra emarginati che pallidamente illuminava anche il fosco mondo di Quai des brumes, ma gli indica anche una nuova possibilità di vita, che non corrisponde solo ad una vaga tendenza anarcoide o di sinistra. Simile al personaggio di Boudu nel film di Renoir, lo Spagnolo impone a Gino una svolta concreta ed eversiva, che lo libera dalle ipocrisie delle convenzioni borghesi, impersonando la libertà, l'assenza di preconcetti e di inibizioni, ed è, come il personaggio renoiriano, un vagabondo senza casa nè patria, assolutamente libero:

tramite lui ho voluto rappresentare i temi essenziali dela mia opera: i problemi sociali e la poesia [...]; é il simbolo stesso della rivoluzione e della libertà di pensiero.

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Gino, incontrandolo, si trova di fronte ad un'opzione di vita nuova e sembra sceglierla, sino al secondo inaspettato incontro con Giovanna. Di fronte a lei, e al risorgere impetuoso della passione che li lega, lo Spagnolo è totalmente impotente. L'omicidio dell'ingombrante marito è solo la prima tappa (quasi solo intuita, più che pianificata e preparata) della loro riunione, il primo passo verso il definitivo suggello del loro destino. Perchè è solo adesso, in seguito alla decisione di Gino di tornare da Giovanna, che la fatalità, mostrata ed annunciata da nitidi segnali e simboli premonitori, incombe ormai sui due amanti e li accompagna sino al negativo e prevedibile esito finale, il logico fallimento di tutte le speranze. E' quindi solo Gino che, scegliendo Giovanna in alternativa e contrapposizione allo Spagnolo, sceglie allo stesso tempo di diventare -o tornare- il tipico personaggio dei film del Realismo Poetico: il riferimento a quel cinema diventa solo funzionale alla misura del significativo scarto rispetto al modello. 

I PERSONAGGI VISCONTIANI.
         In Ossessione i personaggi sono solo vittime di loro stessi. E' possibile separare i personaggi viscontiani in due categorie, due tipologie ricorrenti che si distinguono per il rapporto che  instaurano con la realtà circostante. Vi sono infatti personaggi pienamente consapevoli della loro condizione, della situazione generale e che agiscono quindi con piena e talvolta cinica -per l'eccessiva disillusione- lucidità, mentre ve ne sono altri privi di questa visione chiara e critica del loro mondo e del loro tempo, viventi per inerzia, guidati da illusioni che si infrangono con violenza, e l'esempio massimo è forse il protagonista de Lo Straniero che per inerzia vive uccide e muore, abbagliato da una totale indifferenza ed incapacità di capire, di rendersi conto della realtà. Spesso, nei film di Visconti (ma anche nei sui spettacoli teatrali) la trama non è che il percorso di questa progressiva consapevolezza, che culmina, solitamente, in una scena in cui la verità è violentemente e crudamente mostrata tanto da distruggere tutte le illusioni passate, le false certezze su cui i personaggi avevano costruito la loro vita. Rivelazioni che si esprimono attraverso potenti scene madri, situazioni limite, crisi catartiche ma non sempre risolutive. Il personaggio di Visconti si trova bloccato in una situazione di stallo in cui è costretto a rendersi conto di aver sbagliato, a ripensare in modo nuovo la sua vita passata ed intuire il futuro: in quel momento di lucidità, egli ha la possibilità di cambiarlo, di autodeterminarsi, di scegliere. Spesso fallisce perchè non sufficientemente consapevole, o perchè vincolato al passato in modo troppo forte. A Visconti non interessa sapere quale strada il suo personaggio prenderà, perchè ciò dipende esclusivamente da lui, dalla sua psicologia e personalità. Importante è mostrarlo al bivio, nel momento in cui scopre di aver sbagliato, di essersi illuso: il regista si limita a seguire ed illustrare fedelmente questo trapasso verso la coscienza: Gino e Giovanna forse non raggiungono mai una piena consapevolezza, che invece lo Spagnolo ha. I due amanti sono i primi rappresentanti degli 'illusi' viscontiani, 'vinti' non per fatalità, ma per autonoma scelta, personaggi incapaci di guardarsi attorno lucidamente, vittime, appunto, di loro stessi, prigionieri senza saperlo in quanto ciechi di fronte ai limiti e alle restrizioni che li condizionano.
         Di fronte ad una simile rivelazione si era ritrovato lo stesso Visconti. Italiano in Francia, egli si accorge di aver vissuto in patria solo la parvenza della libertà, i condizionamenti essendo troppo forti per permettergli quella libertà di pensiero che è sinonimo di vita, in quanto possibilità di decidere autonomamente il proprio futuro. L'influenza francese diventa una tappa senza la quale non è possibile capire Visconti perchè è la premessa a tutta la sua vita e attività artistica:

mi recai in Francia e lavorai come assistente di Renoir. Lì avvenne per me il primo contatto con un tipo di ambiente del quale non immaginavo neppure l'esistenza. In fondo, arrivando a Parigi da Milano si aveva l'impressione che in Italia si vivesse a occhi bendati ed orecchie tappate.

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Sull'esempio di Renoir e lo stimolo complessivo francese, si afferma prepotentemente in Visconti l'esigenza di trasmettere questa nuova consapevolezza agli altri italiani,  denunciare l'esistenza di quei tappi e bende. La sua esperienza privata diventa, così, emblematica di un risveglio di coscienza che deve essere travasato in Italia, portato a tutti e reso esplicito. Ed è ciò che fa attraverso il suo lavoro di regista: in filigrana in ogni sua storia è possibile ritrovare la trama di quella personale vicenda, la sofferta conquista della maturità e della lucidità. Ovviamente si può osservare che questa necessità era evidente nel periodo fascista e che, in seguito, trova meno la sua ragion d'essere. Ma il persistere in quella direzione lascia sospettare che le condizioni non fossero, in seguito, realmente cambiate, che molti condizionamenti residui persistessero e testimonia di un preciso impegno morale di Visconti, ancor prima che ideologico. La presa di coscienza che l'attività artistica implica deriva quindi dalla forte crisi di coscienza che Visconti ha provato in Francia, accorgendosi che non era possibile esprimersi 'inutilmente', con finalità meramente artistiche. Nei suoi personaggi, Visconti ripete, potenziandole con lo spettacolo, simili prese di coscienza derivanti tutte da precedenti crisi le quale in effetti risultano costituire l'essenza stessa del cinema viscontiano.

Provenivo da un paese fascista, ove era proibito leggere, pensare, conoscere. A Parigi cominciai a pensare. E credo di aver sempre continuato a farlo.

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Appunto per questo, al di là di una fallace separazione in buoni o cattivi, positivi o meno, i personaggi di Visconti si distinguono solo per la lucidità  o la cecità che dimostrano nei confronti dei condizionamenti, sociali  culturali o personali, attivi nella loro vita: una distinzione che tiene conto soltanto della loro intelligenza. L'onestà dello sguardo gli proviene, forse, ancora una volta, da Renoir, che non ha disdegnato mettere in scena personaggi negativi, o che comunque non ricevevano totalmente la sua simpatia: "tutti hanno le loro ragioni", fa dire Renoir al personaggio interpretato da Dalio nella Règle du jeu: tutti sono quindi giustificabili, ed il regista deve mostrare anche le ragioni dei personaggi a cui non si sente più vicino.
         Perciò il cinema di Visconti non ha in realtà niente a che vedere con lo schematismo romantico del Realismo Poetico, dove i personaggi sono più che altro pretesti, figure evidenti ma sostanzialmente inanimate, vittime, prima che di un destino avverso, delle stesse programmatiche intenzioni dei loro autori. In Visconti, i personaggi sono capaci di scegliersi il futuro, anche positivo, ma non ne sono sempre consci e il suo pessimismo non è aprioristico come in Carné o Prévert, ma deriva dalla mancanza di lucidità, quindi di consapevoleza e di intelligenza, dimostrata dai personaggi.  

LA REALTA' CIRCOSTANTE.
         I personaggi di Visconti si muovono in un ambiente restituito fedelmente, che ricalca alla lettera la realtà storica, quando questa interviene attivamente a determinarli: come ogni ambiente, esso interagisce con i personaggi, condizionandoli e essendone condizionato, e si presenta quindi nella duplice veste di proiezione -conseguente al personaggio- di aspetti della sua personalità e, all'opposto, di insieme di elementi preesistenti che agiscono con forza su di lui, assolvendo quindi alla funzione di ricostruzione del mondo esterno ma anche di quello interiore del personaggio. La 'scenografia' interviene così ad aiutare lo spettatore nella comprensione dei personaggi che in essa si muovono e si riflettono,  sfumandone e definendone la psicologia, ricorrendo anche a riferimenti culturali di vario tipo che non sono mai semplici citazioni, ma che nel rapporto che il film istituisce con la fonte, permettono  di evidenziare aspetti non immediati della psicologia del personaggio o del suo tempo: ogni elemento significativo, che non si ritrovi nelle battute della sceneggiatura, è posto in superficie, in modo da entrare nel campo visivo e semantico del contenuto spettacolare globale. L'ambientazione si attiene a canoni di assoluta fedeltà storica e psicologica per creare attorno ai personaggi ambienti ed atmosfere perfettamente consone e conformi ad essi, illuminanti quindi sul tempo dell'azione e sul personaggio stesso. Ciò che per Visconti è necessario ed imprescindibile è "esprimere il pensiero", sia dell'autore di un testo che del personaggio, e "renderlo plastico e vivo allo spettatore" (32). Il film, lo spettacolo teatrale sono costruiti ad immagine del personaggio, della sua personalità e in conformità della visione del regista, secondo un procedimento 'antropomorfico'. Questo comporta una varietà di stili che  dipende dal soggetto e dal personaggio ritratto, ma risultante da una forte ed unitaria coerenza di impostazione. Il lavoro del regista, quindi,  creato un ambiente e dei personaggi credibili, consiste nel penetrare quel mondo per andarvi a scoprire ciò che lo interessa, scrutando in profondità i personaggi, entrando in loro e facendo trasparire quei moti interni che unici possono spiegarli. Una prossimità che è necessaria alla comprensione ma che non si lascia mai travolgere rimanendo lucidamente critica ed obiettiva: Visconti sottolinea e rende del tutto evidente la sua posizione di narratore onniscente, che non guida l'azione, ma la segue.       

         Potremmo ritenere emblematico del rapporto di Visconti col contenuto dei suoi lavori e con i suoi personaggi quel movimento di macchina che in Ossessione introduce Gino in casa, nella taverna, per poi portarlo su, sino alla camera dove Giovanna lo aspetta: la macchina da presa, dopo aver mostrato Gino alla pompa dell'acqua davanti all'entrata, mostra ciò che sta guardando (la costruzione, e Giovanna, sottintesa, al suo interno), staccando in quello che sembra un normale controcampo, che ci fa ritenere l'inquadratura una soggettiva di Gino, molto esplicita sulle sue intenzioni. Eppure, la macchina, carrelando in avanti,  permette a Gino di entrare in campo, rivelando come la ripresa fosse in realtà una normale oggettiva. Ma proprio in questo improvviso passaggio da un'apparente soggettiva ad una oggettiva, Visconti chiarisce il suo approccio e la sua posizione, che consiste nell'avvicinarsi al personaggio, fino ad entrarvi per capirne le intenzioni ed i pensieri, lasciandolo infine per porsi ad una distanza contemplativa che ribadisce che il film è nel suo complesso la  soggettiva del regista, che guarda i personaggi con la maggior aderenza e fedeltà possibili, senza dimenticarsi di sottolineare la sua posizione comunque al di sopra delle parti, esterna. 

IL PERSONAGGIO POSITIVO.
          La critica si è affannosamente sforzata di ritrovare nei film di Visconti il 'personaggio positivo'; non trovandolo, o sentendosi solo in parte soddisfatta per l'esilità psicologica e drammatica spesso dimostrata da questi personaggi, essa ha di volta in volta accusato Visconti di decadenza, perdita dell'ideale politico, abdicazione del programmatico impegno civile e morale, intima e sospetta incapacità e disegnare o ritrarre personaggi positivi, senilità. Ma la posizione di Visconti, lo scarto rispetto al contenuto e ai personaggi è evidente a livello formale, dal complesso degli elementi registici di messinscena, inquadratura, recitazione, ritmo, montaggio, non dalla semplice presenza, all'interno della narrazione, di un suo alter ego. Il giudizio sui personaggi  che Visconti formula, non è da ricercarsi nelle parole dette o nella sua identificazione con un personaggio, ma risulta dall'insieme degli elementi rappresentatativi a disposizione, dall'integralità dell'opera, non da una sola sua parte. Lo Spagnolo di Ossessione è il primo rappresentante di questa schiera di personaggi implicitamente positivi, o che molta critica ha definito così, ma che non lo sono fino in fondo. Nelle intenzioni degli altri sceneggiatori, lo Spagnolo era il simbolo di un'alternativa esclusivamente politica e si dichiarano infatti traditi e delusi dal risultato finale che presenta un personaggio al limite del negativo: come poteva l'ideale comunista ritrovarsi in un omosessuale che denuncia l'ex-amante perchè lo ha tradito?
         I personaggi di Visconti esistono come entità autonome, con una psicologia e una logica interna. Se abbracciano una particolare, 'positiva', fede politica, lo fanno solamente in base ad esigenze personali che non sono affatto riconducibili alla necessità di Visconti di esprimersi tramite loro: farli portavoci del suo pensiero sarebbe ridurli ad una dimensione semplicemente simbolica e strumentale a scapito della loro personalità e libertà, ed entrerebbe in completa collisione con gli intenti analitici  ed umanistici del cinema viscontiano che non tollera nessuno schematismo. E' un cinema teso ad un "affettuoso e obbiettivo esame dei casi umani" (33) che porta il regista a calarsi momentaneamente nei suoi personaggi per renderne evidente e visibile la personalità e la psicologia, ricorrendo nel far ciò a qualsiasi mezzo espressivo a sua disposizione, ma senza permettere, nè a se stesso nè allo spettatore, una completa emotiva identificazione. Visconti, con estrema lucidità, segue le azioni dei suoi personaggi, indagando l'intimo della loro realistica psicologia, senza intervenire direttamente. Ogni gesto e decisione dipendono da loro, e il regista illustra e spiega, analizza: egli guarda i personaggi senza preventivi pregiudizi, lasciando loro una totale libertà. La sincerità di Visconti nell'illustrare il personaggio e i suoi determinanti rapporti con il contesto, permettono allo spettatore di essere perfettamente consapevole di ogni particolare significativo, lo mettono in condizione di giudicare obbiettivamente il personaggio.         Pertanto, non esistono distinzioni ulteriori tra i personaggi viscontiani che sulla base della lucidità e della comprensione della loro realtà che dimostrano, non ci sono moralistiche condanne o assoluzioni politiche: il personaggio viene denudato e visto come  è, ricercando una equità di visione così che anche lo spettatore possa lucidamente porsi di fronte ai personaggi. Fallace ed inutile è allora la ricerca di personaggi schiettamente positivi, anche perchè l'interesse di Visconti è maggiormente rivolto a personaggi discutibili, che sono anche migliore materia drammatica, vittime di illusioni o condizionamenti:

sul piano generale debbo dire che i cosiddetti "personaggi positivi" dei miei film hanno uno sviluppo relativamente limitato perchè io preferisco sempre raccontare le sconfitte, descrivere le vittime, i destini schiacciati dalla realtà.

      (34)

         La libertà che Visconti concede ai personaggi si riflette in quella che lascia agli stessi spettatori, ai quali non trasmette chiaramente un messaggio politico, non dà indicazioni ideologiche; le sue opinioni politiche sono espresse altrove, in scritti o dichiarazioni paralleli alla sua attività artistica, la quale si rifiuta categoricamente di essere propagandistica perchè gli intenti politici finirebbero col soffocare e falsare i ritratti umani che costituiscono il centro di interesse della sua opera.
         In Senso la critica ha preteso di riconoscere nel 'positivo' marchese Ussoni, nobile e rivoluzionario, il personaggio più vicino a Visconti. Ma questa figurina marginale e di contorno, non convince tutti. Alcuni critici pensano ad una identificazione con Livia e Franz, ma non senza accusare il regista di compiacimenti decadentistici. E' lo stesso film, con la sua melodrammatica teatralità, introdotta da quel bellissimo movimento di macchina iniziale che ci porta al di là della ribalta all'interno del melodramma, ad offirci la  giusta chiave di lettura. Senso, a dispetto di quanto risulta del progetto iniziale, non vuole raccontare il Risorgimento: lo fa occupandosi ossessivamente della esclusiva passione tra la nobile italiana ed il giovane ufficiale austriaco che, poi, si inserisce nel più vasto fallimento storico e sociale della battaglia di Custoza. Alla fine il film presenta delle ellissi dovute alla censura: Ussoni viene abbandonato sul campo di battaglia, ed è perso di vista dalla pellicola; tuttavia, questi tagli perfettamente si integrano all'atmosfera confusa di un finale che, con Ussoni, dimentica tutti gli ideali civili che questi rappresenta per guardare solo alla conclusione della storia tra Livia e Franz perchè, in fondo, anche Ussoni è agitato da illusioni prepotentemente romantiche, simili a quelle di Livia che passa da un acceso fervore rivoluzionario alla totale dipendenza dall'amante, un semplice trasferimento di passioni romantiche. In realtà, l'unico personaggio sufficientemente lucido è proprio Franz, il cinico profittatore, l'amante ingrato, l'ignobile traditore. Sorprendentemente è lui a conquistarsi un'aura 'positiva' che tutte le altre figure non hanno: ma non per questo Visconti 'è' Franz. Questi è solo cosciente di star vivendo la fine di un mondo che crollando li travolgerà tutti: egli ha quest'unica consapevolezza, che lo mette su un piano di superiorità rispetto a Livia (ciò che si traduce in un interessato rapporto di dipendenza e di sfruttamento della donna), ma si lascia con indifferenza e voluttà trascinare dal vortice. Il film somiglia a Livia: la soffocante ricchezza degli addobbi, la recitazione 'melodrammatica' e enfatica, la stessa fotografia che tinge le immagini di un colore interiore, quelle scene di battaglia, riprese a distanza, con maggiore attenzione al pittoricismo che emanano che alla loro evidenza ed incisività drammatiche, confermano che il film è Livia Serpieri. Nella straziante scena della rivelazione, Franz, con crudeltà e sadismo, le sbatte in faccia i resti delle sue ridicole illusioni. Ma questa nuova lucidità non è sufficiente a farla cambiare. Nei gironi infernali di Verona, ella sopprime con Franz la ragione del suo dolore: una conclusione comunque grottesca e melodrammatica che rivela come non ci sia stata vera evoluzione nel personaggio. Nel film, "il fato, il deus ex machina del melodramma, si trasforma [...] in una sorta di nemesi storica. Non vittime di un destino sono i due eroi: hanno scelto. Pagano con la distruzione la propria colpa morale (come individui) e storica (come esponenti di una classe in dissoluzione). Pagano per la loro impossibilità di mettersi in relazione con la storia" (35). 

A TEATRO.
         Nell'immediato dopoguerra, con ancora parte dell'Italia occupata, in seguito ad un periodo di attività nella Resistenza che Visconti considera il più bello della sua vita, nell'impossibilità di tornare all'attività cinematografica e in seguito all'offerta del produttore Riccardo Gualino, Luchino Visconti esordisce alla regia teatrale con I parenti terribili, del suo amico Jean Cocteau.

Io non avevo una preparazione adeguata, cioè non avevo mai fatto l'assistente in teatro, per esempio. Avevo fatto semplicemente Ossessione per conto mio; prima ero stato assistente di Renoir per un breve film.

 (36)

Ed è proprio sulla scorta di questa precedente esperienza che Visconti inaugura la sua attività teatrale: perchè con I parenti terribili egli sembra tradurre per il palcoscenico e trasferirvi tutti i presupposti teorici e pratici sperimentati con Ossessione. Come con la Calamai, Visconti stravolge il personaggio di Andreina Pagnani che risultava dalla sedimentazione dei ruoli interpretati in precedenza e da vecchie abitudini per scavare e scoprirvi la verità di Yvonne (37), costrigendo l'attrice ad imbruttirsi, rinunciare al cerone per esaltare tutta l'espressività del volto e rendere con maggiore evidenza la spossatezza fisica e morale del personaggio drogato e consunto, con risultati di tale efficacia da sorprendere la critica e il pubblico, travolto dalla verità ed intensità di tutto lo spettacolo.
         Contrariamente alle abitudini del tempo, Visconti interviene a riordinare l'assetto interno della compagnia nella distribuzione dei ruoli privando la già affermata Rina Morelli della parte della seconda donna -Leo nel testo- per cederlo a Lola Braccini, lasciandole quello di Maddalena, a lei più adatto anche per semplici ragioni anagrafiche.
         La messinscena e la recitazione vengono semplificate e portate "su un piano di verità e di realismo" (38) inusitati e di tale impatto sul pubblico da provocare l'invasione del palcoscenico alla fine delle rappresentazioni. Come testimonia Mario Chiari, lo scenografo: "il successo fu incredibile. Dalle scalette dell'Eliseo la gente salì ed occupò il palcoscenico. Stettero lì delle ore, non se n'andavano più. Le signore toccavano le stoffe, il tessuto del letto, per sentire com'era fatto, aprivano gli armadi che erano pieni di roba" (39). Gli spettatori, catturati e coinvolti dallo spettacolo, sono trascinati fisicamente sul palco, richiamati da esso e travolgono la scena per andare a trovare, vedere, capire i personaggi nel loro mondo. Visconti aveva optato per una fedele restituzione dei morbosi e complessi rapporti familiari che il testo di Cocteau con abilità ed ironia mette in luce, illustrando e motivando psicologicamente ogni battuta, con una "minuziosa ed attentissima regia di ascendenza cinematografica" (40) che privava la recitazione di qualsiasi tipo di enfasi teatralizzante, ambientando l'azione in una scenografia improntata anch'essa ad un estremo realismo. E' uno spettacolo che bandisce, come Ossessione, ogni forma di gratuita evasione per concentrarsi sulla verità dei rapporti psicologici che legano i personaggi (e il testo di Cocteau si presta meravigliosamente), resi con drammatica veemenza. I parenti terribili rompe decisamente con la precedente tradizione e pratica teatrale,e in un tempo in cui il teatro è ancora considerato "bella finzione" (41), Visconti vi trasporta di peso la verità con un notevole impatto emotivo ed innovativo:

sentivo chiaramente l'usura di una certa formula, e mi sembrava che fosse tempo di prodursi in prove impegnate, ma fu solamente dopo I parenti terribili che mi resi conto che valeva la pena di continuare [...]. Ho cercato di condurre gli attori a una prestazione precisa, a una  maggiore verità, e inoltre ho voluto un'atmosfera di maggiore verità attorno a essi [...], volevo che tutto fosse rigorosamente esatto, la scena come l'interpretazione.

(42)

Visconti sente l'esigenza di sbarazzarsi di tutti gli errori di una pratica teatrale degenerata e sterile, smantellare gli edifici fatiscenti della consuetudine e minati da vecchie incancrenite abitudini, luoghi comuni inutili ed inespressivi: bisogna togliere di mezzo quei "cadaveri che si ostinano a credersi vivi" (43), continuando a teatro la sua attività riformatrice.

         Ma ciò che più di tutto Visconti afferma, e conferma in ogni successiva espressione spettacolare, è la centralità e univocità del punto di vista registico, che si impone al di sopra di ogni abitudine e logica preesistente per guidare lo spettacolo e informarne ogni parte. Il regista crea uno spettacolo in conformità alla sua personale idea del soggetto o del testo e dei personaggi: Visconti, in effetti, sia a teatro che al cinema, introduce una sintassi spettacolare moderna, organica e coerente, per la quale ogni singolo momento dell lavoro si rispecchia e si inserisce espressivamente in un disegno complessivo. Lo spettacolo non è più semplicemente concertato dal regista secondo criteri di eleganza ed armonia, ma diventa una sua personale espressione artistica perchè è lui ad averne la completa responsabilità. Essa si manifesta attraverso la maggiore o minore risonanza data agli elementi presenti nel testo che ne altera significativamente gli interni equilibri, ed ha la precedenza sulle esigenze e le letture degli attori. I personaggi, in sede di prova, vengono ricondotti, con un lavoro di razionale convincimento, a questa visione conclusiva così da potersi in essa perfettamente inserire.
         Vi è una sostanziale indifferenza, spesso da Visconti ribadita, tra forma cinematografica e teatrale, in quanto entrambe, semplicemente, sono la personale 'espressione' del regista che, di volta in volta,  affronta ed adopera linguaggi differenti non disdegnando affatto le ibridazioni.

So ciò che a volte si dice, che i miei film sono un po' teatrali e il mio teatro un po' cinematografico. Non vedo nessun inconveniente in ciò, tutti i mezzi sono buoni. Non credo che il teatro debba rifiutare questi mezzi se gli vengono in aiuto, nè credo che il cinema a maggior ragione debba rifiutarli, se questi mezzi gli servono.

  (44)

Sono tutti mezzi espressivi di cui il regista dispone e tramite i quali egli può meglio tramettere il suo pensiero, per una complessiva più efficace resa spettacolare. In questo senso intervengono i vari riferimenti culturali reperibili nei film viscontiani, siano essi di natura pittorica o musicale o letteraria o altra, sfruttati per approfondire o suggerire una chiave di lettura o un aspetto della psicologia di un personaggio, integrandosi con il contesto senza imporsi disorganicamente. La permeabilità del lavoro viscontiano ad influssi avventizi presenta numerosi esempi: è il caso, per citarne uno macroscopico, de La terra trema in cui l'estrema teatralità dei gesti e l'artificiosità delle inquadrature contraddice l'impostazione neorealistica di base, portando ad suo un completo superamento. Andando là dove il Neorealismo non aveva mai osato giungere (l'uso di attori presi sul posto, la ripresa negli effettivi luoghi dell'azione, il ricorso alla presa diretta e al dialetto vero del luogo nella sua integralità e non italianizzato, l'improvvisazione  quotidiana dei dialoghi e della sceneggiatura, sull'ossatura verghiana imprescindibile e corroborata dalla attualizzazione), fa esplodere la logica neorealistica e la tendenza documentaristica per arrivare alla sua completa contraddizione (45). Perchè è proprio nella ieraticità dei gesti, nella eleganza e nella forza del taglio delle inquadrature, nella violenza del costrasto del bianco e nero, nell'uso stesso di un dialetto pressochè incompresibile ("in vero siciliano che è come il greco: non se ne capisce niente") che il messaggio rivoluzionario viene veramente espresso in tutta la sua potenza. Il ritmo del film "dà il tono religioso e fatale dell'antica tragedia a questa umile vicenda della vita d'ogni giorno, a questo [...] brano di <<cronaca>> paesana" (46). E' la teatralità dell'insieme a trasformare, con una metafora che ha anche una sua validità poetica, le reali condizioni di vita dei pescatori di Aci Trezza in una tragedia atemporale, classica, ma in cui il fato, come sempre in Visconti, è determinato da uomini, che qui impongono ingiustamente insopportabili condizioni di vita. La scoperta e la consapevolezza di questa verità (l' "accorgersi che non si sta bene e che si potrebbe star meglio" [47]) è la premessa ad un cambiamento, fuori campo rispetto al contenuto effettivo del film che forse lo annuncia o ne mostra l'incipit, il quale altererà una situazione di oppressione ormai senza tempo e farà realmente 'tremare la terra'. Il secondo film di Visconti, non a caso segue l'esperienza teatrale del triennio 1945-1947, un tirocinio che ha affinato sensibilmente le qualità espressive viscontiane (48).
         I parenti terribili prosegue negli intenti e nei modi il discorso iniziato con Ossessione e dimostra come non vi siano fratture tra l'attività cinematografica e quella teatrale di Visconti: la recitazione è orientata nello stesso senso e vi è la medesima esasperazione realistica dei personaggi e delle situazioni; i due lavori approfondiscono similmente i condizionamenti di un ambiente, vincolante lo sviluppo drammatico, sensuale ed opprimente, che è perfettamente reso da uno spettacolo "antropomorfico" che affronta temi scabrosi e nuovi perseguendo un comune intento traumatizzante e catartico nei confronti del pubblico.  
        
In tutti i campi, Visconti lavora ad una complessiva definizione ed affermazione della "regia", della posizione determinante  del regista in quando mente dirigente lo spettacolo. Anche per questo, è forse meglio definire visconti "autore di spettacoli", una formula, mutuata da Marinucci (49), che compendia la molteplicità espressiva viscontiana; allora, invece di parlare dei suoi film o delle sue regie teatrali di prosa o liriche, per i tratti comuni conviene forse parlare degli 'spettacoli', in senso lato, di Visconti.

Mi interessa soprattutto lavorare con esseri umani, cercare nel fondo di un'anima la verità che essa tenta di esprimere: quella dell'autore, quella dei personaggi, degli attori che li interpretano, del pubblico. E' per questo che mi è indifferente curare una regia teatrale o cinematografica. Non dipende dalla mia scelta il passaggio da una forma d'espressione aal'altra. Prendo ciò che viene. Resta inteso, comunque, che il cinema è  una creazione, il teatro soltanto un'interpretazione.

  (50)

         Se sostanziale è l'indifferenza di Visconti per la forma di comunicazione utilizzata, allora è comprensibile come tutte convergano in quella da lui prediletta: il melodramma. Egli lo considera, nella forma ottocentesca ed italiana, come la summa delle manifestazioni spettacolari, compendio di elementi audiovisivi, sonori ed iconografici rafforzantesi vicendevolmente per meglio comunicare con lo spettatore essendo la "forma più completa di spettacolo" (51).

Verdi ed il melodramma italiano sono stati il mio primo amore. Quasi tutto il mio lavoro, si tratti di film o di regie teatrali, esala una certa polvere di melodramma. E questo mi è stato rimproverato, ma per me è un complimento. (52)

Il melodramma per Visconti condensa espressivamente lo spettacolo e la vita: qualcosa in più di una semplice registrazione di fatti, esso permette l'esaltazione dei contenuti emotivi di gesti e parole e li rende spettacolo. Visconti ha sempre utilizzato questo modo di procedere, "enfatizzando" il contenuto emotivo dei singoli momenti dei suoi lavori perchè lo spettacolo è per lui, sin da Ossessione, sottolineatura significativa ed espressiva, drammatizzazione: "amo il melodramma perchè si situa proprio ai confini della vita e del teatro" (53): attraverso esso, appunto, la vita può diventare spettacolo. In questa tendenza spettacolare, il melodramma finisce per avere una valenza quasi espressionistica, in un autore che si è sempre dichiarato restio ad accettare le innovazioni delle avanguardie per rivolgersi a forme narrative più classiche, ottocentesche (ma aggiornate proprio tramite apporti dalle ricerche espressive più recenti, inglobate e non accettate in toto, diventate solo strumento per un potenziamento dell'efficacia comunicativa complessiva): la musica commenta e rafforza il contenuto delle immagini e delle parole amplificandone, accentuandone il senso con una convergenza che arriva talvolta a deformare il dato realistico per  eccedenza di preganza significativa. L'oggettività di base dei lavori viscontiani passa infatti per una forte soggettività espressiva, il ricorso ad espedienti di disparata provenienza per evidenziare e trasmettere il contenuto dello spettacolo, ciò che non permette a Visconti di attenersi alla semplice registrazione di fatti, ma lo porta automaticamente, a farne spettacolo, melodramma.
         A volte la forma melodrammatica prevale e si impone come struttura portante; soprattutto in Senso dove questi stilemi si affermano e rendono il film un vero e proprio melodramma cinematografico, assecondando però esigenze estetiche dettate dall'opera e non dal semplice capriccio del regista.

Non so perchè la critica non vuole ancora riconoscera la mia libertà. [...] Rivendico la mia libertà che non è limitata. [...] La verità è che io ubbidisco solo a tre direttive. Stabilire una verità filologica storica e drammatica e cercare di raggiungere questo ideale di spettacolo completo che è il melodramma.

 (54)

         Il presupposto antropomorfico degli spettacoli viscontiani comporta una notevole varietà stilistica poichè lo stesso stile non può indifferentemente adattarsi a tutti i soggetti: Vaghe stelle dell'Orsa..., ad esempio, film immediatamente successivo al Gattopardo, non ha stilisticamente niente da spartire con questo:

ogni film presenta problemi diversi. Tratti una materia diversa, racconti una storia diversa. Il problema dello stile nasce dalla storia, dalla sua realizzazione per lo schermo.

(55)

E' forse ciò che ha dato l'immagine di un Visconti spesso in apparente contraddizione, quindi di difficile catalogazione (56). Ma è esattamente ciò da cui egli rifugge, e le ragioni sono già tutte nei suoi intenti di rinnovamento culturale, nella necessità dell'abolizione di vecchie formule. Se la varietà stilistica è direttamente conseguente dalla  scelta dei temi, essa è anche collegata alla necessità di una costante revisione delle proprie qualità espressive, di una continua rimessa in discussione di se, perchè ogni formula, anche se inizialmente innovativa, diventa per l'usura presto inefficace ed inutilizzabile.
         Così anche l'estremo realismo a teatro o il neorealismo al cinema non sono per Visconti che espedienti e momenti espressivi transitori e non vincolanti, legati ad una precisa situazione storica, necessari per un'adeguata resa di determinati spettacoli.A lungo, per la critica, il suo abbandono del neorealismo è stato traumatico, inaccettabile perchè non sembravano esistere alternative possibili. Ma il cinema di Visconti dal punto di vista dello stile non ha in effetti avuto mai niente da spartire con la pretesa oggettività documentaristica del neorealismo canonico, nella sua accezione rosselliniana, avendone però indicato con Ossessione l'approccio tecnico-stilistico alla realtà: si è trattato, come Visconti stesso ha osservato, soprattutto di una comunanza di contenuti, dettati dall'esigenza del momento storico (57).

Nella mia personale esperienza di regista, la ricerca di una verace documentazione della realtà che si sostituisse al convenzionale posticcio ha soddisfatto il bisogno di una libera creazione artistica in un momento in cui il cinema doveva attenersi ad un ricettario al quale lo stesso pubblico aveva finito con l'assuefarsi.

 (58)

Il suo interesse si è in seguito orientato diversamente ma allora corrispondeva al bisogno, sentito da tutti e necessario dopo un ventennio di regime fascista, di guardare chiaramente e lucidamente in faccia la realtà. "Ossessione, tanto per il contenuto quanto per lo stile aveva provocato una specie di choc, soprattutto perchè in quel momento nessuno avrebbe potuto o voluto abbordare temi del genere" (59). Uno choc salutare, e tipicamente viscontiano, ripetuto anche nella scelta dei testi e delle tematiche affrontate dalla immediatamente successiva esperienza teatrale.
        
Bellissima è tratto da un soggetto di Cesare Zavattini, abituale musa neorealistica desichiana, che serve a Visconti solo come scusa per lavorare finalmente con la Magnani, attrice amatissima originariamente scritturata per Ossessione. Rispetto al soggetto oiginale, Visconti si prende molte libertà per comporre "il ritratto di una madre", ma anche, e soprattutto, per farne "un pretesto per una certa attrice" e infatti "l'obbiettivo era puntato più su di lei che su tutto il resto" (60). Il discorso sviluppato attorno alla Magnani, di cui sfrutta le immense doti di attrice, è centrato sulla duplicità e l'ambiguità, sull'opposizione tra realtà e finzione, sulla menzogna, legato al ricorrente tema viscostiano della scoperta della vanità delle proprie illusioni nella conquista della lucidità, che per il personaggio interpretato dalla Magnani diventa la finale "consapevolezza di aver amato male la sua bambina" (61). Il film è costruito sulla personalità di Maddalena, in bilico tra le legittime aspirazioni e vanità di madre e le frustrate ambizioni di attrice che si riflettono deformate sulla figlia e che la costringono a torturarla con amore ed in completa buona fede. Ma anche sulla sua doppiezza, sulla volontà di sfruttare a suo vantaggio tutte le circostanze (le punture, lo stesso personaggio di Chiari che viene da lei 'raggirato') con cinismo ed interesse; soprattutto sulla sua grottesca incapacità a vedere l'illusorietà delle sue pretese che mina internamente la dimostrata capacità di muoversi su un piano di profonda concreta consapevolezza nel mondo circostante, la quale diventa soltanto il mezzo per alimentare ulteriormente il sogno. Si tratta di un personaggio in perpetua contraddizione, costruito secondo una struttura binaria (62) che denuncia una certa schizofrenia, e che si riflette e ripropone nelle antinomie dell'intero film ed è pienamente esaltata dall'ambientazione a Cinecittà vista come il gigantesco set di una menzogna massificata, zeppa di finti fondali ed infestata da personaggi dubbi e sospetti, un universo precario e discutibile animato da figure quasi felliniane (l'attrice, l'attempata ballerina). E' il film di Visconti che maggiormente si avvicina alla commedia, per mezzo di una feroce ironia e di un acceso gusto per il grottesco che assume tratti caricaturali.
          Cinecittà è la capitale dei sogni di Maddalena che, letteralmente, vive nel cinema, per vocazione e perchè lo schermo nel cortile del suo palazzo è sempre visibile e le voci degli attori risuonano ossessivamente in tutta la casa. Non vi è da parte di Visconti nessun narcisistico compiacimento nè tentazione metacinematografica nel penetrare al mecca italiana del cinema; lo stesso cinema "dall'inizio alla fine, è guardato da un'angolazione di acuta ed inesorabile demistificazione, dei suoi protagonisti, dei suoi servitori, dei suoi sudditi, del suo regno" (63) così da meglio evidenziare la patetica cecità di Maddalena.
         Nella prolungata scena del pianto (iniziato dalla bambina nel provino e continuato dalla commozione della madre, amplificato attraverso lo scherno e riso di Blasetti e dei suoi collaboratori) nella cabina di proiezione, che prosegue nella sequenza sulla panchina davanti alla giostra, la donna acquista la conclusiva consapevolezza della irrealizzabilità del proprio sogno e della sofferenza ed umiliazione inflitte alla figlia. Maria, in effetti, è il fulcro psicologico sottinteso di tutta la storia: Visconti lo evidenzia in due momenti che ritaglia per lei, due silenziosi carrelli che vanno a cogliere la vera condizione della bambina, l'angoscia e la solitudine provate, e dovute alla madre. Sono i due soli momenti realmente 'viscontiani', che indagano in profondità la psicologia della figlia di Maddalena in un film dall'apparenza neorealistica, un 'falso' che anche stilisticamente riafferma il motivo dominante: la duplicità. Questa è esemplificata dalla scena a casa dei Cecconi, costruita su un forte crescendo che termina nella drammatica sequenza delle percosse a Maddalena da parte del marito. La scena continua con il conseguente accorrere delle donne del palazzo in difesa di Maddalena e lo sfogo di questa, picchiata ed oppressa, offesa dall'ingratitudine dell'uomo, che si conclude con la finale estromissione del marito ed il ritorno della bambina tra le braccia di Maddalena e la sorpresa della soddisfazione della donna che rivela di aver finto tutto, interpretato astutamente e perfettamente la parte della moglie umiliata per continuare imperterrita nei suoi intenti, in una sorta di congiura femminile di cui sono state complici le altre donne: Visconti fa bruscamente crollare la tensione costruita con apparente sincerità in tutta la scena, sconfessandola alla fine e mostrandone la vera natura di mistificazione registica:  una finta 'scena madre', in realtà un pezzo di puro virtuosismo attoriale per Maddalena-Magnani. Infatti è proprio nella capacità e vanità di attrice mai realizzata che si situa il motore del film, il quale si regge sulla stessa duplice recitazione della magnifica Magnani, attrice ed interprete di una donna anch'essa 'attrice', che è di una tale intensità e verità da lasciare sempre nel dubbio che non stia realmente recitando, aumentando così ancor di più i margini dell'ambiguità (64).
    
Bellissima viene distribuito pressappoco nel momento in cui si consuma la disfatta economica e si annuncia l'estinzione del movimento cinematografico neorealista, in seguito al completo fallimento di Umberto D, ciò che segnala un prepotente cambiamento nei gusti e negli interessi del pubblico a dispetto delle aspettative e pretese della critica. Con un soggetto, un'attrice, uno stile apperentemente neorealistico, Visconti chiude gli ultimi conti ancora aperti con il movimento. Perchè nel film è implicita una severa critica all'apparenza neorealistica di molti film coevi, alla degenerazione in formula commerciale, sterilmente stereotipata a Cinecittà, degli intenti originali. Una forte denuncia di una falsità (quindi duplicità e menzogna di base), dell'ipocrisia di un'industria che maschera e spaccia la fasificazione per verità, con ignobile opportunismo. Ai tempi già polemici nei confronti del neorealismo de La terra trema, egli si era lamentato del fatto che "la ricerca legittima di certi temi, una posizione morale nei confronti della vita passassero silenziosamente a compromessi di comodo" (65), si arenassero dietro la facilità della ripetizione, perdendo l'impulso indagatore e critico che invece Visconti non abbandonerà mai, pur allontanadosi formalmente dal neorealismo, per ritrovare, indipendentemente, la vera e più intima essenza del suo cinema, dello 'spettacolo' viscontiano, che denota un impegno costante e comunque valido, non vincolato a ricette o schemi esterni:

io parlo più di realismo che di neorealismo. Noi dobbiamo porci in un'attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita: in un atteggiamento, insomma, che ci consente di vedere con occhio limpido, critico, la società così come è oggi, e raccontare [anche attraverso metafore storiche] fatti che di questa società sono parte".

(66)

         Attraverso Bellissima e la stessa Magnani è possibile istituire un ennesimo nesso con Jean Renoir con la novità, questa volta, che il percorso dell'influenza sembra orientato in senso inverso e andare da Visconti a Renoir. Nel 1952, questi gira Le carrosse d'or, da Le Carrosse du Saint-Sacrement di Prosper Mérimée, con Anna Magnani. Ed è un film, come Bellissima, imperniato sul rapporto tra menzogna e verità, attraverso la commedia dell'Arte e la confusione tra la realtà e la mistificazione, la donna e il personaggio. La Magnani vi interpreta la duplice parte di Camilla e Colombina, il suo personaggio nell'Arte: ancora un ruolo doppio, di attrice riconosciuta e realizzata in questo  caso, ma in cui comunque si mescolano i limiti della finzione e della recitazione con quelli della sincerità. Una storia che secondo lo stesso Renoir poteva essere intitolata "la comédienne, le théâtre et la vie" (67), dove il teatro prende il posto del cinema e inserisce tutto il film in una complessiva finzione teatrale esibita. Sono analogie con Bellissima che non lasciano dubbi sulla sua discendenza da Visconti il quale aveva già lavorato ad un suo personale adattamento del testo francese (che figura anche tra progetti da mettere in scena a teatro) a cui "collaborarono Suso Cecchi D'Amico, Antonio Pietrangeli e Franco Zeffirelli- e forse anche Pietro Tellini e Renzo Avanzo" (68) che ritroviamo nei credits del film di Renoir come co-sceneggiatore. Allora non sorprende scoprire tra i membri della troupe fedeli collaboratori di Visconti: Mario Chiari per le scenografie e Mario Serandrei al montaggio. "Regalando" il suo progetto a Renoir, Visconti intende forse risarcire quel debito ancora aperto dai tempi di Ossessione e di Cain.

Le début du Carrosse d'or nous présente en effet un rideau qui se lève sur un second rideau qui se lève à son tour, sur un escalier à trois paiers, l'entresol n'étant rien d'autre que la scène du théatre. Nous sommes à ce moment spectateurs de théatre. Un travelling nous entraine de notre fautuil sur la scène [...]. Alors seulement nous sommes au cinéma.

 (69)

E' difficile non pensare al movimento di macchina iniziale di Senso: un carrello su un dolly che porta all'interno del palcoscenico, invertendo il punto di vista iniziale e trasformando il cinema in teatro, in melodramma, così come Renoir aveva, al contrario, immesso il cinema nel teatro. E' una somiglianza che comunque, come sempre, Visconti perfettamente integra al film, ma che testimonia ulteriormente del profondo rapporto di vicinanza con il regista francese.
         Senso ed il personaggio di Livia, sono forse la più forte espressione del bovarismo in Visconti. La contessa Serpieri è molto somigliante ad Emma Bovary, vittime entrambe di luoghi comuni romantici che trasformano e falsificano grottescamente la loro vita. Il discorso viscontiano sulla necessità di una piena consapevolezza dei condizionamenti esterni si conferma e corrobora nella somiglianza del film con il romanzo, il ritratto di una inconsapevole e ridicola vittima 'predestinata'. Inoltre, per la ripetizione nella storia di Livia della esperienza vissuta di Visconti, anch'egli potrebbe dire, parafrasando Flaubert, che "Livia c'est moi", o meglio, "c'était moi"; l'identificazione, comunque parziale, non annulla la critica al personaggio, ma, anzi, la amplifica.
         Scorrendo la filmografia di Renoir, scopriamo che nel 1933, subito prima di Toni, egli filma il romanzo di Flaubert in cui realizza una precisa e minuziosa ricostruzione del periodo, "de la privince francaise de 1850, étonnante de vérité.
Décors, costumes, dialogues, tout sonne admirablement juste. Ce n'est pourtant pas le réalisme qui a guidé ici Renoir, mais au contraire une recherche constante de <<théâtralité>>: chacun joue ici un rôle, campe un personnage, et Emma Bovary apparaît comme une sorte de victime de ses propres illusion" (70). Senso sembra quindi riprendere moltissimo dal film di Renoir, la verità dell'ambientazione storica e psicologica, la stessa tematica viscontiana della soccombenza alle proprie sbagliate illusioni. Anche la melodrammaticità di una recitazione enfatica sembra ripetere l'esempio di Renoir che ha diretto gli attori "dans le sens d'une certaine surenchère d'expressivité" (71). Bazin, analizzando il film, lo avvicina al Carrosse d'or per la stessa confusione tra finzione e realtà; "pour Renoir, le bovarisme n'est qu'une des forme de l'incertitude que formulera plus tard Camilla: <<où commence la comédie? Où finit la vie?>>" (72), con la sola differenza che se in Camilla la recita, pur essendo un'abitudine che insidia la vita, rimane sostanzialmente consapevole mentre in Livia ed Emma essa diventa automatica ed istintiva, naturale conseguenza dei tempi e della loro personalità. "Mme Bovary est vraie, même dans le plus grand artifice, artificielle dans chacune de ces minutes de vérité" (73) perchè vi è una completa e pericolosa sovrapposizione tra il personaggio che credono di essere ed interpretano e la loro vera nascosta personalità. Emma non lo saprà forse mai; Livia, grazie a Franz, alla fine capisce. Ma anche lei non potrà non concludere la sua storia che con la morte, ovvero con una specie di vile e grottesco indiretto suicidio che le fa uccidere Franz ed urlare di dolore. Inoltre, Mme. Bovary "è tutta giocata in chiave operistica" (74), e Senso è un melodramma cinematografico. La "finzione" permette quindi di ricollegare Senso a Bellissima (passando per l'episodio di Siamo donne in cui la Magnani si 'smaschera' per una ancor migliore  identificazione col personaggio e raggiungerne la più completa verità) tramite Renoir e Le carrosse d'or (75).

"COCTEAU-VISCONTI".
         Il teatro è  per Visconti un importante veicolo per offrire al pubblico testi, interessanti per la loro validità poetica o semplicemente per le tematiche affrontate. Le scelte della prima stagione  teatrale viscontiana rispondono soprattutto a questo secondo tipo di esigenze, poichè la gamma dei temi scelti, spesso nuovi e scabrosi e trattati con violenta verità, è vasta e polemica, e punta sostanzialmente al rinnovamento dei repertori delle compagnie attraverso testi sempre inediti per l'Italia, che diventano anche il veicolo per regie innovative. La volontà di rottura da tutte le consuetudini precedenti è molto forte in questo periodo, e continua l'impatto di Ossessione, il bisogno di sottoporre ad uno choc il pubblico intellettualmente intorpidito dal fascismo con testi 'immorali', provocatori e spesso sconcertanti perchè "se si fa qualche cosa, bisogna non dico dar fastidio, ma per lo meno buttare un sasso in mezzo a uno stagno, in mezzo a delle acque stagnanti, smuoverle queste acque" (76). La scelta dei testi voleva anche allentare le restrizioni della censura per cercare di arginare la chiusura culturale dell'Italia, aggiornandola e mettendola al passo con i tempi e con le produzioni straniere, soprattutto sui versanti francese e americano.
         I Parenti terribili è un testo importante per l'emergere ed il mettersi a fuoco di elementi e tematiche in seguito ricorrenti, e che risponde completamente alle intenzioni traumatizzanti di Visconti affrontando l'imbarazzante argomento dell'incesto per mezzo dell'ironia di Cocteau, forse in parte cancellata dall'opprimente e travolgente realismo della messinscena. Come osserva Guerrieri, "I parenti terribili sono un manifesto: con questo doppio incesto, Luchino [...] entra nel teatro italiano. Non solo: ma nel bel mezzo della guerra, con urla familiari con un bisogno di affetti privati che in quei giorni era una bella audacia" (77). E' il primo lavoro in cui emerge il tema della famiglia, nella sua più tipica espressione corale (78). Quello del "carrozzone" è il primo dei nuclei familiari in dissoluzione che condensano in situazioni di privato sfacelo morale, nella dissolutezza dei suoi componenti, il più generale crollo degli equilibri sociali.

Quando non esiste la famiglia non esiste più nulla [...]. Fuori l'uomo, fuori la donna, la casa come nucleo familiare è diventata inesistente, con conseguente disordine di tutta la società.

 (79)

         All'interno della famiglia dei Parenti terribili sono riconoscibili rapporti di forza che la rendono un emblematico microcosmo sociale; l'unità familiare è infranta dalla lotta per il potere ed il dominio, dal gioco di allenaze e complotti capeggiati da Leo, dallo scontro tra i due opposti schieramenti che fanno rispettivamente capo a lei e ad Yvonne, baluardo, al contrario, del disordine, morale fisico e psicologico. Leo è da sempre la consapevole rappresentante delle forze dell'ordine, tacita guida della ruolotte, che nella battaglia rafforza le sue posizioni con l'introduzione in famiglia, al III atto, di Maddalena, altro caposaldo dell'ordine e della pulizia. Questo ha effetti devastanti sul pericolante equilibrio degli affetti familiari perchè la presenza di Maddalena, nella veste di duplice rivale di Yvonne nella passione per Michel e nel più confessabile ed ufficiale affetto per il marito (80), spodesta la donna dalla sua posizione privilegiata da cui si irradiava la viziata e soffocante atmosfera della casa. L'alleanza con Maddalena, che avrà fatali conseguenza sulla sorella, viene decisa da Leo alla fine del II atto, quando, abbastanza inaspettatamente, mantenendo comunque la sua incontrasata posizione demiurgica di fulcro ragionativo ed adulto della storia, la donna sceglie di cambiare campo, nel tentativo di non ripetere e perpetuare l'errore passato che l'aveva portata a sacrificarsi per amore di Georges riunendo disordine con disordine: la consapevalezza di aver allora sbagliato, unita al rimpianto di aver sprecato tutta la vita e mossa dall'ancor vitale amore per il marito di Yvonne, spinge Leo a lavorare per la finale affermazione del suo nuovo ordine nel carrozzone: nella battuta conclusiva, Leo manda via la donna di servizio: "je lui ai dit qu'ici elle n'avait rien à faire, que tout était en ordre" (81). La consueta distinzione viscontiana tra lucidità ed  inconsapevolezza si traduce perfettamente in Cocteau nella contrapposizione tra personaggi infantili ed adulti, nella dicotomia tra passione accecante e razionalità da cui consegue una ulteriore separazione, molto viscontiana, in vittime e carnefici. Le vittime in Visconti sono i personaggi infantili, ingenui e non lucidi che subiscono la sopraffazione emotiva di personaggi invece più consapevoli e cinici.  
        
La comunanza d'intenti tra Cocteau e Visconti, nel senso di una critica antiborghese, è affermata dalla riproduzione delle prefazioni alla pièce sul programma di sala delle rappresentazioni viscontiane. L'autore vi afferma di voler essere "peintre fidèle d'une socièté à la dérive" (82): le convenzioni e le appariscenti ipocrisie borghesi, diventano ridicoli, grottescamente vuoti luoghi comuni privi di qualsiasi senso e dignità nel disordine dominante che vorrebbero disperatamente nascondere ("Qu'est ce qu'une famille bourgeoise?
[...] C'est une famille riche, en ordre, avec des domestiques... Chez nous, pas d'argent pas d'ordre, pas de domestiques. [...] Mais les phrases et les principes tiennent bon. L'épave de la bourgeoisie" [83]).

         Cocteau dice di aver intenti anche artisticamente innovatori poichè dichiara di aver scritto un testo che, legandosi alla tradizione passata (di teatro borghese), cerca diverse vie d'espressione confondendo e rimescolando artificiosamentne topoi noti:

j'ai vuolu essayer ici un drame qui soit une comédie et dont le centre même serait un noeud de vaudeville si la marche des scènes et le mécanisme des personnages n'étaient dramatiques.

(84)

Questo atteggiamento sperimentale ed innovativo si trova confermato dalla seconda prefazione "écrite au théâtre" in cui Cocteau sostiene di ritenere "essentiel de changer les règle du jeu. Revenir en arrière est impossible. Mais renouer avec de subtils exemples est tentant" (85) in modo che il testo emerga nuovo da un diversa proporzione di vecchi ingredienti (86).
         Il passato è quindi un elemento attivo determinante per la costruzione del testo. Esso agisce però anche all'interno di questo come motivo conduttore del comportamento di Leo e, quindi, dell'intera azione del dramma. La rilettura lucida e razionale del passato tipica dei personaggi viscontiani trova nei Parenti terribili la prima chiara espressione con il personaggio di Leo. In lei, lo sguardo consapevole al passato  diventa il preludio al futuro che si prospetta allora più libero da tutti gli errori già commessi, più consapevole e che inizia con un diverso comportamento nel presente corretto, appunto, da una inedita comprensione del passato. E non a caso il tema del passato è associato alla famiglia e, soprattutto, all'incesto (che Cocteau ironicamente declina in tutte le sue sfumature nei Parenti terribili) inteso come esasperazione di un rapporto affettivo opprimente che rappresenta il culmine di un conservatorismo amoroso refrattario a qualsiasi influsso estraneo ed innovatore, terrificato dal cambiamento ed arenato nello statu quo, ripiegato ossessivamente e sterilmente su se stesso. L'incesto è una prigione di affetti e comportamenti che non accetta l'evoluzione, ma comporta una continua riconferma del passato: è l'espressione dell'incapacità di sfuggirgli, ed è questa staticità che Visconti critica come inaccettabile ostacolo allo sviluppo ed al futuro perchè è l'impossibilità di un rinnovamento e premessa certa alla decadenza. Ad indignare Visconti è la viltà implicita nell'incesto, il quale diventa di conseguenza il potente simbolo di una incapacità al cambiamento, del rifiuto del progresso, il sintomo di una colpevole assenza di sguardo critico. 
        
Dal punto di vista drammaturgico, l'incesto, essendo l'ultimo vero tabù rimasto, costituisce un valido pretesto narrativo perchè crea una situazione di estrema tensione morale e drammatica fortemente spettacolare.

E' un problema professionale, narrativo. L'amore felice, realizzato, non fa storia. [...] In una società come la nostra gli amori impossibili non esistono più [...]. L'unico tabù sessuale che sopravvive intatto è l'incesto [...] è il solo amore impossibile, maledetto, drammatico.

 (87)

Ma la ricorrenza di questo motivo in Visconti non è così semplicemente spiegabile perchè la sua ripetizione denoterebbe solamente una mancanza di fantasia creativa: l'incesto corrisponde invece soprattutto ad una esigenza di efficacia emblematica del rapporto con il passato ed i suoi condizionamenti, indica chiaramente l'incapacità di uscirne, di rifiutarli. La famiglia è l'ambiente (una microsocietà) in cui è più sensibile, nella presenza di ruoli e tradizioni invariabili, il peso vincolante e restrittivo del passato e in cui il discorso viscontiano sulla necessità di liberarsene essendone coscienti può più chiaramente emergere.
         Lo dimostra anche Vaghe stelle dell'Orsa..., che, ad un ventennio di distanza dalla prima incursione, costituisce un ritorno all'universo di Cocteau il cui influsso è molto più sensibile dei debiti riconosciuti dalla critica verso la tragedia di Elettra e il dannunziano Forse che sì forse che no. L'incesto, anche qui, si associa alla dissoluzione dell'universo familiare  (come avverrà anche in La caduta degli dei), alla perdita dell'unità nella divisione in due campi avversi (i figli, i 'genitori'), alla morte finale per avvelenamento del personaggio "disordinato", melodrammaticamente ed infantilmente voluta ma, alla fine, troppo tardi rifiutata. Il passato è ancora al centro della vicenda, parzialmente sotterrato e riscoperto nel procedere del film, costruito come un giallo, una ricerca dei delitti, dei colpevoli e della verità. L'ambientazione a Volterra aumenta il peso opprimente del tempo e dà tangibilmente il senso della morte cui Sandra condanna il fratello, come Leo la sorella, implicitamente inscritta nel loro ripudio del passato e del vecchio ordine: Sandra se ne deterge simbolicamente con un bianchissimo asciugamano mentre Gianni muore, scegliendo definitivamente la vita adulta ed il marito. Questi è l'unico personaggio 'positivo' del film, non coinvolto nella generale ambiguità (da cui trapelano cenni di una critica alla borghesia), l'estraneo, incapace però di svelare il mistero della famiglia (e con il queale il pubblico, per la struttura stessa del film, è costretto ad identificarsi), ma in realtà emarginato dal vero nucleo drammatico del film, il rapporto tra i due fratelli. E' un personaggio maltrattato e deriso dallo stesso Visconti, che gli fa tenere in mano una cinepresa superotto con la quale registra avvenimenti per lui incomprensibili. Il regista gli preferisce la crescente lucidità di Sandra, il vero personaggio viscontiano, che accompagna sino alla finale completa liberazione dalle maglie del passato:

la mia vera attenzione è stata rivolta alla coscienza di Sandra, al suo disagio morale, al suo impegno di capire: gli stessi tiranti che hanno mosso 'Ntoni, Livia, Rocco e il principe di Salina.

(88)

         Anche l'impostazione 'gialla' è forse derivata da Cocteau, più precisamente da La machine à écrire che Visconti mette in scena nell'ottobre 1945, a pochi mesi di distanza da I parenti terribili. La machine à écrire è costruito sulla ricerca della vera identità della misteriosa "macchina da scrivere" che terrorizza gli abitanti di una cittadina della provincia francese con missive rivelatrici dei segreti più compromettenti, innescando una serie di suicidi estremamente 'borghesi', dettati dalla incapacità di sopportare lo scandalo e la vergogna della verità. La scena, come in ogni giallo, è dominata da un poliziotto, taciturno osservatore di tutto, ma stanco del suo ruolo ufficiale e sempre più affascinato dal disordine criminale. Egli dirige dall'interno l'azione, smascherando i falsi colpevoli perchè, al contrario della comune logica poliziesca, quasi tutti i personaggi, per la loro puerile mania protagonistica, sono portati a confessarsi colpevoli pur non essendolo. Ovviamente, la vera macchina da scrivere è il personaggio più insospettabile, Solange, la castellana. Con lei si ripropone parte dell'ambiente dei Parenti terribili: come Maddalena, la donna, già promessa sposa di Didier, è l'amante del figlio, Massimo (un legame che risarcisce la rottura del rapporto con il padre e che allo stesso tempo punisce l'ostilità di Margot verso la donna), con una sovrapposizione del ruolo di amante e di madre, sottolineata anche dal fatto che Massimo è il compagno di giochi e di avventure di Claudio, il figlio di Solange, ed è stato proprio da questi portato in casa (89). La trama gialla, come anche in Vaghe stelle dell'Orsa..., non prevale e in realtà non interessa, dimostrandosi pretestuosa per un approfondimento della psicologia dei personaggi. Difatti la partizione del testo intitola i tre atti ai tre personaggi più importanti; il primo a "Margot", il secondo a Massimo ("La crise d'épilepsie") ed il terzo a Solange ("Le coupable"). Massimo è sdoppiato nel gemello Pascal, personaggio di tediosa banalità che rappresenta il suo lato più solare ed apparentemente chiaro (più borghese, anche nelle sue ipocrisie); la presenza dei due fratelli, di cui Margot, loro sorellastra adottiva, è puerilmente innamorata, serve a mostrare la riflessa schizofrenia della ragazza, personaggio non duplice ma molteplice, che vive nell'ombra ossessiva del ricordo della madre adottiva con pretese di drammaturgo e d'attrice che esaltano la sua natura infantile: Visconti l'ha giustamente resa "esasperata ed ansiosa" (90). Nel testo si riafferma la dialettica tra ordine e disordine, la distinzione dei personaggi in adulti e bambini tipica di Cocteau, e quella parallela e conseguente in personaggi lucidi o miopi, l'unico vero adulto della pièce essendo Fred, il poliziotto consapevole della sua posizione privilegiata di spettatore straniato, ma anche amante del disordine e animato dalla confessata ammirazione per "la macchina da scrivere", di cui vorrebbe diventare complice. Neanche Solange è sufficientemente lucida ed adulta, a dispetto della sua attività minatoria e disvelatrice delle mistificazioni altrui e delle sue velleità di emancipazione.  Anch'ella rimane vittima della stessa mentalità borghese che combatte con le lettere anonime per vendicarsi di un atteggiamento di critica e di condanna a lei rivolto. Solange sceglie alla fine la morte, gesto che la denuncia prigioniera di un comportamento e di una mentalità comuni: proprio come le sue vittime, la donna si suicida dopo che la sua personale inconfessabile verità è stata scoperta,  la "machine à écrire" essendosi rivolta contro di lei. Un finale da mélo che riconduce il dramma ed il personaggio entro stereotipi convenzionali, che impedisce l'attuazione del piano di fuga di Fred e afferma l'impossibillità di una completa evasione dalle costrizioni borghesi e l'essenza della loro sotterranea pericolosità. La Solange di Visconti è "complessa, intensa e sottile" (91) rivelando la presenza di vari piani nel personaggio. Se tutti e tre i protagonisti della pièce (Margot, Massimo, Solange) possono considerarsi 'attori' e legati ad una certa falsificazione, i diversi personggi in Solange si confondono. La sua età non le permette una finzione completa e narcisistica, ma sofferta; la realtà è in lei molto più radicata che negli altri due: è realmente innamorata, è realmente "la macchina da scrivere" e la sua vendetta ed il suo odio sono veri e forti: e pure di questa mancanza di scarto che impedisce il 'gioco' rimarrà vittima.
         Anche Margot e Massimo vorrebbero porsi al di fuori della convenzione borghese ma non riescono che ad essere conformi ai borghesissimi cliché dell'artista e del personaggio 'maledetto' (e i cui dialoghi sono infestati da luoghi comuni), con una totale frustrazione dei loro sogni di evasione sociale, cui risponde anche l'esigenza di dichiararsi colpevoli per distinguersi ed emergere veramente dalla norma. Una tendenza diffusa, che ha contagiato molti giovani (92) abitanti della cittadina che sognano tutti di interpretare il vistoso e privilegiato ruolo del colpevole per sfuggire alla soffocante banalità della provincia e sognare  "de vedette, de crimes, et de portraits en première page. 
Les têtes travaillent. Et on se voudrait coupable... Et comme il importe que le monde entier le sache, on se précipite chez le commissaire de police et on se constitue prisonnier" (93), lo scandalo diventando l'unica via per l'originalità. Per l'espressione di questa generale nevrosi, la regia di Visconti, sempre "limpida, coerente e ritmata" (94) diventa "esasperata frenesia" (95).
         Si ripete quindi anche nella Machine à écrire la critica alla borghesia dei Parenti terribili, forse più sottilmente sviluppata perchè non situata nella trama e in fondo nemmeno nella feroce invettiva finale di Solange, ma è insita nei personaggi che non riescono a divincolarsi, staccarsi realmente dai condizionamenti borghesi, diventati una inconscia ed inquietante forma mentis.
Cocteau dichiara infatti di aver voluto dipingere "la terrible province féodale d'avant la débâcle, province dont les vices et l'hypocrisie poussent les uns à se défendre mal et les autres  (la jeunesse romanesque) à devenir mythomanes" (96). E la dipendenza "feudale" che Cocteau vuole sottolineare è proprio l'impossibilità culturale di trovare reali alternative, una dipendenza psicologica inconsapevole. L'altra denuncia, tutta esterna, espressa a chiare lettere nel testo e per cui la provincia è "il mondo della feroce ipocrisia, il regno dello spietato farisaismo, il dominio delle false virtù che coprono i vizi più gretti e calcolati, la sentina di una segreta corruzione ammantata di rispettabilità" (97), insomma il paradiso della borghesia, è molto facile, in fondo lo è troppo, e serve all'autore più che altro da pretesto narrativo per motivare i comportamenti dei personaggi, ciò che permette alla critica di accusarlo di essere un "finto rivoluzionario" (98). Questo non impedisce comunque al testo di avere una sua potenza provocatoria esplicita tanto da scandalizzare parte del pubblico e da provocarne, durante la prima, il dissenso, e riscuotere un successo soltanto parziale. La sincerità delle affermazioni antiborghesi è indubbia in Visconti che ha calato l'azione (le scene sono da lui stesso disegnate) in un interno infernale e claustrofobico che sembra anticipare per certi elementi la successiva messinscena di A porte chiuse, pur richiamandone altri da I parenti terribili: "oscure e confuse stanze di soggiorno: rosso e celeste. Lampadari velati, un arredamento strascicato e sensuale, in stile, a tinte di fiamma e di cobalto. Chiusi e murati dall'esterno vi si divincolano e vi si macerano alcuni personaggi casuali di un'assopita e difforme cittadina della provincia francese. Basta lacerare tendaggi e alcove, la cenere del silenzio, per giungere ad un fuoco distruttore" (99). La messa a nudo del passato scabroso, del segreto nascosto gelosamente in seno alle famiglie, delle turpitudini  mai ammesse non può non piacere a Visconti che condivide gli intenti della "macchina da scrivere" e lavora nella stessa direzione. Anche Solange ha una finalità dinamitarda che cerca di rompere le apparenze per mostrare la verità creando salutare scompliglio con le denunce; ma nell'agire mantiene l'anonimato, con gratuita viltà terroristica, motivata dall'unica sete di vendetta che si traduce in una serie di omicidi indiretti,  finendo con il lasciare sostanzialmente inalterate le cose: "j'en voulais à toute la ville: A tous ces faux bonheurs, à toutes cesfausses piétés, à tuos ces faux luxes, à toute cette bourgeoisie hypocrite, égoïste, avare, inattaquable . J'ai voulu remouer cette boue, attaquer, démasquer, C'était un vertige! Sans me rendre compte, j'ai choisi l'arme la plus sale, la plus crapuleuse: la machine à écrire" (100). Questo la pone su di un piano di certa ma incompleta lucidità, che compromette il risultato effettivo del suo intervento. 
        
Accenni di metateatralità si ritrovano simili nei due testi di Cocteau messi in scena da Visconti, dove hanno la funzione di esplicitare con ironica efficacia aspetti della psicologia dei personaggi: Leo dei Parenti terribili si rivela essere regista ed  ottima attrice, ciò che denuncia la sua effettiva posizione (e l'ambiguità di questa)  all'interno dell'azione. Leo e Solange sono personaggi impuri la cui razionalità è pericolosamente incrinata da residui passionali romantici, da atteggiamenti stereotipati che finiscono col determinare il loro comportamento (101).
         Infine, nei due testi si ripropone uguale l'ambientazione familiare, con una esasperazione dei rapporti che è una costante viscontiana, assieme alla presenza di amori ossessivi dalla parvenza incestuosa:

i film che ho fatto raccontano spesso la storia di una famiglia, l'autodistruzione e il dissolvimento di quella famiglia. Racconto queste storie come se raccontassi un requiem perchè sento più giusto e congeniale narrare delle tragedie: nei miei film, i rapporti toccano il massimo grado di esasperazione possibile. I personaggi, per scelta propria o perchè costretti dalle circostanze, finiscono per trovarsi faccia a faccia con se stessi [...]. Essi sono soli. Senza speranza di poter cambiare in qualche modo la loro condizione. E spesso senza neppure il desiderio, la volontà di farlo.

(102)

L'esasperazione dei rapporti porta ad una crisi che mette in luce la verità e la necessità del cambiamento. Il ricorso alla famiglia ha solo intenti spettacolari e drammatizzanti perchè fornisce l'ambiente adatto ed immediatamente comprensibile, per lo sviluppo del discorso viscontiano che non contiene assolutamente nessuna critica all'istituzione familiare:

io parlo di tradimenti, è vero: parlo di nuclei malati e di lotte tribali. Ma nella speranza che queste cose non succedano più, che il simbolo della famiglia si rivaluti.

 (103)

Il suo amore per la famiglia è in fondo confermato dalla ossessiva attenzione che vi rivolge. Essa è l'ambiente ideale per i suoi racconti perchè è il primo momento di potente condizionamento dell'individuo, il primo limite alla sua libertà, un capitolo formativo vitale ed anche la base della struttura sociale: è l'essenza del discorso viscontiano che è contenuta nell'ambientazione familiare. La famiglia ha avuto per Visconti un'importanza notevole, sia per la forza dei legami affettivi, sia perchè l'educazione  ricevuta ha impresso su di lui tracce definitive che hanno contribuito a determinare positivamente il  suo carattere e la sua personalità, e di cui egli è assolutamente consapevole:

le mie storie sono queste, storie di gruppi familiari che stanno andando alla rovina. [...] Io amo raccontare delle tragedie, è vero. Amo raccontare di quando i rapporti si esasperano a un punto tale che non possono preludere a nulla di diverso. E però i ricordi personali non c'entrano, le influenze del passato non c'entrano. [...] La mia fu una famiglia talmente straordinaria. Eravamo e siamo tutti talmente legati, talmente uniti. [...] Erano giornate dure [quelle della sua infanzia e della sua educazione], certo. [...] E però ci hanno allenato a crescere vivi, non dei cialtroni aristocratici. [...] Io l'ho imparato lì ad essere rigoroso. Con me stesso e con gli altri.

 (104)

E' l'emblematicità dell'ambientazione familiare che lo interessa, le possibilità drammatiche e tragiche che essa gli offre. Perchè Visconti è sempre interessato ai momenti in cui le tensioni esplodono e si rendono visibili le cause della deflagrazione.

A me interessano sempre le situazioni estreme, i momenti in cui una tensione abnorme rivela la verità degli esseri umani,

(105)

una verità psicologica e storica, che cancella con violenza tutte le illusioni passate. Per questo le sue storie si situano tutte al crepuscolo, quando una forma passata sta concludendosi per dar vita ad una nuova, trasformarsi in un'altra diversa ma la cui natura è già scritta in quella vecchia. Sono i momenti di transizione dell'evoluzione, del trapasso, in cui per l'ultima volta brillano i motivi della morte,  che Visconti vuole registrare  per capirli, per chiarire; momenti di passaggio sia individuali che sociali,  momenti questi intersecantesi fra loro, riflessi emblematicamente l'uno nell'altro. Situazioni di crisi per eccellenza, in cui tutto è più comprensibile ed estremamente drammatico tanto da diventare dell'ottimo materiale spettacolare, secondo una concezione di spettacolo che intende penetrare con efficacia le più intime ragioni dei personaggi, spiegarle con lucidità ed onestà:

quello che mi interessa è proprio questo: raccontare dei nuclei sociali che si disgregano, e che, per qualche motivo, si trasformano e spariscono.

(106)

IL DITTICO ESISTENZIALISTA.
         Subito dopo la seconda messinscena da Cocteau, Visconti decide di rappresentare insieme due atti unici facendoli interpretare dagli stessi attori, la Compagnia Morelli-Stoppa. Per questo dittico, Visconti si rivolge una volta ancora alla Francia, a Jean Anouilh e Jean-Paul Sartre. Antigone e A porte chiuse vanno in scena all'Eliseo per la prima volta il 18 ottobre 1945, insieme, anche se non molto sembra in apparenza riunire i due testi.
         Anouilh trapianta la tragedia greca in un moderno elegante interno borghese dove si agitano personaggi che Visconti ha voluto freddi, a cui ha imposto una recitazione molto distaccata ed una eleganza tutta esteriore negli atteggiamenti, l'intera rappresentazione avendo l'aspetto di una recita esibita, della prova di uno spettacolo: gli attori, terminate le proprie battute, si siedono in disparte, su panche poste ai lati della scena. "La tragedia,  limpida e lineare, è tenuta su un tono squisitamente distaccato e letterario. La regia di Luchino Visconti, riducendo lo spettacolo sul piano di una lettura, [...] ha accentuato questo lato letterario svuotando di suggestione teatrale la rappresentazione. La recitazione volutamente fredda e monotonale ha completato il senso di agghiacciante distacco" (107). Vi è quindi un forte effetto di straniamento che si interpone tra la tragedia e lo spettatore  impedendogli di essere coinvolto. La Morelli (Antigone) esibisce "una recitazione volutamente atonale ed agghiacciante" (108) che sottolinea l'aspetto di finzione il cui risultato è un allontanamento della tragedia che diventa solo il soggetto di una recita borghese (cui fanno riferimento anche battute metateatrali del testo), la messa in scena a casa di una tragedia antica. La recitazione di Huis clos è invece totalmente coinvolgente, tesa, ambientata in un opprimente interno infernale, un'atmosfera soffocante e claustrofobica che si scontra con l'ariosa scenografia del primo atto. Nella pièce di Sartre gli attori sono perfettamente inseriti nelle loro parti, "la Morelli ha trovato alcuni tra i suoi più belli accenti vibrati, tutta contratta [...] nella diabolica perfidia dell'invertita. Vivi Gioi [...] è palpitante, piena di calore, convincente. Lo Stoppa ha reso il tormentato rovello del disertore con intensa e sincera sofferenza" (109). Un tipo di recitazione concitata e violenta, variata ma assolutamente realistica, dettata dal testo e contrastante con la continua freddezza dell'atto unico precedente: essa ha l'effetto di trasportare in pieno nel dramma di cui rafforza il lato tragico e lacerante, compensando in abbondanza la carenza emotiva di Antigone.
         Huis clos, presenta una situazione statica di eterna impasse in cui i personaggi continueranno a lacerarsi instancabilmente, come indica la ciclicità del testo; la protagonista di Anouilh consuma invece rapidamente la sua aspirazione tragica sino all'esito fatale, alle morti a ripetizione innescate dalla sua, che decimano la famiglia di Creonte e con le quali la pièce si placa e si conclude. Una impressionante sequela di morti che sono lo spropositato e imprevisto esito del gesto della ragazza, un gesto di cui tutto il testo mette il luce la gratuità e l'inutilità ma voluto dalla figlia dell'orgoglio di Edipo con imperterrita ostinazione. Anouilh fa di Creonte, il re tiranno, un personaggio certamente banale e mediocre, ma le cui ragioni "non appaiono nient'affatto più deboli di quelle d'Antigone" (110). Anzi, di fronte a lui, Antigone arriva quasi a capitolare ed abbandonare i suoi intenti suicidi per rassegnarsi al conformismo e alla vita, anche se alla fine i suoi impulsi iniziali riemergono e fanno precipitare la conclusione. Creonte diventa il polo di razionale lucidità del testo a cui si oppone l'immotivato e bizzoso comportamento della ragazza che in più occasioni afferma di non voler assolutamnetne capire: "je ne veux pas comprendre.
C'est bon pour vous. Moi je suis là pour autre chose que pour comprendre. Je suis là pour vous dire <<non>> et pour mourir" (111), compiere il ruolo scritto; nel confronto con lo zio, Antigone appare come una bambina che vuole ostinatamente i suoi pochi minuti di gloria come si può volere un giocattolo inutile (ancora, forse, un illuso "enfant terrible" alla Cocteau). D'Amico rileva infatti che vi sono "momenti in cui la sublime tenacia, interpretata con violenza stupendamente aggressiva da Rina Morelli, pare quasi stizzita cocciutaggine, puntiglio a vuoto e disumano" (112). E tutto porta ad alimentare nello spettatore un forte scetticismo nei confronti di Antigone, impegnata a recitare un ruolo più che viverlo e sentirlo veramente. La stessa attualizzazione del testo vanifica le possibilità di giustificarla in base a ragioni politiche o religiose facenti parte della giurisdizione della pòlis; Antigone è "del nostro tempo, senza vera fede religiosa, che non crede affatto all'efficacia spirituale della sepoltura di una salma [...] e non crede neppure a una vita al di là" (113). Il suo sacrificio sembra uno sproposito, l'incomprensibile risposta ad affetti mai dimostrati ed addirittura incerti, venati forse d'incesto. Il vero senso della scelta di Antigone, le sue motivazioni si sono esaurite col passare dei secoli. Il tempo ha spolpato la tragedia della sua essenza, lasciandone solo il palinsesto, la struttura generale in cui i personaggi cessano di inserirsi coerentemente, diventati solo ruoli in una recita. Il gesto di Antigone non trova nessuna giustificazione, sembra solo il pretesto per un'adolescenziale e romantica voglia di tragedia, una ferrea volontà di assoluto (114).
         Antigone è il personaggio tipicamente viscontiano, privo di lucidità, che soccombe nel vano tentativo di esaudire le proprie illusioni, senza rendersi veramente conto, se non alla fine, in quel mozzicone di messaggio dettato alla guardia, di aver sbagliato: al confronto con la squallida concretezza della guardia, la realtà della tragedia scende nella finzione ("je ne sais plus pourquoi je meurs. J'ai peur..." [115]). Creonte è invece il personaggio lucido, coerente e razionale, ma anche il crudele carnefice dei suoi affetti, vittima anch'egli del suo ruolo, di un lavoro che deve, comunque, nel migliore dei modi, esser svolto: Creonte è la mediocrità della vita, in opposizione all'eroicità della morte corteggiata e scelta da Antigone. Eppure una solitudine simile li riunisce (e quella di Creonte, a causa di Antigone, alla fine della tragedia sarà completa), la dedizione al rispettivo ruolo fa di entranbi delle vittime, sebbene la consapevolezza caratterizzi Creonte che "joue au jeu difficile de conduire les hommes.
[...] Il a laissé ses livres, ses objets, il a retroussé ses manches", svolgendo ogni giorno il suo dovere di re, "comme un ouvrier" (116).
        
La lettura 'viscontiana', che forse è la più probabile e che la stessa regia sembra avallare, è contraddetta da molte altre che fanno di Antigone un'eroina, e rendono difficile giudicarla, approvare o meno la sua condotta leggendovi santo eroismo o narcisistica stupidità; è in fondo la stessa costruzione della pièce a darle "le bon rôle" lasciando a Creonte quello brutto di carnefice.  Il punto di vista personale di Antigone, la sua ottica romantica le fa vedere in Creonte la medietà e la viltà del compromesso, la penosa ricerca della felicità, la vita ad ogni costo contro il suo sacrificio emblematico, ugualmente crudele.  Continuando in questa direzione, Antigone può diventare il simbolo della libera volontà che l'individuo oppone all'arbitrio della legge e dell'ordine in cui non si riconosce, una volontà che si afferma indipendente, sopra e contro ogni imposizione: è la lettura antitotalitaria del testo (che nellla pièce  è sostenuta, senza vera convinzione da Ismene, mentre Antigone dice chiaramente di non voler ragioni, di non averne bisogno), che molti hanno spiegato col fatto che fu scritto durante l'occupazione nazista in Francia. Ma la giustificazione ribellistica  di Antigone è inficiata dalla stessa dipendenza da pregiudizi romantici che vogliono il ribelle, l'oppositore, eroe ad ogni costo, e stona nel confronto con gli effetti devastanti che la sua morte comporta, la valanga di sangue sprecato che trascina con se. Il suo gesto, in fine, non cambia niente. E' una ribellione sterile, l'espressione di un egocentrismo protagonistico che afferma mancanza di lucidità, in cui la vendetta privata venata di sadomasochismo cancella ogni valenza rivoluzionaria tanto che Antigone finisce col rassomigliare alla Solange della Macchina da scrivere (117). In conclusione il coro commenta l'azione passata, osservando che "tous ceux qui avaient à mourir sont morts. Ceux qui croyaient une chose, et puis ceux qui croyaient le contraire -même ceux qui ne croyaient  rien et qui se sont trouvés pris dans l'histoire sans y rien comprendre. Morts pareils, tous, bien raides, biens inutiles, bien pourris. [...] Antigone est calmée maintenant, nous ne sauront jamais de quelle fièvre" (118). Il sacrificio insensato della ragazza afferma comunque l'autonomia dalla coscienza individuale che si impone scavalcando i pregiudizi degli 'altri', ciò che finisce col collegare Anouilh a Sartre.
         Ma quel che forse veramente riunisce i due testi, è l'impossibilità di prendere posizione pro o contro i suoi personaggi, l'affermazione della necessità di non farlo. In Huis clos, "l'infanticida", "il disertore", "l'invertita" sono personaggi negativi e condannabili, già dannati, vissuti e morti nella glorificazione del loro abietto egoismo. Anche all'inferno essi cercano di nascondersi gli uni agli altri, di mostrarsi migliori con ridicole controfigure con cui tentano di imbastire verità più clementi prima che il loro delitto venga alla luce. Essi, "ancora intrisi di sensualità e passione" (119), trascinano lo spettatore in mezzo ai loro scontri, nella lotta per il controllo del tormento sugli altri, ma impedendogli di scegliere un campo, senza possibilità di identificazione: nell'irreltà di Antigone o nell'iperrealismo violento di Huis clos, lo spettatore è costretto a sostare sulla soglia della scena da dove guarda svolgersi l'azione. Ed è appunto qui che emerge la  tesi sartriana sulla impossibilità di dare un giudizio, l'esigenza di superare il pregiudizio moralistico. "Ognuno ha le sue ragioni", diceva Renoir, ogni personaggio, ognuno di noi, ragioni che motivano il proprio comportamento, che non lo giustificano assolutamente ma cha devono esser note per capire veramente. A porte chiuse permette una visione post mortem delle scelte fatte e delle conseguenti azioni, ormai tutte concluse e rese inalterabili dalla morte stessa. I personaggi sono costretti a contemplare l'esaurirsi del proprio ricordo in terra e soffrire per l'invariabilità dei propri passati errori: anche Antigone farebbe parte di questa schiera dannata e vedrebbe chiaramente la fallace gratuità del suo gesto, capirebbe e ne soffrirebbe, senza poter più correggerlo. Forse la disposizione degli attori in Antigone accenna ad un'atmosfera vagamente processuale, che, calata nell'apparenza generale di 'prova', di finzione, diventa l'esame dell'attendibilità della recitazione della ragazza che interpreta Antigone, la sua non convincente adesione al personaggio. In Huis clos i personaggi sono posti tutti sullo stesso piano, senza gerarchie possibili, nella medesima condizione di indubbio colpevole il cui delitto si riflette nello sguardo, negli occhi degli altri (il tema della vista è, appunto, ricorrente nel testo), tutti infine consapevoli della propria e delle altrui colpe, vicendevoli carnefici proprio sulla scorta di questa lucidità. "L'enfer, c'est les Autres" (120), nel loro bisogno di giudicare, di semplificare, di emettere un'arbitraria condanna od assoluzione. A questa scoperta giungono i tre protagonisti. Essi sono indissolubilmente legati dalla necessità di riabilitare la propria immagine negli altri, di convincerli della propria innocenza per vedersi finalmente assolti e sentirsi tali: sino a quel momento la fuga è impossibile, sebbene il tormento che si infliggono sia proprio la continua incessante conferma della rispettiva colpevolezza. Inés è sin dall'inizio dei tre il personaggio più lucido, meno ipocritamente legato all'apparenza ("on ne damne jamais les gens pour rien" [121]) e che intuisce presto che "le bourreau c'est chacun de nous pour les deux autres" (122). Questa superiorità si traduce in violenza aggressiva verso i coinquilini di quell'inferno "second Empire", in cattiveria palese.
La donna, con compiaciuto sadismo, osserva: "je ne suis rien que le regard qui te voit, que cette pensée qui te pense. [...] Je vous vois, je vous vois; à moi seule je suis une foule" (123), l'intera umanità unita per accusarli e condannarli spietatamente. Gli altri, tutti gli altri sono l'inferno: perchè il loro sguardo accusatore è un'insostenibile tortura; perchè ogni giudizio formulato è un ingiusto freno imposto alla libertà individuale; perchè l'altrui condanna è la definizione della linea di confine dell'accettabilità, è l'inferno. Solo negli altri però è possibile specchiarsi poichè solo essi restituiscono la propria vera immagine, quella ufficialmente, socialmente riconosciuta, ma non più controllabile. "Mon image dans les glaces était apprivoisée. Je la connaissais si bien... Je vais sourire: mon sourire ira au fond de vos prunelles et Dieu sait ce qu'il va devenir" (124): sono parole di Estelle, il personaggio più debole e legato ad una esteriore coscienza e consapevolezza di se. La propria personale immagine non può che soccombere, annullata dall'altra, più forte e grande: quella non è rintracciabile che astraendosi dagli altri per avvalersi soltanto dell'unico metro di giudizio individuale, della propria coscienza. Ma ciò non esclude che si possa rimanere vittima delle proprie illusioni, come Garcin lo è del suo sogno eroico, vigliaccamente terminato dalla fuga e dalla diserzione. Non è possibile nessun postumo processo alle intenzioni poichè l'atto, che dovrebbe completarle e concretizzarle, si impone sopra di esse. E' possibile soltanto un processo alle azioni, agli atti, "ma peut-on jouger une vie sur un seul acte?" (125). Garcin afferma che ognuno è ciò che vuole, ma sostiene anche di non aver avuto tempo sufficiente per diventarlo realmente, per realizzarsi concretamente. Eppure, "seuls les actes décident de ce qu'on a voulu. [...] On meurt toujours trop tôt -ou trop tard. Et cependant la vie est là, terminée: le trait est tiré, il faut faire la somme. Tu n'es rien d'autre que ta vie"   (126). Garcin ha sognato un'immagine di se che non è diventata realtà, che è rimasta solo illusione. La sua immagine definitiva è un'altra.
         Se, come dice Sartre in L'esistenzialismo è un umanesimo, "l'uomo è un progetto che vive se stesso soggettivamente" (127), che si crea giorno per giorno in conformità ad un'idea alla quale, con una successione di scelte, egli tende ad avvicinarsi, allora il giudizio altrui è solo un limite alla propria libertà che è invece assoluta ed inalienabile. Questa non può avere come punti di riferimento che il "progetto" e la propria coscienza, l'intelligenza. Non essendoci una provvidenza nè un Dio garante, l'uomo è assolutamente libero di agire, provvisto di una libertà totale con la quale realizzarsi, pericolosa, frenata e limitata soltanto dalla propria intelligenza, dalla consapevolezza delle proprie azioni. Pertanto non esiste fatalità, non esiste altro destino che quello creato dall'uomo nella continuità delle sue scelte. Il fato in Antigone ha sembianze umane, è Antigone stessa che decide di morire contro ogni logica, contro tutto. Il suo destino forse è scritto nel suo ruolo, nel personaggio che la ragazza borghese si trova ad interpretare, un ruolo tanto più grande di lei e che non capisce del tutto, che recita senza vera convinzione, senza sentimento, con cieca fedeltà, pur illudendosi di esser totalmente libera. Ma il ruolo può esser cambiato, la tragedia può diventare dramma, aprirsi alle possibilità della vita, non è più ineluttabile; Creonte vorrebbe farla deviare, volgere al dramma, ma Antigone sceglie la tragedia, opera una definitiva scelta drammaturgica che, affermando la sua indipendenza e 'libertà', nello stesso momento incanala il suo destino entro limiti noti. La tragedia era sul punto di vacillare, perdere limpidezza ed intorbidirsi con i dubbi, i compromessi, l'apertura all'alea della vita e del dramma, ma alla fine Antigone si rifugia con voluttà nella morte. Attraverso Sartre ed Anouilh si svela un'altra importante zona d'influenza della Francia in Visconti, l'esistenzialismo, di matrice soprattutto sartriana, inteso essenzialmente come filosofia razionale ed umanistica, protesa all'azione. L'uomo tende a realizzare un'idea di se, a realizzarsi in conformità a quest'idea attraverso la quotidiana sequenza di scelte che informano la sua vita. Ma ovviamente, per procedere in avanti, verso il futuro nel quale si situa il completamento del suo progetto, l'uomo deve agire nel presente, dove avvengono tutte le scelte, tutte le correzioni della sua rotta verso quella meta; queste non possono essere giuste ed adeguate se l'uomo non ha piena coscienza di se, della sua esatta posizione e dell'interferenza dell'ambiente esterno. Allora, egli deve guardare e capire profondamente ogni influsso, ogni condizionamento dal quale rischia di essere inconsapevolmente deviato: egli deve procedere avanti, ma con lo sguardo rivolto al passato, prossimo o più remoto, cercandovi tutte le limitazioni, capendolo completamente. Ed è ciò che fa Visconti, quel che fa fare ai suoi personaggi, quel che ha fatto in Francia negli anni trenta. La presa di coscienza della realtà è preliminare ad ogni azione perchè la consapevolezza è la condizione della libertà che può così raggiungere il massimo grado possibile. E' anche evidente l'influenza che l'esistenzialismo ha finito per avere sulla costruzione degli spettacoli in Visconti, come sia alla base di tutto il suo discorso registico: anche gli spettacoli viscontiani nascono tutti come successione di scelte registiche tendenti ad esprimere e progressivamente illuminare il contenuto effettivo della regia, la sua idea portante, nella peculiare individualità del testo e dello spettacolo che risponde solo ad esigenze di coerenza interne, in base ad una totale libertà del regista, rivendicata più di una volta molto chiaramente nei confronti della critica, di esprimersi con completa e fiera estraneità ad ogni moda o formula precostituita.
         La libertà ha infatti una basilare importanza nel lavoro di Visconti: libertà d'azione dei personaggi, capiti però nel loro contesto storico e psicologico; libertà dello spettatore, non indirizzato verso una conclusione, ma a cui il regista presenta una serie di situazioni emblematiche e dense di significati che permettono di capire il mondo del personaggio; libertà infine del regista, che si muove con disinvoltura in tutti i campi della cultura per evidenziare efficacemente, anche attraverso forzature vagamente espressionistiche, il suo discorso, contraddicendo ogni inutile e fuorviante luogo comune. Perché è proprio nei luoghi comuni, nelle abitudini incallite e sedimentate, nei comportamenti automatici che il condizionamento si fa più forte ed inconsapevole, limite pericoloso ed inaccettabile alla libertà individuale. Ed il discorso registico viscontiano, legato alla centralità di un'idea razionalmente espressa, si rivela così essere basato sull'intelligenza, di cui segue il risveglio nei personaggi, riflettendola per loro tramite nello spettatore. L'intelligenza è l'unica vera garanzia di libertà, la condizione necessaria all'attuazione del progetto sartriano, di cui definisce anche i confini, i limiti che la coscienza individuale, non quella degli "altri", si sceglie: l'intelligenza come sinonimo di libertà e questa stessa di vita, secondo l'assioma di Cinema antropomorfico. Il senso complessivo del lavoro di Visconti è quindi nella messa in evidenza della totale libertà di ogni uomo, che deve rivendicarla come condizione sine qua non della sua esistenza, ma che spesso è da conquistarsi a caro prezzo: l'intento viscontiano  è anche nella dimostrazione della responsabilità dell'indipendenza dell'uomo. Se nelle parole di Tullio Hermil ne L'innocente è possibile riconoscere parte della visione sartriana e viscontiana dell'esistenza, vi è anche nel personaggio la pretesa di porsi al di fuori dei limiti umani e sociali per identificarsi con una sorta di superuomo cui tutto è lecito (così come Antigone è una 'superdonna') che non riconosce, fallando, neanche i limiti della razionalità, gli invalicabili confini dell'intelligenza, ricadendo in pieno nella tipologia dell'illuso viscontiano. Egli non capisce che intelligenza non vuol dir solo consapevolezza delle limitazioni esterne (che significa libertà), ma anche coscienza dei propri limiti, ch'egli, molto dannunzianamente, non riconosce (128).
         L'intento complessivo di Visconti è di stabilire uno stretto dialogo col pubblico, ma non in quanto massa, bensì insieme di singoli spettatori perchè non c'è intelligenza nella massa. Allo spettatore lo speculum vitae degli spettacoli viscontiani deve portare ad un'accresciuta consapevolezza che la massa non può, nel suo complesso, avere: è un dialogo tra due individui, il regista, il cui spettacolo, fedele riproduzione di un'idea, diventa tramite del messaggio, e lo spettatore, che questo messaggio deve recepire per applicarlo nella sua vita per conquistarsi indipendentemente la piena libertà per mezzo della personale consapevolezza del proprio mondo, attraverso la propria intelligenza. La massa è un vero e proprio pericolo, è l'inferno, è "gli altri", l'insieme dei loro sguardi indagatori ed accusatori, dei loro ragionamenti estranei ad una vera conoscenza, incapaci di una reale coscienza. La condanna di Visconti al nazismo è categorica, anche indipendentemente da precise scelte politiche, perché è l'esaltazione della massa anonima, priva di senno; più profondamente, il nazismo è la completa contraddizione della concezione viscontiana dell'uomo, la negazione dell'intelligenza in cui Visconti crede e per cui lavora. Dice Aschenbach ne La caduta degli dei, condensando il credo nazista: "chi vuol esser padrone [...] di se stesso ed è tanto illuso di credere di poter prendere da solo una decisione, di pensare con la propria testa, quello no, [non è un amico fidato del nazismo]" (129). Non può quindi esservi da parte di Visconti che una razionale condanna di un movimento che presuppone l'inaccettabile emarginazione della libertà e dello spirito critico, l'abdicazione dell'intelligenza. Il nazismo, come ogni altra forma di totalitarismo, necessita di un uomo stupido, in opposizione all'uomo viscontiano: il tramonto dell'intelligenza che esige si traduce allora ovviamente nella deflagrazione della perversione poiché non vi è più nessun freno razionale. Gli individui diventano accecate bestie umane e sono  necessariamente ridotti all'essenza dei loro istinti ciò che permette l'irrompere dell'egoismo allo stato puro come degenerazione incontrollabile dell'individualismo: il nazional-socialismo è la premessa alla fine del mondo, come indica il titolo apocalittico del film, alla regressione dell'umanità.
         Al contrario, il marxismo è da Visconti inteso come filosofia della razionalità, scelta dopo l'esperienza francese e l'influenza pratica di Renoir, in seguito anche alla vicinanza  con l'ambiente di "Cinema". Il marxismo è la ricerca dell'affermazione di condizioni di vita più giuste e democratiche, più ragionevolmente eque; è anche l'affermazione dell'uguaglianza di tutti gli uomini che si conquistano la dignità attraverso un lavoro in cui si rilette la loro intelligenza e libertà. La prospettiva marxista è anche l'inevitabile logica evoluzione della decadenza del capitalismo e della sua proteiforme adattabilità, dettata dagli interessi economici, che ne fa il prodromo al nazismo, come il film mostra. Questo forse avvicina il patriarca dei von Essenbeck a Creonte, essendo Antigone in fin dei conti una pièce borghese; nel giudizio sull'eroina, ciò farebbe pendere la bilancia in suo favore, ma in realtà, non fa che confermare l'impossibilità di giudizio sostenuta da Visconti. Questi opta sempre per una razionale oggettività nei riguardi dei suoi personaggi dei quali non vuole giudicare le scelte di cui desidera solo verificare e mostrare l'adeguatezza rispetto al tempo e al luogo nel quale si inseriscono, rilevare il loro rapporto con la realtà, guardarle insomma nel modo più  onesto possibile. Quest'oggettività, che si astiene dal giudicare moralmente i suoi personaggi per darne solo un giudizio intellettuale, stride vistosamente in La caduta degli dei, tanta è l'avversione per il contenuto ed i personaggi, e finisce col fare del film un'opera dissonante e formalmente sgradevole, antipatica, nevrotica, veramente ad immagine di quei personaggi.
         Narratore di psicologie individuali, di approfonditi ritratti psicologici, Visconti crea sempre una serie di rimandi che collegano l'individio alla sua società, non perde mai di vista l'orizzonte sociale nel quale si inscrivono (e parzialmente si spiegano) i singoli comportamenti:

la chiave di volta degli stati d'animo, delle psicologie e dei conflitti, è [...] per me perfettamente sociale, anche se le conclusioni a cui giungo sono soltanto umane e riguardano concretamente gli individui singoli. Il lievito, però, il sangue che scorre nella storia è intriso di passione civile, di problematica sociale".

(130)

I suoi personaggi sono metafore della società e il piano individuale riflette eloquentemente quello sociale: Visconti sceglie, per non essere generico, di essere specifico in quanto le storie individuali sono molto più comprensibili e significative, quindi spettacolarmente efficaci. Ma anche perchè la consapevolezza del singolo è la necessaria condizione alla consapevolezza della società.      

 IL BALLETTO MECCANICO.
         "Spettacolo d'oggi", Adamo è un testo che ha la sua ragion d'essere sostanzialmente nel tema che affronta: l'omosessualità (già presente in Huis clos), inserita in una pièce seria che non la mette in berlina.

L'omosessualità esiste: non dobbiamo tapparci gli occhi e fingere di non accorgersene. Dilaga sui giornali [...], esiste come argomento letterario, ne hanno scritto Gide Proust Zweig Mann e altri [...] e ne sono state fatte commedie.

(131)

Visconti esprime così ancora una volta l'esigenza di sbarazzarsi delle ipocrisie moralistiche per affrontare di petto tutti gli aspetti, anche i più sconvenienti, della realtà. Adamo è un testo che ha soltanto una funzione strumentale, è un buon veicolo, un pretesto per affrontare temi scottanti, scabrosi e Visconti stesso riconosce che per l'epoca si trattava di una "commedia abbastanza ardita"; sebbene abbia il pregio di essere "abile ben costruita e tutta teatrale" (132), di fornire cioè buon materiale per uno spettacolo,  comunque "la commedia non è delle migliori". La polemica che la rappresentazione suscita e la serie di rappresaglie censorie che ne ostacolano il cammino, assieme alla protesta di parte del pubblico, indicano chiaramente che l'intento di aggiornamento della morale e della cultura italiana intrapreso da Visconti è lontano dall'essere concluso. La sua orgogliosa indipendenza dalle limitazioni e dai pregiudizi si scontra con atteggiamenti reazionari del governo e di parte della critica che dichiara il suo conformismo nel volere che il teatro e lo spettacolo in genere siano solo stantii intrattenimenti rivolti "ad una nazione sconfitta che vuole parole rigeneratrici" (133) e non 'veleno'. Il governo era infatti restio a denunciare in pubblico le deficienze del paese, seppellendolo di fatto sotto un immondezzaio culturale che non poteva, nel limitare la visione della realtà alla sua porzione più gustosa ed appariscente, che ripristinare le condizioni censorie fasciste.
         Non a caso Visconti sceglie un testo che è ambientato nella medesima "terrible province féodale" della Machine à écrire, mettendolo in scena con la stessa Compagnia. L'aberrante provincia è egregiamente rappresentata dai due personaggi marginali di Lancelot e Gianfrancesco nella cui quotidiana banalità irrompe la misteriosa sconosciuta che trasporta di peso nel villino il suo dramma; una situazione che riflette quella del pubblico, chiuso nel suo mediocre perbenismo ed improvvisamente sbalzato in un mondo nuovo. Questi due personaggi sono gli impotenti spettatori di un dramma in parte già avvenuto e che terminerà per puro caso nella loro abitazione -che diventa lo sbagliato scenario dell'azione-,  per telefono, ancora una volta 'altrove'. La loro casa è riprodotta sulla scena con "aggraziata ironia" (134) che probabilmente ne esalta la mediocrità, stonando vistosamente con i veri protagonisti della vicenda, soprattutto con Saxel, il raffinato direttore d'orchestra, il quale entra in scena preceduto da Carlos, l'autista, che ha solo la funzione di introdurre l'eleganza appariscente del personaggio e sottolinearne l'estraneità nell'interno borghese.

Io ho scelto Adamo perchè è la commedia che meglio si poteva prestare per certe esigenze sia del teatro sia della Compagnia sia ancora del pubblico.

 (135)

Nel testo non vi è nè esaltazione nè vera condanna dell'omosessualità (anche se ve ne è forse un piccolo accenno nelle battute finali) che viene semplicemente accettata come un dato di fatto da cui è impossibile prescindere: Achard scioglie la situazione con abilità non scegliendo nè il partito favorevole nè quello contrario ma facendo suicidarsi Max, l'amante conteso, ciò che pone fine al dissidio senza risolverlo, evitando al personaggio ed al testo una scelta imbarazzante. Max infatti non sceglie che la fuga la quale non conclude nemmeno il dramma e lo trasforma all'improvviso in tragedia. Ma forse il tragico epilogo è solo lo scontato finale di un mélo il quale compie però in pieno l'introduzione dell'omosessualità nel repertorio delle trame tradizionali che si inseriscono sulla ripetizione del triangolo amoroso dove, in questo caso, l'elemento innovativo è nel fatto che l' "altro" è amante di "lui" e non di "lei". La banalità dell'impianto è forse il vero segno di una trasgressione da parte di Achard, il cui tentativo di normalizzazione dell'omosessualità passa attraverso l'integrazione di questa in una trama ricorrente che la parifica ad ogni altra variazione sul tema del tradimento amoroso. Adamo non propone esplicitamente la riabilitazione di un argomento tabù perchè questa è già inclusa e sottintesa nella sua banalizzazione entro i confini noti di una situazione drammatica tanto scontata che Bontempelli (136) si lamenta di trovarsi di fronte ad "una solitissima commedia sentimentale".
         Ugo Saxel e Caterina si contendono selvaggiamente Max con cui sono in contatto telefonico e che, sempre fuori scena, è l' "invisibile protagonista" del dramma. Incapace di decidersi tra i due amanti, Max sembra del tutto privo di personaità e di vita autonoma, di una giusta definizione: diventa solo la proiezione dei desideri dei due protagonisti in scena per lui duellanti. Max è in effetti incapace di sopravvivere alla rottura di uno dei rapporti ed il suicidio non è che la misura della sua viltà; "Max non esiste non già perchè non si vede [...] ma perchè del suo spirito e diciamo pure della sua carne niente d'effettivo e comunicativo ci vien dato" (137). Egli è solo l'altro capo del telefono, un personaggio immaginario che si riflette nelle parole di Ugo e Caterina, come già Cocteau avava fatto ne La voce umana. Il tragico finale è solo la conseguenza della mancanza di decisione del personaggio che rende Max l'illuso bambino di Cocteau, la viscontiana vittima di se (138). Egli è esattamente agli antipodi di Saxel, personaggio  che Visconti vede "piuttosto ambiguo, difficile, pieno di sfaccettature" (139) e sottigliezze, contraddittorio per calcolo che Gassman ha benissimo reso dandogli, al contempo, artificialità e naturalezza. "Gassman nella parte dell'invertito maestro ha ottenuto la perfezione, a cominciare dalla figura, dal trucco, dal vestire, dal portamento, tipicissimi senza cadere nè nella gretta copia realistica nè nella esagerazione caricaturale: ogni suo gesto, movimento, inflessione" è trovato, "colorito al punto esatto" (140). Saxel è l'elemento nuovo e disturbatore delle normali armonie, dell'idillio tra Caterina e Max, della banalità dell'ambientazione piccolo-borghese, del tipico svolgimento drammatico del mélo. Personaggio lucidissimo, perfetto padrone di se e del suo aspetto, curato narcisisticanmente e con sapiente calcolo dell'effetto: egli è dotato di una sarcastica misoginia che con coerenza smonta Caterina inserendola nella generale perdita del precario romanticismo della donna contemporanea, che diventa a suo avviso, "il superfluo della vita".
         Caterina, personaggio sostanzialmante sincero e ad una dimensione, è portata alla consapevolezza da Saxel, nel progredire della pièce. Il testo è infatti un avvicinamento riluttante alla verità che emerge solo alla fine del II atto; il I atto è "tramato con illusoria abilità [...], si tien tutto sopra un motivo esteticamente ingiustificato, l'amnesia della vittima" (141), che è quasi la fine di un altro dramma (142), creando una forte suspense drammaturgica essendo terreno di tutte le potenzialità narrative, a cui fa seguito la progressiva riacquisizione della memoria, quindi l'introduzione del mélo e la sua variante omosessuale. Caterina, scoperta ed infine accettata la verità, rompe il suo rapporto con Max, trasformandosi, proprio nel momento della piena consapevolezza e della sconfitta, da vittima di Ugo in carnefice dell'amante. Il personaggio è interpretato dalla Adani con "foga, con sì perduto abbandono, con disperazione così squassata e convincente" (143) da farne quasi un personaggio di tragedia, umanissimo e sofferente, distrutto e annichilito dal tradimento di Max. Tutto il dramma è "posto in rilievo con ineccepibile buon gusto e costante e preciso senso di un'ottima resa scenica", come è solito fare Visconti che su ogni elemento dello spettacolo getta la sua "rete prestigiosa di colore e sapore tra il divertito e l'angosciato" (144).
         Sintesi di angoscia e 'divertimento' si ritrova nel primo classico che Visconti mette in scena, Il matrimonio di Figaro. L'essersi rivolto ad un testo già noto non contraddice le esigenze innovative di Visconti: il Matrimonio di Beaumarchais era infatti stato messo all'indice durante il fascismo e la lettura che Visconti ne dà, pur nella fedeltà al senso effettivo del testo, ne fa emergere l'importanza storica. E' uno spettacolo rivelatore della tendenza antiveristica viscontiana perchè il regista rifiuta la realistica resa del testo, pur accolto integralmente, per farne un 'balletto', una forzatura che fa storcere il naso a molti critici che si lamentano di non ritrovare nella messinscena il testo amato . Come osserva Guerrieri, emerge qui chiaramente che il criterio ideale di Visconti è lo spettacolo in se: "egli fu sempre a suo agio col criterio parigino, londinese, newiorchese dello spettacolo volta per volta, con un cast scelto appositamente" (145) e con  collaboratori chiamati per l'occasione ad imprimere, in conformità alle esigenze del regista, un personale tono allo spettacolo.
         Nel Matrimonio, Visconti lavora contro il testo raffreddandone la carica emotiva attraverso una recitazione 'movimentata', saltellante, irrequieta e una generale aria di balletto; il testo è musicato da Renzo Rossellini e l'insieme dello spettacolo acquista una preziosa ed elegantissima artificiosità. Così, dall'accortissima commedia emerge soprattutto l'aspetto lugubre che ne annulla la giocosità esaltandola sino a renderla insensata, facendo apparire vuoti i gesti e gli sforzi dei personaggi in scena. L'accavallarsi di colpi di scena, di trabocchetti ed insidie, la sarabanda di trovate annega nell'enorme generale aspetto di danza macabra che lo spettacolo assume e che si esplicita durante la Carmagnola quando, da sotto innocue maschere, fanno capolino inquietanti scheletri. Non serve allora più sapere chi si è dimostrato intelligente e lucido, chi ha vinto la confusa gara al più furbo, chi è stato beffato o chi ha tramato con successo poichè tutto si risolve in un esteriore e straniato balletto. Le individuali prove d'intellligenza ed accortezza non discriminano vinti da vincitori, tutti "atteggiati fantocci" (146) inconsapevoli di esser giunti alla fine, al momento del trapasso, dell'immane trasformazione che spazzerà implacabile la loro festosità; i tempi che li comprendono stanno esaurendosi ma essi non se ne accorgono: sono tutti le indistinte vittime di una globale inconsapevolezza rivelata dalle macabre maschere, "svelanti la dissoluzione e la fragilità di un mondo ufficialmente sereno ed imbellettato, recante in se i segni della propria condanna" (147). Visconti, rispondendo a domande poste alla vigilia dello spettacolo, dice:

mi riprometto di sottolineare il singolare valore polemico di quest'opera accentuando quei caratteri di satira sociale che in essa fanno spicco. Sì che, nelle tinte caricate, nei costumi inverosimili, si riveli all'improvviso il mostruoso ed il grottesco e si intravveda un chiaro presagio del crollo di una società in disfacimento: l'aristocrazia.

(148)

E' un balletto che si acquieterà, un mondo che si spegnerà nel sangue della Rivoluzione Francese. Un'altra 'danza macabra' conclude il Gattopardo: molti degli invitati, tenendosi per mano formano un cordone umano che si muove per le stanze vuote del palazzo, mentre si sfalda l'atmosfera festosa e la luce delle candele ormai consumate si abbassa accrescendo il senso di lugubre profezia del film, mentre il Principe di Salina in disparte sta a guardare: il grottesco e la minaccia contenuti nella scena non sono lontani dal Matrimonio e delineano un impietoso ma lucido ritratto di un'aristocrazia agonizzante. Per don Fabrizio la comprensione della verità  si pone all'inizio del film e non viene più messa in discussione ma subito interiorizzata, accettata come ineluttabile destino. A differenza di tutte le altre pellicole viscontiane, questa non ricorre a scene madri, poichè il protagonista è già al corrente di tutto, ed il film si consuma, in eleganti volute, nella sofferta contemplazione della sicura morte, del tramonto del principe e dell'avvento dell'ibrida nuova generazione. Il film è una continua conferma di quella intuizione iniziale, presagio di morte che tinge di colori funesti la solarità  violenta del paesaggio siciliano. Ma è anche questa un situazione di crisi, in cui il passato è riletto in modo nuovo e definitivo, e che prelude ad un futuro intuito come diverso, del quale il protagonista non farà parte.
         Nel Matrimonio di Figaro, i personaggi sono tutti vincolati al presente, troppo presi dalle loro vicende, dalla "folle journée", troppo coinvolti nel guazzabuglio di intrighi e sotterfugi, dalle schermaglie e scaramucce amorose, dalle acrobazie verbali del succedersi di menzogne e di inganni, per accorgersi della minaccia che li sovrasta: essi e i loro sforzi si dissolvono in esagitati movimenti, prevalentemente circolari (perchè domina il motivo del cerchio e del ritorno al punto di partenza, del movimento inutile), nell'angoscia meccanica accresciuta e riflessa nei metaforici balletti di marionette che si interpongono all'azione negli intervalli dello spettacolo.
         Il Mariage de Figaro è un testo comunque vicino a Visconti per i contenuti polemici intrisi di rivendicazioni sociali, per la sensualità che maliziosamente affiora, per la veridicità psicologica dei comportamenti perfettamente comprensibili e giustificati (con anche una minaccia d'incesto presto debellata nel matrimonio tra Figaro e Marcellina, che si scopre sua madre). Il Matrimonio ha una struttura complessa e molto articolata, una specie di enorme ed intricato lazzo reso credibile dall'abilità dell'autore che impone ai suoi personaggi instancabile prontezza e raffinata accortezza, che si traduce sulla scena in un'agilità fisica ed in una mobilità estenuante sopratutto per Figaro-De Sica che viene fatto correre e saltare  per tutto il palcoscenico. Egli è tra tutti il personaggio più consapevole ed abile ma comunque vincolato al presente della scena (nelle parole della madre, egli non è "mai imbronciato, sempre di buon umore; pensa a godersi il presente e non si cura dell'avvenire più che del passato" [149]): ciò che diventa, nella situazione storica generale e nell'ottica viscontiana, un atto d'accusa. Figaro è un servo che astutamente lavora per il suo interesse e non per quello del padrone che, anzi, è suo rivale  pretendendo le grazie e i favori di Susanna; un personaggio pertanto 'rivoluzionario' ed eversivo rispetto  alla tradizone comica che nel testo si riassume e si nega (150), con una sua indipendenza, la capacità di gestirsi consapevolmente, di muoversi autonomamente, vedere gli ostacoli e, con l'astuzia, superarli. Eppure, la sua bravura è soffocata dalla stessa ipertrofia del testo, dall'accavallarsi di situazioni e di capovolgimenti che lo rimettono continuamente in balia degli eventi.
         Nel famoso monologo della scena III dell'ultimo atto, Figaro capisce l'amarezza della disillusione per la scoperta del (finto) tradimento della moglie; sono parole che nel contesto in cui si inseriscono assumono valore emblematico di una più grande, inconsapevole crisi d'identità (che prende anche risonanze esistenziali):

costretto a percorrere la strada su cui mi sono messo senza saperlo, così come ne uscirò senza volerlo, l'ho cosparsa di tutti i fiori che la mia gaiezza ha potuto darmi: dico anche la mia gaiezza, senza sapere se appartiene a me più di tutto il resto, e senza nemmeno sapere cos'è questo me di cui parlo: un insieme informe di parti sconosciute... Ho visto tutto, ho fatto tutto, ho tentato tutto. Poi l'illusione s'è distrutta.

 (151)

La delusione, motivata dalla supposta infedeltà della moglie, finisce presto per Figaro, cancellando ironicamente i suoi dubbi. Questi, se guardati con un'ottica meno privata, rimangono validi  e riguardano tutti i personaggi della pièce dei quali risaltano l'inconsapevolezza della propria identità e del proprio futuro. Si ritrova così il tema viscontiano della lucidità che è, in effetti, la ricerca della propria identità ed intima personalità, della verità individuale. Una lucidità anche qui dolorosa, ma che il testo fa passare in sordina e fa diventare divertente. Nel medesimo monologo, Figaro sostiene la necessità della conquista della dignità tranite il lavoro, una tesi viscontiana da sempre. Parlando del Conte:

perchè siete un gran signore, vi credete un gran genio!... Nobiltà, ricchezza, gradi, cariche: fa diventare così furbi, tutto questo! Ma voi che avete fatto per meritare tali fortune? Vi siete dato la pena di nascere, e basta. Del resto, siete un uomo abbastnza comune! Mentre io, perbacco!, sperso com'ero nella folla anonima, ho dovuto spiegare più scienza e accortezza, solo per sopravvivere, che non in cent'anni per governare tutte le Spagne.

 (152)

Molti critici  di fronte al Matrimonio di Figaro nella veste viscontiana, accusano il regista di aver solo ripetuto l'impostazione operettistica già proposta in Francia da Dullin. Ma, ancora una volta, il precedente più diretto e più probabile è Jean Renoir che al testo dell'autore settecentesco deve molto per la sua Règle du jeu, film del 1939 che preludeva la catastrofe della seconda guerra mondiale, ripetendo, aggiornato, l'inquietante intuito di Beaumarchais. Visconti dimostra di aver mutuato molto dal suo maestro francese: il palazzo come scena unica, che in Renoir è lo sfondo di più di tre quarti del film, imponente e lugubre simbolo dell'aristocrazia (e della ricca borghesia); la costruzione danzante, determinata nel film dalla esterma mobilità della macchina da presa che volteggia attorno agli attori, dentro e fuori il castello, per seguirne le giravolte e le corse a rimpiattino dei continui inseguimenti amorosi e fermarsi quando tutta l'apparente leggerezza crolla all'irrompere della morte che qui, a differenza di Beaumarchais, non è soltanto annunciata.
          La Règle è effettivamente ispirata al Matrimonio di Figaro, di cui alcuni versi sono trascritti dopo i titoli iniziali a mo' d'introduzione; dalla commedia, il film deriva una struttura corale, la definizione o la posizione di certi personaggi, il complessivo aspetto da commedia degli equivoci; ed è proprio sul grande equivoco dell'occhialino, il quale vede ingrandisce e deforma la realtà, che il dramma s'innesta, per terminare con l'altro fatale equivoco dello scambio dei cappotti.
"Dans ce film extraordinairement audacieux par le sujet, la technique et la conception du récit, Renoir a donné à l'art français, au seuil de la guerre, quelque chose d'équivalent à ce que fut Le mariage de Figaro pour la Révolution Française. Non que cette histoire d'amour dans un châteu de Sologne, inspirée par Beaumarchais, Musset et peut-être Marivaux, ait rien de politique, mais elle traduit implicitament toute la crise de conscience d'une civilisation au bord de sa perte" (153).
        
Se Beumarchais contemplava l'affannoso dibattersi dell'aritocrazia, Renoir allarga il discorso sino ad includervi la borghesia, inghiottita anche'essa dalla guerra imminente. E ad un coinvolgimento altrettanto lato pensa anche Visconti quando fa recitare a Figaro il suo monologo portando De Sica in platea, "gomito a gomito con il pubblico borghese" (154) che pare così inglobato nella sensazione di angosciante minaccia che sovrasta il palcoscenico. Il monologo, oltretutto, è anche il momento più umano e denso di significati polemici e politici, che la stasi dopo la frenesia generale amplifica maggiormente e che viene rivolto direttamente al pubblico, quasi ad accusarlo: è ciò che porta a pensare che l'evento trasformatore, la rivoluzione prospettata dallospettacolo possa non essere solo quella francese, bensì una diversa rivoluzione sociale.
         Il senso del balletto nella Règle è dato dall'agilità della macchina da presa e dai movimenti degli attori, dal montaggio con rapidi cambiamenti di scena e dalla velocità del dialogo. Ma anche dai giocattoli maccanici di Dalio, pupazzetti animati che ripetono incessantemente i  bei movimenti per i quali sono stati costruiti, eleganti e divertenti, ma che non possono sfuggire al loro rigido automatismo: si tratta di un motivo ripetuto nelle danze della marionette degli intermezzi viscontiani. Piccoli balletti dalla superficiale insensatezza e sottesa angoscia che presagiscono la danza macabra finale, presente anche nella Règle, benchè un pochino anticipata (l'assassinio dell'aviatore ne ha preso il posto ed il significato), e che termina il gioco dei travestimenti e prepara la catastrofe. Le ferree regole dell'ipocrisia non possono venir infrante, pena la morte, ciò che rende tutti i personaggi pedine animate di un gioco pericoloso, un balletto vuoto di senso: Dalio conclude il film facendo calare sugli avvenimenti un pudico sipario, annunciando con garbata eleganza che lo spettacolo è finito, che non c'è stato niente di grave: la società si ricompone.
         Il Matrimonio è l'ennesima ma per il momento più forte affermazione e rivendicazione della libertà registica da parte di Visconti, applicata ad un testo 'classico', facente cioè parte di un repertorio ben noto e che rimanda ad una solida tradizione di messinscena con cui la sua regia innovativa si scontra in modo violento ed estremamente palese, tale da dar polemico risalto al suo intervento. Anche D'Amico, che non ha amato lo spettacolo, deve riconoscere al suo regista un forte stile personale, un metodo perchè "quasi tutti i suoi spettacoli, quelli meglio riusciti e quelli meno persuasivi, hanno una loro compattezza, una loro unità: attori, luci, ritmo vi sono disciplinati da una guida unitaria, fanno un blocco solo, puntano concordi in una determinata direzione" (155) verso un'idea, un'interpretazione.
         Secondo Guerrieri vi sono numerosi motivi per guardare con attenzione a questo particolare spettacolo viscontiano. E' il suo "debutto nel teatro musicale. E' il melodramma che arriva" (156). Perchè è la prima delle "corti" viscontiane, un termine che allarga il concetto di 'famiglia'. Infine, "c'è un'altra ragione per cui il Matrimonio è degno di nota, e si distacca dagli spettacoli precedenti: da un punto di vista produttivo. Finora Luchino, come guest director, aveva limitato le proprie ambizioni alle disponibilità che gli venivano offerte. [...] Ora propone il suo modello di lavoro, e si avvia alla Compagnia che egli stesso finanzierà" (157). 

LA COMPAGNIA.
Nell'autunno del 1946 Visconti decide di costituire una Compagnia "con intenti esclusivamente d'arte" per ottenere il massimo di qualità possibile per gli spettacoli che ha in mente, organizzata come una cooperativa con la partecipazione di tutti i componenti fissi. Il repertorio è costituito da una selezione di testi per la più parte inediti, soprattutto francesi (il teatro esistenzialista: Sartre, Anouilh, Camus) e americani, che costituiscono "quanto di meglio letterariamente e artisticamente sia stato prodotto dalla drammaturgia contemporanea" (158). Visconti si avvale "di attori della più provata e rinomata qualità e pieni di grande fede nel teatro": il nucleo costitutivo della "Compagnia Italiana di Prosa" è la Moreli-Stoppa cui si aggiungono le più o meno fisse "partecipazioni straordinarie" di Memo Benassi e Tatiana Pavlova ed altre saltuarie, a seconda dello spettacolo proposto. Per la messiscena Visconti desidera la collaborazione di tecnici e dei "migliori pittori, architetti, e musicisti italiani, intendendo [...] contribuire ad un rinnovamento totale del gusto della scenografia teatrale" (159) e del gusto teatrale in genere, perchè il 'rinnovamento' è l'unica via per superare la drammatica situazione del teatro la cui funzione culturale è soffocata da "abborracciatura, provincialismo, dilettantismo e pochades". Il progetto della Compagnia riuscirà solo parzialmente, poichè soltanto alcuni dei testi prescelti verranno effettivamente messi in scena: per quanto riguarda i francesi, solo la riduzione di Baty di Delitto e castigo e l'Euridice di Anouilh. Ma lo scopo della Compagnia è per Visconti soprattutto quello di poter sviluppare con maggior coerenza ed indipendenza il suo progetto registico a teatro, ottenere l'autonomia finanziaria necessaria per realizzare lo spettacolo che considera soddisfacente, accordando così il teatro italiano alla consuetudine già affermatasi sulle altre scene nazionali: Visconti scrive chiaramente di non voler risparmiare nulla affinchè gli spettacoli della sua Compagnia e non solo quelli da lui diretti "raggiungano come repertorio, gusto, recitazione, rifinitezza e risonanza, uno stile definitivo e rigoroso", siano chiara espressione di un'idea accentratrice che sia anche affascinante per il pubblico. Il Matrimonio di Figaro è stato per Visconti la prova generale, un manifesto di prepotenza registica che ha sfondato il budget del 50% e superato il numero dei giorni previsti per le prove. Fare di ogni spettacolo un evento culturale, espressione viva di idee è ciò che Visconti ha fatto e farà comunque, anche senza la Compagnia.
         Un  altro classico è la prima messinscena per la Compagnia: Delitto e castigo nella riduzione di Gaston Baty scelta perchè "la più agile ed efficace" (160) tra quelle esistenti. Visconti è interessato più al romanzo ed ai temi in esso contenuti che all'effettiva qualità del testo teatrale. Il programma di sala dello spettacolo (che presenta anche la Compagnia) afferma che il lavoro di Baty ha il difetto "di spezzettare l'azione in una serie di ambienti e scene staccate, di troncare cioè ad ogni quadro la tensione drammatica" (161). Visconti ha ovviato a quest'inconveniente creando una scena unica cangiante, rappresentante l'amalgama di tutti gli ambienti della pièce, ossessiva nella sua fissità come la paranoia del protagonista di cui dà una valida immagine: all'aprirsi del sipario si ha "una visione da incubo e tuttavia armonica di una scena tenuta per quell'effetto nell'ombra" (162), che si illumina via via per inquadrare, con luci diverse, i vari luoghi dell'azione. Raskolnikof è interpretato da Stoppa "alla Peter Lorre [...] tutto fisso, immobile" (163) nella sua mania di persecuzione, fermo nel tormento. "Nevrotico, inquieto e pieno di assilli, striscia lungo i muri [...] e i grandi caseggiati della città pesano su di lui" (164). Corroso dalla colpa, angosciato e tormentato, Raskonikof ha commesso il delitto per abuso d'orgoglio, illuso di potersi porre sopra gli altri per aver intravisto la possibilità di un superuomo che non riesce ad essere, e il suo castigo  è lo stesso rimorso, la coscienza dell'errore, il peso di quella colpa che gli si rivela insostenibile e che fa di lui, ironicamente, la vittima, un perseguitato invece che il fiero inattaccabile e superiore assassino che sognava. Come  il Tullio dell'Innocente, è assassino per puntiglio, perchè la sua superiorità è stata oltraggiosamente intaccata (qui dalla povertà, dalla sua incapacità di riuscire a vivere decentemente), per dimostrarla ancora vitale. "Perduta l'areola ribelle e satanica, Raskolnikof ci mostra il viso angosciato e smarrito dell'uomo che ogni giorno si accanisce a rifarsi della propria miseria sulla miseria degli altri, e giuoca all'essere superiore" (165). Non è un ribelle perchè il suo gesto è gratuito ed inutile, è un'ingiustizia immotivata benchè rivolta contro un essere meschino. Non vi è intelligenza nel suo atto ma scientifica ipocrita freddezza, debolezza che subito dopo emerge: vi è solo presunzione che si nasconde nella esaltazione intellettuale. I quadri in cui è diviso il testo non sono che tappe di un percorso circolare che parte dal delitto e si conclude con la confessione che è innanzitutto l'ammissione del fallimento, dell'inutilità dell'assassinio.
         Delitto e castigo è uno spettacolo che risente della precedente messinscena del Matrimonio di Figaro nello sfarzo, l'eleganza, l'enormità dei costi; è ugualmente musicato da Rossellini e ha una cert'aria di balletto che gli dà una simile beffarda e tragica ironia: la gratuità delle acrobazie che accompagnano in controscena il dialogo tra Raskolnikof e Marmelodof al II atto ha un effetto che è alla fine lo stesso del Matrimonio, straniante e grottesco, che sottolinea per contrasto l'angoscia della scena. E' un'aggiunta che alcuni critici sentono come una stonatura, un arbitrario tradimento del testo, già sufficientemente violentato dall'adattamento di Baty, un ulteriore sintomo di una deplorevole invadenza registica che impediva una semplice efficace "resa" scenica del testo.
         Marmelodof e Raskolnikof mostrano una forte simmetria: la loro viltà, l'incapacità a vivere hanno conseguenze sulle rispettive famiglie, costringono implicitamente la figlia del vecchio a prostituirsi, mentre la sorella dell'altro sta per impegnarsi in un matrimonio d'interesse, necessario per ristabilire le disagiate finanze familiari. L'uno legato al vizio e alla miseria quasi con masochistico compiacimento, in un circolo vizioso da cui non sa fuggire; l'altro carnefice di se stesso con un omicidio egoistico che non ha attenuanti. L'introduzione di Marmeladof permette quindi un gioco di specchi che moltiplica l'angoscia del protagonista, e sottolinea la specularità tra Sonia e Dunia sì da far emergere una specie di alone incestuoso 'à la Cocteau'.
         Raskolnikof ricerca una superiorità che non trova in se e di cui capisce l'illusorietà scoprendosi completamentwe indifeso nei confronti del rimorso. Vi è in lui l'esasperazione dell'assunto sartriano, del diritto alla libertà e alla autodeterminazione perchè il suo "progetto" non è realistico, non tiene conto dei sottintesi limiti che l'intelligenza e la coscienza naturalmente definiscono.
Secondo lui "l'humanité se divise en deux classes: d'un côté la foule [...] soumise à la conscience, à la morale, au décalogue et au code; de l'autre les individualités supérieures, qui, par définition, sont au dessus de toute règle et n'ont d'autre devoir que de se réaliser pleinement" (166). Un individualismo antidemocratico che non ha nulla in comune con quello viscontiano: per Visconti vi è nell'individuo la sola forma d'intelligenza possibile in quanto consapevolezza di se, ma senza possibilità di gerarchie che invece sono il fondamento della teoria di Raskolnikof, della sua inebriante esaltazione di eletti che non rispondono di niente a nessuno, nei cui diritti rientra anche il delitto. La degenerazione dell'uomo sartriano che Raskolnikof rappresenta si ritrova nel protagonista de L'Innocente e in Ludwig: in tutti questi personaggi vi è confusione tra egoismo e libertà, sbagliano illudendosi di essere nel giusto. Il re di Baviera afferma di voler esser "libero di cercare la felicità nell'impossibile" e di accordare le sue azioni alle sue idee per amore della verità, confondendola però con i suoi impossibili esasperati sogni romantici. Dürkheim controbatte che "la verità [...] non ha niente a che vedere con questa ricerca dell'impossibile. Una libertà che sia privilegio di pochi non ha nulla in comune con la vera autentica libertà, quella libertà cioè che appartiene a tutti gli uomini e che ognuno di noi, a ragione, ha il diritto di avere. Viviamo in un mondo senza innocenti, in cui nessuno ha il diritto di erigersi a giudice" (167).
         E' la disperazione dell'impotenza di fronte al rimorso (alla scoperta della propria stupidità) a far sprofondare Raskolnikof nell'angoscia e nella disperazione, che si traduce nella febbre che lo prende in seguito al delitto, nel delirio che rende irreale l'atmosfera della pièce. Egli si trova in uno "stato perenne di allucinazione" e "paranoia" (168), il suo mondo è distorto, è diventato un incubo ossessivo e doloroso perchè tutte le sue certezze gli sono crollate addosso. L'angoscia simbolica della cupa scenografia che rappresenta il mondo reale si scontra con "apparizioni di personaggi femminili in vastissime crinoline" (169) che fanno anch'esse parte della visione corrotta di Rakolnikof diventando  personaggi quasi immaginari, irreali ambasciatrici di un paradiso perduto ma ancora sognato nel quale rifugiarsi per aver conforto e comprensione. Sono figure salvifiche, esaltate dal delirio e dal bisogno di pace: "mirabili" i loro vestiti,  "splendidi gli atteggiamenti" (170), tanto che la scena sembra di colpo modificarsi, con effetto ipnotico, "veniva da pensare a certe pitture settecentesce, non a una Pietroburgo 1866" (171), perchè portano in scena l'atemporalità del sogno.
         Raskolnikof si riconosce in Sonia e si lega a lei cercandone l'assoluzione, volendo in realtà la pace della propria coscienza: "te voici dans le déshonneur et l'adandon, épuisée par un sacrifice inutile, sans plus rien en ce monde où accrocher un petit espoir.
Tu as commis un meurtre puisque tu as supprimée ta propre vie. Voilà ton péché véritable et je sais qu'il rejette à l'écart de tous celui qui en porte le poids. Je connais un désespoir pareil, la même solitude et je suis comme toi à bout de forces" (172). Un'identità che diventa amore masochistico, sofferente e disperato tra compagni di una simile sventura. Negli ultimi quadri Sonia assume un atteggiamento materno verso Raskolnikof che si lascia invece andare alla disperazione (173). "Nous sauver l'un l'autre. Ressusciter" (174) è ciò che egli vorrebbe, poichè entrambi sono morti con le loro colpe, lui ucciso dalla sua stessa vittima. L'amore gli dà l'illusione del sollievo e della pace, ma è solo l'immagine fugace di una felicità impossibile.

         Sonia, interpretata con "sobrietà" dalla Morelli, è lucida e rassegnata, sostenuta dalla fede che non può invece aiutare Raskolnikof. E' l'unico adulto nella sua famiglia perchè il padre è sempre ubriaco e la matrigna insegue insensati sogni di nobiltà e di gloria, rinchiusa nel suo passato sino a gettarsi nel fiume con i due figli più piccoli. Sonia è la sola a poter affrontare la realtà, a guardarla con coraggio.
         L'altro rappresentante della lucidità nel testo è Porfirio, il poliziotto che sa bene chi è il colpevole, ma contro il quale non ha nessuna prova. Vagamente estraneo alla vicenda, egli, come Fred nella Macchina da scrivere, è interessato alla psicologia, alla personalità dei criminali più che al loro effettivo arresto (la sindrome da 'autoaccusa', motivata da certo fatalismo religioso, colpisce anche qui alcuni personaggi accessori). E' incuriosito dalla inquietante teoria di Raskolnikof contraddetta dalla sua prevedibilità come criminale, e attende l'inevitabile confessione che ossessiona incessantemente ogni assassino: "c'est curieux, mon cher, d'observer comment un homme qui se croit encore libre est déjà rivé à une chaîne [...].
De pareils gens trâinent avec eux une prison dont ils ne peuvent pas s'évader. Avez-vous suivi quelque fois les vols d'un papillon de nuit autour d'une lampe?" (175). Raskolnikof è del tutto  prigioniero del suo crimine il quale doveva invece essere la suprema affermazione di libertà ed indifferenza, di superbia ancor più grande per la gratuità: ha ucciso per obbedire alle  sue teorie, per sentirsi finalmente al di sopra di tutto. La confessione finale, più che catartica liberazione dalle colpe, è la dimostrazione, l'affermazione urlata a tutti gli interpreti riuniti ed al pubblico, della sua stupidità, della sua vanità, il definitivo crollo delle sue illusioni, la grottesca conclusione di una terrificante consapevolezza per mezzo della quale può, con sollievo, rientrare nell'odiata folla, tra gli altri. 

EPILOGO.
         Euridice è l'ultimo testo di autore o di provenienzaa francese che Visconti mette in scena. Non per questo cessa l'influenza francese che prosegue sotterranea in tutte le sue opere, le motiva e le spiega perchè le premesse intuite in Francia continuano ad essere messe in pratica. Il periodo francese è stato il momento del risveglio intellettuale, artistico, politico e personale di Visconti, un'esperienza incancellabile che ha rappresentato la fine di una prolungata adolescenza ed il raggiungimento di una consapevolezza adulta di se e delle proprie possibilità  (poi via via affinate dall'esperienza) e finalità espressive. Quello francese è stato un periodo di formazione e maturazione che ha creato, letteralmente, il successivo Visconti, tutta la sua attività spettacolare e l'importanza della Francia lo porta ad iniziare quasi ogni nuovo capitolo della sua attività artistica con un lavoro di 'estrazione' francese: Ossessione proviene da Renoir e risente dell'influsso del cinema francese; i Parenti terribili sono un testo francese, così come lo è il testo della prima polemica messinscena di un classico, il molto reoniriano Matrimonio di Figaro, seguito dalla prima regia per la Compagnia Italiana di Prosa, anch'essa francese, con il Crime et châtiment di Baty (la regia lirica inizia con la Vestale, musicata da Giacomo Spontini, ma su libretto di Etienne de Jouy). Sono testi in cui Visconti trova e definisce tutti i motivi fondamentali della sua opera che in seguito si metteranno sempre meglio a fuoco, gli argomenti prediletti, stabilisce e dichiara il suo impegno sociale e morale. La dipendenza culturale (e quasi psicologica) dalla Francia è comunque presto rielaborata in forma autonoma ma sempre secondo le direttive delineatesi nel soggiorno francese.
         Con Euridice cessa il diretto e più esplicito influsso francese; anche perchè, in qualche modo, il suo esempio è stato seguito da altri registi che hanno importato e messo in scena testi di Cocteau, Anouilh, Satre, Camus. Non vi è quindi più l'impellente necessità di rinnovare il repertorio, e le novità a teatro saranno d'ora in poi prevalentemente di provenienza statunitense per rivolgersi in seguito sempre più decisamente verso i classici che, rivestiti da nuove interpretazioni, ereditano e non smentiscono l'intento innovativo degli esordi.
         L'evoluzione personale di Visconti lo avvicina poi sempre più alla Germania:

la cultura tedesca è stata importante per me, per quanto io sia più di cultura francese perchè ho vissuto molto in Francia da giovane. La cultura tedesca [...] è venuta in seguito, direi come una presa di coscienza più severa, più seria e non nego che possa aver influenzato e che possa influenzare [...] il mio lavoro.

(176)

         Non vi è molto di nuovo in Euridice rispetto ai temi già emersi altrove. Secondo testo di Anouilh portato in Italia e sulla scena da Visconti, è una storia di sogni e delusioni che qui si impernia sull'amore e sulla morte, due successive illusioni che riuniscono Orfeo ed Euridice in una impossibile ricerca della felicità. La trana ha alcuni punti in comune con Quai des brumes, nella generale perfidia che circonda i protagonisti, il loro non impeccabile passato (soprattutto di Euridice), il tentativo di creare tutto ex novo. La disperazione circonda i protagonisti della pièce e del film, ed è sempre sul punto di travolgerli perchè vi è il medesimo senso della vittoria dell'ingiustizia, la stessa certezza del fallimento, che si traduce in Anouilh nella ripetizione del mito. Simile tra le due opere è anche il populismo che rende Euridice attrice in una Compagnia piuttosto dubbia ed Orfeo suonatore ambulante di violino, personaggi ai margini della società. Vi è del simbolismo nella messinscena che, a detta di Calendoli, "tutta la pervade e la ingarbuglia" (177) e che si ritrova anche nei film di quella corrente (e, in effetti, anche in tutti i film di Visconti). Anche la scenografia sembra uscita, per certa realistica artificiosità e per la bellezza, da un film del Réalisme Noir: così come la stessa ambientazione nella stazione ferroviaria che è luogo comune di incontri tra sconosciuti che sembrano aspettarsi, riuniti dal caso (o dal destino). La scena  nell'albergo, piena di ingenua speranza e preludio alla morte, sembra una citazione letterale del film di Carné, simbolo nei due casi della impossibilità di sperare: dolci e patetiche parole sono scambiate, proteggono i protagonisti da un mondo ostile ed orribile rappresentato dai rispettivi genitori, mostrati nella grottesca e penosa assurdità del loro egoismo (che diventa vero e proprio sfruttamento nel caso di Orfeo): l'unica speranza per i due giovani è la potente illusione del rispettivo amore che è l'epifania improvvisa del 'senso' nel quotidiano squallore e che, molto più che una fuga, è il necessario salvagente, l'ancora di salvezza per entrambi. Ma sulla loro storia d'amore pesa la banalità di tutte le altre ("che faccenda: eccoci nei pasticci tutti e due, di fronte uno all'altra, con tutto quello che dovrà accadere già dietro di noi" [178]), la persecuzione da parte del mondo.
         Ma la vicinanza con l'universo di Carné e Prévert è forse più forte nel testo che nello spettacolo perchè molti aspetti appaiono da Visconti mitigati o cambiati nel senso. Grassi legge il significato della pièce nell'affermazione che la morte non solo è l'inevitabile esito della vita, il destino certo di ogni uomo, ma che questi con essa si libera finalmente anche dell'insopportabile fardello del'esistenza. E' questo un motivo forse più di Anouilh che di Visconti (e che in parte giustifica anche l'aspirazione suicida di Antigone). Non crediamo che Visconti condivida quest'assunto pessimistico, il senso di ineluttabilità del mito e del destino: nei suoi lavori il pessimismo non è ontologico, immanente alla realtà come non vi è mai un superiore fato a guidare gli uomini. Vi è invece sempre spazio per una positiva azione umana, un intervento autonomo, ed è ciò che giustifica lo sforzo di Visconti nella sua definizione di un uomo che abbia coscienza del mondo e che in esso possa liberamente realizzarsi. E' in questo ottimismo latente che risiede veramente l'influsso esistenzialista, l'esistenzialismo diventando una filosofia costruttiva e positiva, non mera contemplazione della propria disperazione. I suoi personaggi sono vinti perchè perseguono vane illusioni che impediscono loro di agire e pensare al di là di ogni costrizione. Il pessimismo di Visconti è relativo, a posteriori, ed è solo conseguente al fallimento dei suoi personaggi e il fine del regista è del tutto 'progressista', tendente cioè ad un miglioramento, una evoluzione:  egli lavora alla costruzione di un uomo più consapevole e moderno, più intimamente libero, sperando che i suoi numerosi exempla possano servire.

Il mio pessimismo è soltanto quello dell'intelligenza [...] mai quello della volontà. Quando l'intelligenza si serve del pessimismo per scavare fino in fondo la verità della vita, tanto più la verità a mio avviso si arma di carica ottimistica, rivoluzionaria.

 (179)

         Nella pièce di Anouilh, il destino è M. Henry: Visconti vede in lui solo il simbolo della morte e nient'altro, il destino diventando in realtà esclusivamente la stessa scelta di Orfeo di morire, ossia di guardare indietro, rievocare il passato.  La sua scelta è l'espressione netta del rifiuto dell'esistenza intesa quale squallida ricerca di una precaria felicità (ripetendo così pensieri e gesti di Antigone), preferendo le illusioni dell'immagine di Euridice alle mediocri certezze della vita, "quella meschinità, quell'assurdo melodramma" (180): Orfeo insegue fino all'ultimo momento un sogno d'amore già svanito che rende anche il suo sacrificio, come quello di Antigone, inutile e superfluo. Orfeo va a raggiungere la sua immaginaria Euridice, l'amore tradito in partenza: muore e la morte gli appare bella perchè il suo potere lenitivo è amplificato, pubblicizzato quasi da M. Henry: "non si soffre mai per morire [...] la morte non fa mai male. La morte è dolce... la vita [...] fa soffrire. Alla morte bisogna affidarsi francamente, come a un'amica" (181). L'evanescente M. Henry, è tratteggiato con "riserva sapiente" e sobrietà da Stoppa in apparizioni che ne fanno un personaggio fantomatico. La sua consapevolezza degli eventi è totale, così come è abile nel prevedere i pensieri e le intenzioni degli altri personaggi. Sempre estremamente gentile con Orfeo ed Euridice, li avverte che "non bisogna credere esageratamente alla felicità", ma la morte che offre ad Orfeo non è che un palliativo di felicità, non è che un'illusione ed una fuga, non è nessuna soluzione.
         Stoppa, inquietante emissario e salesman della morte (182), indossa per tutta la rappresentazione un impermeabile. La sua ambiguità fa pensare al misterioso inquilino de Le notti bianche che nelle ultime inquadrature è imbalsamato in un'espressione inalterabile ed indecifrabile, con addosso, appunto, un impermeabile: non sappiamo bene a cosa realmente preluda questo finale, se alla felicità o ad un ulteriore tormento per Natalia, ed entrambe le possibilità sono nascoste nello statico silenzio di Jean Marais. La sola certezza è che la sua apparizione infrange i sogni di Mario. Ci sono in effetti parecchi paraleli tra Le notti bianche ed Euridice: Natalia e Mario sono amanti disperati, soli, immessi in una scenografia realistica nei particolari ma onirica nell'insieme, ricostruita in studio e figurativamente piuttosto vicina a quella dei film del Realismo poetico, disegnata da Mario Chiari (con Mario Garbuglia) che firma anche la scena di Euridice. Vi è un forte contrasto (Visconti dice di aver utilizzato due diverse pellicole per sottolinearlo) tra la realtà ed i sogni dei protagonisti, e anche la pièce trasuda una "atmosfera compatta di trito, consunto ed offensivo verismo" (183) dove stona ed affoga l'amore di Euridice e di Orfeo. Maria Shell dà al suo personaggio una tenera ed infantile ingenuità che si rinvigorisce sempre nell'illusione del ritorno dell'amante e che le dà toni esaltati e commossi; ma neanche Mastroianni accetta lo squallore del mondo che lo attornia il giorno, andando a cercare l'avventura nella notte, per le strade buie e semideserte.
         Rina Morelli interpreta Euridice con "trapassi vibranti e drammatici, dai toni rauchi di un realismo quasi sanguigno, a quelli cantanti di una evasione verso il sogno" (184). Una recitazione che alterna consapevolezza dell'incubo e desiderio di fuga, con una variabilità che è sinonimo di una certa sofferta doppiezza e consapevolezza del personaggio. "Toni troppo scanditi, anche agressivi con una certa insistenza di valorizzazione di ogni battuta" (185) accentuano il senso di irrealtà dell'amore tra i due che li porta apparentemente fuori dal mondo ma dove ripiombano brutalmente per la morte di lei (e la delusione di lui). D'Amico osserva che De Lullo recita Orfeo con "un'estrema forse eccessiva sincerità" (186), mostrando così la fragilità ed ingenuità del personaggio, ingannato da Euridice. Dopo che è morta, Orfeo vuole capire tutto, scoprire le sue menzogne, e "la vaghaggiata, irreale Euridice si dilegua per sempre, senza più rimedio agli occhi di Orfeo il quale, rimasto definitivamente solo [...] non vede altro scampo che lasciarsi ingiottire a sua volta dal buio dov'è sprofondata Euridice, e dove egli la ritroverà" (187), intatta, con le sue illusioni, non rimanendogli diversa alternativa che la realtà: incapace di accettarla,  fugge via con i suoi sogni, sacrificandosi per non vederli del tutto crollare.
         Visconti viene lodato per l'estrema accuratezza della messinscena, la cura di ogni particolare, il rifrangersi in ogni dettaglio sulla scena del suo sguardo e del suo pensiero; "ha giocato d'intelligenza e d'audacia, insistendo [...] sui particolari dell'agra desolata verità" (188), sottolineando i contorni realistici, i dettagli dell'incubo nel quale rinchiudere e soffocare il sogno d'amore di Orfeo ed Euridice. 

POST SCRIPTUM.
         Dice Vito Pandolfi che "il contrasto fondamentale dei drammi di Anouilh, i termini dell'errore che mina l'esistenza, sono dati dall'ambiente familiare in cui si cresce ed in cui poi, ad onta di qualsiasi ribellione, si è condannati a vivere. Si tenta sempre di evadere dalla situazione in cui ci ha posto il destino, ma è finito il tempo dell'avventura e della speranza" (189). E' singolare come queste parole rievochino fedelmente l'universo viscontiano, come, in effetti, lo spieghino. Anche per Anouilh, la famiglia è il migliore e più chiaro simbolo del legame con il passato, che imprigiona l'individuo impedendogli la fuga e la felicità. In Visconti vi è sempre la possibilità di liberarsi, ma il prezzo è spesso talmente elevato da renderla praticamente impossibile. "I personaggi di Anouilh sono oppressi dal ricordo di uno splendore che ora è offuscato, e nutrono un rancore inestinguibile contro il mondo che li ha sconfitti e che vorrebbero veder distrutto. Ribelli per purezza o disperati per disgusto, essi condannano l'esistenza e la società" (190). I personaggi di Visconti non hanno questa chiarezza eversiva, ma i più lucidi si lasciano spesso trascinare dall'amarezza e dal vuoto della loro vita, dalla chiara visione della prossima morte da cui si sentono autorizzati a fare tutto, approfittare degli ultimi momenti, come Franz Mahler, o Nadia, la prostituta di Rocco e i suoi fratelli, costretta ad un sadico cinismo dal repentino, vile, ed inutile sacrificio di Rocco per il fratello. Il percorso dei più ingenui personaggi viscontiani,  fino al momento della verità, è tutto dentro il passato al quale sono più o meno consapevolmente legati, e che li sta dolcemente soffocando: di questo si accorgono solo in fine, quando è spesso troppo tardi per fuggire.
          L'attività di Visconti è tutta tesa alla rilettura critica del passato, ma rivolta al presente, si giustifica appunto attraverso una forte adesione, un costante riferirsi alla società contemporanea ciò che rende i suoi film, invariabilmente, 'al presente', direttamente o in forme metaforicamente attuali: solo così la storia raccontata prende vita e significato. Ma Visconti sembra ossessionato dal passato, dai legami, i vincoli che esso comporta. Il suo è un tentativo di evasione in parte fallito perchè il passato ed il mondo familiare sono per lui pieni di affetti che non vuole affatto cancellare.

Sono nato nel 1906 e il mondo che mi ha circondato, il mondo artistico, letterario, musicale è quel mondo lì. Non è un caso che mi ci senta attaccato. [...] Probabilmente ho anche dei ricordi visivi, figurativi, una specie di memoria involontaria che mi aiuta a ricostruire l'atmosfera di quell'epoca. Ma d'altra parte, se si vuole raccontare una certa società bisogna pur raccontarla nel contesto dell'ambiente in cui quella società viveva [...]. Oggi tutto è diverso [...], mi sembra tutto meno interessante [...], molto meno stuzzicante, così grigio.

 (191)

Eppure è la sua stessa attività ad allontanarlo dalla famiglia, la sua scelta di artista che evidenzia lo stato di avanzata decomposizione del suo ambiente, del mondo a cui è intimamente e consapevolmente legato.
         Su "L'Unità" del 12 maggio 1946, dichiarando pubblicamente la sua intenzione di votare a favore del P.C.I., Visconti scrive:

a questa lotta [del P.C.I. per l'affermazione di forze più giuste ed umanitarie], credo di collaborare per quello che è il mio ambito, col mio lavoro e così intendo continuare nel futuro. Con questo non si pensi che io creda in un'arte di propaganda, in senso stretto, che enunci cioè  e volgarizzi dogmi politici. Al contrario, ritengo che ogni forma d'arte debba essere liberamente sincera, e il suo più alto scopo sia di chiarire la posizione e i sentimenti dell'uomo in mezzo agli altri, di rafforzare la loro solidarietà attraverso la conoscenza delle loro passioni. [...] Sento anzi vivo il lievito del comunismo a spingere l'artista verso la realtà, a cogliere la vita più vera e conoscere ed esaltare le sofferenze dell'uomo. [...] Questo per me è l'arte: messaggio di vita agli uomini, ed è in una società di uomini liberi che essa troverà la garanzia di un fecondo fiorire.

 (192)

E' una dichiarazione di intenti politici che diventa automaticamente dichiarazione di intenti artistici, tanto i due termini sono per Visconti collegati. Arte e politica si rafforzano a vicenda e acquistano senso nell'equilibrio del reciproco rapporto. Anche dopo la trombosi Visconti afferma che chi fa spettacolo deve "captare queste cose" cioè gli abusi della politica, le storture della società. Bisogna "denunciarle, con esempi  estremi, con racconti carichi di dramma" (193), perché l'arte sia veramente utile.
         L'interesse di Visconti è anche artistico perché la politica da sola diventerebbe volgare ed insulsa propaganda. Nel 1964 egli, in un'intervista per "Le Nouvel observateur", dichiara addirittura:

la politica resta per me una cosa di secondaria importanza. E' l'arte che conta: Far meglio nell'ambito dell'arte, oggi di ieri.

(194)

E' l'arte, lo spettacolo la sua forma di espressione e la validità dei contenuti non può prescindere dalla qualità della forma con cui vengono espressi. Solo una chiara, precisa e coerente ricerca artistica può esprimere pienamente reali contenuti politici i quali non sono imposti dogmaticamente allo spettatore ma che lo invitano a certe conclusioni, soprattutto a porsi delle domande. Nei suoi lavori, Visconti lascia totale libertà di scelta allo spettatore, al quale propone validi esempi umani che possono comunque essere trasportati nel presente: il personaggio viscontiano "inizia il difficile cammino verso la ricerca della verità, una verità profondamente diversa da quella in cui [...] credeva, [...] una verità penosa" (195), ciò che dovrebbe invitare lo spettatore ad un analogo percorso autocritico.
         Il rapporto tra arte e politica si è andato forse allentando con il passare degli anni, mentre si approfondisce il distacco dalla realtà. Un allontanamento dovuto all'età e che egli si concede per dedicarsi a temi a lui più vicini e perché, in tutto il lavoro precedente, ha dimostrato il suo impegno.

Io ho ormai pienamente sviluppato un mio discorso più legato alla realtà immediata.

 (196)

Del resto, anche negli ultimi lavori i suoi protagonisti cercano la verità e non cambia la loro essenza e il complessivo appello alla libertà e lucidità rimane sostanzialmente inalterato.
In un'intervista, del 1972:

sono stato giovane anch'io, e ho fatto La terra trema, Ossessione, Rocco e i suoi fratelli. Adesso sono troppo vecchio per affrontare i problemi di una realtà che non conosco appieno: sono nell'età in cui gli impiegati sono già in pensione, lavoro ancora ma soltanto perché mi diverte e mi è necessario. A noi [vecchi registi] sia concesso di fare un altro cinema, non certo un cinema evasivo, ma quello che sentiamo più consono a noi: è una libertà che ci siamo conquistata, credo.

(197)

L'età e l'intransigenza lo fanno sentire sempre più lontano dai giovani, non gli fanno vedere in nessuno un degno continuatore dei suoi sforzi tanto che finisce per esclamare che "i giovani non ci sono" perché "manca loro uno stimolo", non sono più motivati. Egli sente che non ci sarà un vero ricambio generazionale, ma un cambiamento, che non può leggere positivamente e che lo relega nel passato, lo vincola sempre più ad esso. Visconti condanna severamente i movimenti studenteschi perché contraddicono quanto lui ha sempre affermato. Gli studenti volgono le spalle al passato condannandolo in blocco, riazzerando tutti i concetti ed i valori, facendo tabula rasa, gettando così le basi del loro fallimento. La necessità di ripartire da zero non solo rende difficile il lavoro di ricostruzione ma impedisce di vedere gli errori passati e di capirli: nell'ottica viscontiana non vi può essere alcun futuro senza il passato, e il vero lavoro deve essere allora di ristrutturazione, soprattutto non di completa demolizione che distrugge anche i punti fermi, i valori insostituibili che fanno parte del passato. Nella visione di Visconti, i giovani vogliono un civile imbarbarimento, ripetono aggravati gli stessi errori dei suoi personaggi: solo dal passato e dalla sua completa comprensione si può partire per la costruzione del futuro.
         Visconti si è sempre sentito vecchio, estraneo in qualche modo al mondo che lo circondava. Aristocratico per nascita e comunista per scelta, egli lavorava alla distruzione della sua stessa classe sociale, della sua identità culturale e la sua cultura gli serviva proprio per meglio vedere il manifestarsi dei primi cenni di quest'agonia. L'avvento sicuro del proletariato,  che si prospetta nella visione comunista, gli permetteva di contemplare la decadenza ed il fallimento di tutto il suo mondo mettendolo esattamente nella posizione del Principe di Salina, non potendo però nascondere il suo tradimento -che è motivo ricorrente nell'opera viscontiana- nemmeno dietro la parvenza di un inevitabile opportunismo, come fa il principe. Questa situazione dà forse un comune aspetto lugubre a tutti i suoi spettacoli che ritraggono individui e società al tramonto, vicini alla morte. Non vi è autocompiacimento nella tristezza, ma solo lucidità, quella stessa che fa emergere nei suoi personaggi dei quali critica la cecità: egli è lucido, sa bene qual è la sua condizione, vede l'inevitabilità della trasformazione: la sua opera diventa quasi una grande danza macabra, un balletto di condannati da lui guidato. Visconti non giustifica i suoi personaggi, ma li capisce da vicino:

mi sembra evidente che quando si vuole raccontare qualcosa a qualcuno non si può farlo che attraverso se stessi. Come testimoniano Flaubert e il suo "Mme. Bovary c'est moi"

(198)

Ciò che conferma che vi è 'del Visconti' in ogni suo personaggio, ma con un'identificazione solo parziale poichè vi è sempre uno scarto, un'indipendenza che permette al regista una visione critica e consapevole.
         La sofferenza, il senso del tradimento, il ricorrere dell'incesto, la stessa predilezione per il melodramma tragico hanno allora una spiegazione anche psicologica, sono radicati nella stessa consapevolezza di Visconti di essere al termine di un'epoca e di farne parte. Egli porta con crudeltà i suoi personaggi verso una simile presa di coscienza, ed è proprio nella imprescindibile e imperterrita razionalità che si situa la stessa sofferenza del regista. Forse vi è in lui anche il dubbio che la trasformazione che si prospetta non sia del tutto positiva, non porti ad un futuro realmente migliore: è il dubbio che aleggia nelle ultime inquadrature di Rocco e i suoi fratelli e contraddice la fede di Ciro, la sua sicurezza, rende triste, grigio ed ambiguo il finale:  come i suoi fratelli,  anch'egli è forse un illuso.
         Visconti è stato accusato di essere un decadente, ma il decadentismo dei suoi spettacoli deriva dai personaggi e dalla situazione in cui si trovano.

Il decadentismo è una cosa molto pregievole. E' stato un movimento artistico estremamente importante. Se oggi noi cerchiamo di immergerci nuovamente in quel tipo d'atmosfera, lo facciamo perchè vogliamo dimostrare l'evoluzione della società anche attraverso i cataclismi che l'hanno sconvolta e che hanno portato alla decadenza di una grande epoca. Mi pare che nel far questo ci sia [...] impegno politico

(199)

Tutti i suoi personaggi ripercorrono ossessivamente quel progressivo avvicinamento alla verità che Visconti aveva sperimentato in Francia (il senso del vecchio affiora anche in questa ripetizione cui sono costretti i personaggi, dà loro l'aspetto di 'déjà vu'). Il suo intento è sempre stato 'progressista', sin da Cinema antropomorfico in cui si dichiara interessato al cinema perché permette al regista di esprimersi "purchè non sia corrotto da una decadentistica visione del mondo" (200), sterile e meramente contemplativa. Con i suoi personaggi, Visconti cerca di stimolare ad una completa consapevolezza mirando al superamento dei condizionamenti. Il suo intento si identifica con quello di Sartre, perchè "il primo passo dell'esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di ciò che egli è, e di far cadere su di lui la responsabilità totale della propria esistenza" (201), fargli capire a chiare lettere quanto sia libero ed il prezzo di questa libertà, la responsabilità che essa comporta. Nell'incertezza dell'esistenza di Dio (da Sartre negata, ma da Visconti almeno sperata), è preciso dovere dell'uomo di prendere su di se, consapevolmente, la responsabilità del mondo, ciò che è possibile solo se ogni uomo, indipendentemente, è responsabile della sua vita, padrone indubbio di ogni suo momento deciso in perfetta autonomia: "l'uomo è condannato ad essere libero. Condannato perchè non si è creato da se stesso, e tuttavia libero, perchè una volta gettato nel mondo è responsabile di tutto ciò che fa" (202). Vi sono due modi per raccontare:

vi è un modo estetico e compiaciuto che io non esito a definire asociale, anzi antisociale, V'è un modo invece, che esamina le condizioni della sconfitta [...] e che tanto più si arricchisce di speranza e di energia quando più fa emergere dalla rappresentazione artistica il volto reale dell'ostacolo, e il rovescio luminoso di una diversa prospettiva.

(203)

Visconti sceglie il secondo, ma la scelta stessa dei temi e dei testi, che risponde ad un'istanza polemica e dialettica con la realtà, denuncia anche il suo personale interesse, le sue preferenze. Esse sono state sottoposte ad una ferrea e rigida disciplina razionale che lo ha allontanato dalle naturali inclinazioni del suo carattere portandolo anzi, attraverso i suoi personaggi, a criticarle aspramente, a metterne in luce la debolezza e la stupidità, perchè "l'esistenzialista non crede alla potenza della passione. Non penserà mai che una bella passione è un torrente che conduce fatalmente l'uomo a certi atti ed è di conseguenza una scusa. Pensa che l'uomo è responsabile della sua passione" (204) così come lo pensa anche Visconti, benchè egli creda al potere devastatore delle passioni dalle quali però non si autorizza ad essere sopraffatto, non potendo rinunciare ad un potente filtro razionale. Parlando di Morte a Venezia, Visconti afferma che il tema del film é: "l'arte, la vita, la morte, che sono inscindibili" (205): esse sono presenti anche nel lavoro di Visconti che tende a rendere evidente, a palesare la morte o l'apparenza della vita in ogni umana cosa, riuscendo così a coniugare i tre termini in modo nuovo e non decadente.

Mi ha sempre attratto il tema del dissidio che può intercorrere tra un artista con le sue aspirazioni estetiche e la vita, tra il suo essere apparentemente sopra la storia ed il suo partecipare alla condizione storica borghese.

(206)

Alle illusioni di Ascenbach, Visconti contrappone le sue sofferte ma necessarie disillusioni, perchè ormai l'arte non può permettersi di essere separata dalla realtà, di non essere coscientemente implicata nella "condizione storica borghese" in quanto la sua funzione è quella di interpretarla e non di reinventarla ed abbellirla. Solo così nell'artista arte e vita possono di nuovo identificarsi, entrambe vincolate con rapporto di reciproco supporto, da un preciso e ferreo impegno morale nei confronti della realtà, e la vita può trovare il suo completamento e la sua sincera espressione nell'arte. "Morte a Venezia non è una storia sentimentale, ma di distruzione. E' la ricerca della perfezione da parte dell'artista; il suo significato simbolico è che si può arrivare alla bellezza solo attraverso la morte" (207): vi è quindi l'affermazione dell'inesistenza dell'arte, almeno nella concezione di Ascenbach, la cui prepotente ed amata perfezione non esiste e il musicista è vittima solo di un ridicolo innamoramento, di un'illusione.
         Da vecchio è anche l'atteggiamento di Visconti nei confronti dei suoi personaggi per i quali, come in Renoir, cade l'aprioristica chiave di lettura (moralistica, romantica o ideologica) per lasciar spazio alla tolleranza, alla lucidità. Egli li lascia totalmente liberi di realizzarsi e sbagliare, seguendo fedelmente il procedere dei loro errori; li guarda andare al macero, avviarsi alla morte con lo sguardo saggio di colui che sa dove arriveranno ma che non interviene a deviare il loro tragitto. Perché sarebbe un inaccettabile arbitrio e contravverrebbe al suo intento di realismo antropologico, il suo impegno morale ed umano di artista. L'imparzialità della visione lo pone automaticamente fuori dell'agone, lo strania dal contesto e lo mette nella posizione di Fred ne La macchina da scrivere, che indaga sui componenti della famiglia dell'amico con un ingarbugliato miscuglio di partecipazione e lontananza, cinico interesse intellettuale e sincera affinità (208).
         Visconti  sente di non far parte del futuro: egli si limita ad indicarne la via, mostrare il cammino che vede con estrema chiarezza senza percorrerlo egli stesso perché troppo legato al passato. Egli non può che sostare nel crepuscolo, nel presente che è il luogo di tutti i futuri possibili, dove si può agire e smodificarsi per riuscire conformi al proprio "progetto". Il presente diventa così il punto di rottura della continuità perché il passato vi viene rimesso in discussione, un mutato punto di vista ne permette un diverso giudizio. Ma se il passato non è che un ricordo da rileggere e riciclare ed il futuro un'idea ancora da verificare, Visconti è condannato al presente aspirando per inclinazione personale al passato e per razionale scelta al suo superamento perchè "l'uomo si getta verso un avvenire, [é] colui che è cosciente di proiettarsi nell'avvenire" (209). Il presente è per Visconti una imprecisa e dolorosa zona di confine dove l'unica irrinunciabile certezza è l'impossibilità del ritorno del passato.


NOTE

1.                     G. RONDOLINO,  Visconti, Torino, UTET, 1981, p. 45. 
2.                     Ivi, p. 63.
3.                 L. SCHIFANO, Visconti, Les feux de la passion, Paris, Flammarion, 1987, p. 156. Horst afferma, parlando di Visconti: "pour moi l'homosexualité était tout le contraire d'un problème, mais pour lui [Visconti] il n'en allait pas de même. Je le rendis plus sûr de lui, justement parce que je n'aurais pu moins le tourmenter que je ne le faisais à ce sujet" (Ivi, p. 154). Jean Marais: "en 1937, à l'époque où je l'ai connu, l'homosexualité ne lui [a Visconti] posait aucun problème; il ne l'affichait pas, c'est tout" (Ivi, p. 156).
4.                     G. RONDOLINO,  Visconti, cit., p. 46.
5.                     Ivi, pp. 55-6.
6.                     Intervento di F. Truffaut in A. BAZIN, Jean Renoir, Paris, Editions Gérard Lebovici, 1989, p. 199. 
7.                     AA.VV., Leggere Visconti, a cura di G. Callegari e N. Lodato, Pavia, Amministrazione Provinciale di Pavia, 1976, p. 100.
8.                     A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 73.
9.                     L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema, Catalogo critico a cura di  A.             Ferrero, Ufficio Cinema del Comune di Modena, Modena, 1977, p. 34.
10.                   A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 74.
11.                   Ivi, p. 146.
12.                   L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 34.
13.                   AA.VV., Leggere Visconti, p. 70. E' forse interessante mettere direttamente a confronto, per quanto ci è possibile, la direzione dell'attore in Renoir e in Visconti. Nel caso di Renoir, ciò è facilitato dal disporre della trascrizione di un cortometraggio, intitolato, appunto, La direction d'acteurs par Jean Renoir, girato nel 1968 da Gisèle Braunberger e trascritto in AA.VV.,  "L'Avant-scène cinéma", n. 251/252, 1/15 luglio 1980, pp. 115-120. Nel filmato, Jean Renoir applica il suo metodo alla recitazione di un monologo tratto da un romanzo, interpretato dalla stessa regista.
In un primo tempo, Renoir spiega e descrive la scena, raccontando l'antefatto: "chère Emily, chère Gisèle (il rit), ce qu'il faut que nous trouvions c'est le mystérieux mariage entre vous et l'Emily qui est dans ces lignes [Ivi, p. 116]. Egli sostiene che la riuscita di un film dipende in massima parte dalla distribuzione, dalla capacità dell'attore di scoprire il personaggio, e solo allora "on a un grand film, parce que les personnages sont des personnages, qui ne correspondent à aucun autre personnage connu, ce sont des personnages originaux, ce sont vraiment des créations" [Ibidem]. Per ottenere questo, egli ricorre ad una prima lettura inespressiva del testo, in cui "on s'interdit absolument toute autre expression, on lit [...] les mots et puis alors ça pénètre, ça pénètre tout doucement" [Ibidem]. Questa lettura permette di liberare il contenuto dal flusso di immagini e stereotipi che subito si presentano e costringono  inconsapevolmente l'interpretazione a percorrere strade già battute. Solo dopo si può passare a "donner de l'expression": Renoir evidenzia il contenuto emotivo delle parole (attento anche a seguire suggerimenti coerenti da parte dell'attrice). Una volta impossessatasi del contenuto verbale ed emotivo delle sue battute, Gisèle deve cercarne l'"expression personnelle" assolutamente originale: "mais surtout tachez de bien oublier tout ce que vous avez vu à propos de  scènes de ce genre [...]. Faut que ce soit vous, pas d'autres" [Ivi, p. 119]. Renoir 'aggiusta' le proposte dell'attrice con indicazioni e correzioni, sino a farla arrivare alla sua personale immagine del personaggio e della scena: è lui a guidare la ricerca in comune. Successivamente, l'attrice, sul set, ritrova il personaggio per infine adattarlo all'ambiente. Visconti lavora in modo simile con gli attori, con un approfondito studio preliminare del testo assieme agli attori ai quali chiede di "spogliarsi completamente della loro individualità, di entrare nei personaggi. [Gli attori] si indirizzano, si guidano, si aiutano, si consigliano e [...]  non si dà inizio alla parte spettacolare, scenica della regia" finché essi non sono perfettamente maturi nei loro personaggi. (L. VISCONTI, Esperienze di un regista sul palcoscenico e nello studio, in Giovanni CALENDOLI, Cinema e teatro, Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1957,.p 351). Visconti, nei confronti delle battute di una sceneggiatura cinematografica, lavora tra il suggerimento e la suggestione: "suggerisco agli attori gli argomenti ed essi provano ad esprimerli a modo loro [...] la sceneggiatura serve come base, è l'ossatura del film. E occorre averla sempre presente. Ma nè l'azione nè il dialogo definitivi si possono predisporre. Nel film realista i personaggi non possono dire le cose che in un certo modo: bisogna trovarlo. Del resto penso che l'autore del film sia uno solo: il regista" (AA.VV., Visconti: il cinema,  cit., p. 45). A teatro, è necessario invece attenersi alle battute del testo in cui le battute "si presentano in una forma che è compiuta, intoccabile. Bisogna darne la realizzazione spettacolare sul palcoscenico, cercando naturalmente di avere il massimo rispetto per un testo che abbiamo scelto noi stessi e che quindi, indubitabilmente, amiamo" (L. VISCONTI, Esperienze di un regista sul palcoscenico e nello studio, in Giovanni CALENDOLI, Cinema e teatro, cit., p. 349). "L'attore dev'essere sicuro del suo testo, di tutte le sfumature del suo testo, non sicuro solamente di saperlo a memoria, che è la cosa meno importante... anzi, se l'attore mi viene a una prova a tavolino avendo già la parte nell'orecchio, allora son guai, perché io raccomando che non studino la parte a memoria: la parte deve attaccarsi all'attore con queste lunghe sedute che si fanno [...] l'attore che studia la parte come la si studiava nell'Ottocento e la studia a memoria a macchinetta [...] è pieno di difetti e non glieli leva più nessuno. Perché la studia a modo suo (L. VISCONTI, Il mio teatro, a cura di Caterina d'Amico de Carvalho e Renzo Renzi, Bologna, Cappelli, 1979, vol. I, p. 88).
14.                   A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 138.
La Règle è la perfetta espressione dell'ideale stilistico renoiriano che tende al "drame gai", (Ivi, p. 67) in bilico tra dramma e commedia: qui la lontananza da Visconti è molto forte, poiché l'italiano si trova molto più a suo agio nella tragedia: ovviamente l'identità tra  due registi non può essere totale.
15.                   AA.VV., Leggere Visconti, cit., p. 115.    
16.                   A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 66.
17.                   L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 33.
18                    A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 153.
19.                   G. RONDOLNO, Visconti, cit., 46.
20.                   AA.VV., Leggere Visconti, cit., p. 106.
21.                   Ivi, 100.
22.                   L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 34.
23.                   AA.VV., Leggere Visconti, cit., p. 106.
24.                   Ivi, p. 104.
25.                   Ivi, p. 105.
26.                   Toni è il film nel quale molti critici hanno ravvisato segnali premonitori del neorealismo italiano, che trova successivamente in Ossessione il suo primo risultato concreto. Il film francese si basa su un fatto di cronaca girato con attori non professionisti in esterni reali, nei luoghi stessi dove era avvenuto, affidandosi alla espressività di marcate inflessioni regionali o dialettali colte in presa diretta. Sono tutti elementi che si ritroveranno nel primo film di Visconti e, esasperati, soprattutto  ne La terra trema.
27.                   La scena che meglio sembra 'citata' in Ossessione, è quella dell'albergho, al mattino: i due amanti parlano del loro futuro, mentre lui si pettina davanti allo specchio e lei è ancora a letto. E' una scena castissima che non ha nulla a vedere con la forte sensualità del corrispettivo in Ossessione: nel film francese i vestiti risultano ordinatamente ripiegati sulla sedia ai piedi del letto, mentre la Calamai solo 'dopo' trova modo di levarsi il vestito. Vi è poi la buffa analogia del cane, che accompagna Gino, inquadrato solo di piedi, all'interno dell'osteria di Giovanna: un cane molto simile a quello che si affianca a Gabin in Quai des brumes,  bianco pezzato, solo un po' più sfatto quello italiano.
28.                   G. RONDOLINO, Storia del cinema, Torino, UTET, 1988², p. 327.
29.                   AA.VV., Leggere Visconti, cit., p. 75.
30.                   Ivi, p. 104.
31.                   Ivi, p. 103.
32.                   L. VISCONTI, Esperienze di un regista sul palcoscenico e nello studio, in Giovanni CALENDOLI, Cinema e teatro, cit., p. 350.
33.                   L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 34.
34.                   AA.VV., Leggere Visconti, cit., p. 142.
35.                   André Bazin, citato in Filippo M. De Sanctis, Alcuni significati di Bellissima, in AA.VV, L'opera di Luchino Visconti, Atti del convegno di studi di Fiesole, 27-29 giugno 1966, a cura di Marco             Sperenzi, Firenze, A. Linari, 1969, p. 296.
36.                   L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 32.
37.                   "Astraendo con violenza dagli schemi precedenti, da ogni ricordo di metodo e di scuola, si cerchi di portare l'attore a parlare finalmente una sua lingua istintiva. Si intende che questa fatica non sarà sterile, solo se questa lingua esiste sia pure involuta e nascosta sotto cento veli: se esiste cioè un vero <<temperamento>>" (L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema, cit. , p. 35).
38.                   L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 32.
39.                   G. GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio), in AA. VV., Visconti: il teatro, Catalogo della mostra a cura di Caterina D'Amico de Carvalho, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale di Reggio Emilia, 1977, p. 36.
40.                   L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 36.
41.                   S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, Torino, ERI, 1953, p. 13.
42.                   AA.VV., Leggere Visconti, cit., p. 93.
43.                   L. VISCONTI, Cadaveri, in  AA.VV., Visconti: il cinema,  cit., p. 32.
44.                   AA.VV., Leggere Visconti, cit., p. 70.
45.                   "Le ragioni de La terra trema riguardavano anche, in fondo, questa perplessità che aumentava in me di giorno in giorno, vedendo che il movimento [neorealistico] tralignava, perdeva il suo prestigio. Donde, a un certo punto, il bisogno di ritornare veramente alle origini, alla verità pura, senza alcun inganno. Senza montaggio prestabilito, senza veri attori" (Ivi, p. 101).
46.                   L. VISCONTI, Tradizione e invenzione, in AA.VV., Visconti: il cinema,  cit., p. 31.
47.                   Ibidem.
48.                   "Nella Terra trema, Visconti 'teatralizzava' una materia doppiamente realistica; nel senso normale della parola, poiché si trattava di un vero villaggio e della vita autentica dei suoi autentici abitanti, e anche nella sua accezione ristretta e 'miserabilistica'. Niente di meno bello e meno nobile, di meno spettacolare di questa povera comunità di pescatori. Non intendo naturalmente l'epiteto 'teatrale' in un senso peggiorativo, al contrario cerco di definire la nobiltà e la straordinaria dignità che la regia di Visconti faceva apparire in quella realtà. Quei pescatori non erano vestiti di cenci. Ne erano drappeggiati, come principi di una tragedia. Non che Visconti cercasse di deformare o soltanto di interpretare il loro comportamento; ne rivelava l'immanente dignità" (André Bazin, citato in Filippo M. De Sanctis, Alcuni significati di Bellissima, in AA.VV, L'opera di Luchino Visconti, cit., pp. 294-5).
49.                   V. MARINUCCI, Luchino Visconti più che regista: autore di spettacoli, "Il Dramma", n. 84, I maggio 1949.
50.                   AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 104.
51.                   Ivi, p. 63.
52.                   AA.VV., Visconti: il cinema,  cit., p. 59.
53.                   AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 68.
54.                   Ibidem.
55.                   AA.VV., Visconti: il cinema,  cit., p. 55.
56.                   La varietà di temi, pur nella ricorrenza quasi ossessiva di alcuni elementi, è comunque tipicamente viscontiana: "i temi sono tanti, bisogna affrontarli tutti, i temi. Io non ho un tema solo [...]. Preferisco pigliare temi diversi per arrivare alle stesse conclusioni, dire le stesse cose" (L. VISCONTI, Alla ricerca di Tadzio, R.A.I., Italia, 1970. Trascrizione personale).
57.                   Nel 1948, parallelamente alla realizzazione de La terra trema, Visconti dichiara: "nel cinema questo termine [il neorealismo] è servito a definire le idee che ispirano la recente "scuola italiana". Ha raccolto [uomini, artisti] che credevano che la poesia nascesse dalla realtà. Era un punto di partenza. Mi sembra che cominci a diventare un'assurda etichetta. [...] A teatro ho spinto il neorealismo lontano quanto era possibile, [...] l'ho fatto quando ho voluto servirmi degli oggetti e dei ricordi della realtà che si erano allontanati dal quadro della nostra fantasia" (AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 28). Ciò che interessa Visconti è lo spettacolo senza limitazioni o etichette: "non realismo o neorealismo, ma fantasia, libertà totale dello spettacolo" (Ibidem) e del regista nel metterlo in scena per poter ritrovare l'essenza del testo in conformità alla propria interpretazione, a teatro come al cinema. Il Realismo Poetico francese non ha mai ritratto fedelmente la realtà, ma ne ha sempre fornito una più o meno valida rielaborazione, sempre e comunque personale. Renoir ha tentato di togliere alcuni artifici per avvicinarsi di più all'essenza realistica, ricercando un approccio meno mediato ma sempre personale e caratterizzato da una prospettiva critica.
"Ce qu'on nomme couramment <<réalisme>> n'a pas tant de sens absolu et clair qu'il ne désigne plutôt un mouvement, une tendance vers le rendu fidèle de la réalité. En quoi aussi l'apologie du <<réalisme>> ne signifie au fond strictement rien car il est mille façons d'aller  vers le réel et ce mouvement n'a de prix qu'en raison de ce qu'il crèe c'est-à-dire du supplément d'abstraction qui en découle [...] il n'y a d'intérêt à mieux rendre le réel que pour lui faire signifier davantage" (A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 78): queste parole, dedotte da Bazin dal lavoro di Renoir, si applicano magnificamente a Visconti che del realismo -non del neorealismo- ha fatto la sua bandiera, poichè egli tende alla fedele (quindi realistica) restituzione del mondo del protagonista, anche se onirico, allucinato o deformato: "il cinema è tutto, purchè sia verità" (AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 117), così come il teatro. Ogni mezzo espressivo è pertanto lecito, se sincero, ma: "non si può e non si deve uscire dalla realtà. Io sono contro le evasioni" (AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 46).
58.                   AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 48.
59.                   AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 100.
60.                   Ivi, p. 88.
61.                   AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 43. "Si tratta in sostanza della storia di una donna, o meglio di una crisi: una madre che ha dovuto rinunciare a certe segrete aspirazioni piccolo borghesi, tenta di realizzarle attraverso la figlia" (Ibidem).
62.                   La struttura binaria del film è messa in evidenza in Filippo M. De Sanctis, Alcuni significati di Bellissima, in AA.VV, L'opera di Luchino Visconti, cit.

63.                   Ivi, p. 289.
64.                   Sembra che proprio in questo film, contrariamente alle sue abitudini, Visconti abbia concesso spazi notevoli di improvvisazione alla sua attrice per la sua bravura ed intelligenza. "La Magnani ha una recitazione piena d'istinto popolare, che non ha niente a che fare con il teatro di mestiere. Sa mettersi al livello degli altri, e in certo modo sa portare gli altri al suo. Io ho puntato essenzialmente su questo particolare e straordinario aspetto della sua personalità" (AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 43).
65.                   AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 100.
66.                   AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 58.
67.                   AA. VV., "L'Avant-scène Cinéma", n. 251/252, 1/15 luglio 1980, p. 161.
68.                   G. RONDOLINO,  Visconti, cit., p. 274. "Meno di un paio di anni dopo [la prima riduzione viscontiana], il testo fu tradotto in film da Jean Renoir, col titolo Le Carrosse d'or, sia pure con una sceneggiatura diversa, con Anna Magnani come protagonista, un'attrice alla quale presumibilmente pensava anche Visconti per il personaggio della Perichole" (Ibidem).
69.                   F. TRUFFAUT in A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 260.
70.                   AA. VV., "L'Avant-scène Cinéma", cit., p. 146.
71.                   ibidem.
72.                   A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 228.
73.                   Ibidem.
74.                   M. VERDONE, Omogeneità e coerenza dell'opera di Visconti nel teatro e nel cinema, in AA.VV., L'opera di Luchino Visconti, cit., p. 251.
75.                   E' sorprendente vedere quante convergenze (quindi affinità) vi siano  tra Renoir e Visconti anche solo ad un sommario spoglio e confronto di alcuni dei loro progetti abortiti, prescindendo da ipotesi di un vero e proprio scambio di soggetti o idee. Ovviamente figura tra i progetti di Renoir (ma non è datato) l'adattamento de Il postino suona sempre due volte che realizzerà Visconti (preceduto in Francia da Pierre Chenal con Le dernier tournant): a quanto sembra, Renoir ci pensava sin dal 1936. Tra gli altri adattamenti figurano progetti da Anoulih (Roméo et Jeannette) e da Cocteau (Anna la bonne), due autori importanti per il Visconti teatrale. Del 1951 risulta il progetto de L'étranger di Camus, interprete Gérard Philippe. All'attore Visconti aveva pensato verso il 1949 per Cronache di poveri amanti, mentre realizzerà romanzo di Camus 1967 con Marcello Mastroianni. Infine, Louis Jouvet, attore con Renoir ne Les Bas-fonds (secondo alcuni, Visconti pare abbia collaborato al film come assistente ma non vi sono notizie precise al riguardo), sembra sia stato contattato da Visconti attorno al 1945 per una riduzione cinematografica dell'Otello di Shakespeare.
76.                   AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 78.
77.                   G. GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio), in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 37.      
78.                   In Ossessione vi è soltanto il sogno, il tentativo fallimentare di costruire una famiglia nuova per Giovanna che rifiuta -e sopprime- il vecchio marito -la famiglia sbagliata- e concreta manifestazione di un passato da cancellare. E forse vi è nella donna l'intenzione di sfruttare Gino proprio per liberarsi del fardello di un marito ormai inutile: vi è forse in lei del calcolo -quindi una certa lucidità- soffocato in seguito dalla passione. Con Gino vi è il confuso bisogno di sedentarietà in un personaggio sino a quel momento girovago e senza legami. Ma la loro famiglia, rappresentata da quel figlio annunciato che muore con la donna, non diventerà mai realtà.
79.                   AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 90.
80.                   Yvonne dà una ridefinizione dell'incesto come conseguenza della prolongata intimità tra i due coniugi, ritenendo invece perfettamente comprensibile e normale il suo rapporto con Michel: "[...] après vingt ans de mariage l'amour change de forme.
Il existe une parenté entre époux qui rendrait certaines choses très gênantes, très indécentes, presque impossibles" ( J. COCTEAU, Les parents terribles, Paris, Gallimard, Collection Folio, 1972, p. 28).
81.                   Ivi, p. 179.
82.                   Ivi, p. 9.
83.                   Ivi, p. 26.
84.                   Ivi, p. 9.
85.                   Ivi, p. 11.
86.                   Cocteau vuole scrivere "une suite de scènes -véritables petits actes- où les âmes et les péripéties soient, chaque minute, à l'extrémité d'elles-mêmes" (Ivi, p. 12). Ancora, nella ricerca del tipo di testo da scrivere, Cocteau scopre che "il fallait écrire une pièce moderne et nue, ne donner aux artiste et au public aucune chance de reprendre haleine" (Ibidem).
Cocteau, nella sua messinscena del testo, mantiene l'interpretazione "sopra toni d'una esasperazione tra indiavolata e meccanica, sicchè il pubblico non sapeva mai bene se dovesse decidersi a rabbrividire oppure a sorridere" (S. D'AMICO, Cronache del teatro, Bari, Laterza, 1963, p. 588). La scelta totalmente realistica e 'credibile' di Visconti risponde ad esigenze diverse: solo un potente coinvolgimento avrebbe reso la forza del testo e fatto emergere la sua valenza polemica. Non poteva quindi permettersi di accentuare l'aspetto ludico e parodico del testo, la sua artificiosità ironica attraverso il ricorso al grottesco perché avrebbe funzionato da distrazione straniante che avrebbe annullato l'impatto emotivo: era proprio il suo ossessivo ed eccessivo realismo sul palcoscenico a fare della sua messinscena una novità nel panorama teatrale italiano. "Alla lettura il dramma appare di toni estremamente ambigui. [...] suona estremamente falso, equivoco, pieno di sospetti: non per nulla lo stesso autore avverte, nelle battute dette dai suoi personaggi: <<questo è mèlo>>, <<questo è Labiche>> (Ibidem), mentre Visconti tende a renderlo assolutamente accettabile e il pubblico è "preso ai lacci della favola ch'è tutta fitta e non gli dà quartiere, preparata e giustificata particolare per particolare con minuzia meticolosa" (Ivi, p. 589).
87.                   AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 115.
88.                   AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 72.
89.                   In Solange sembrerebbero quindi sovrapporsi i personaggi di Maddalena e di Yvonne, madre-amante del figlio o di una sua figura speculare. Non a caso Solange dice a Massimo che potrebbe essere sua madre, e aggiunge: "je te garde, je te soigne, je te protège, je t'aime" (J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théatre, vol. II,             Paris, Gallimard, 1976, p. 150), sottolineando il suo atteggiamento materno. Avendo per amante Massimo, il figlio Claudio si troverà in una situazione normale (diversa da quella di Michel nei Parenti terribili) tanto che a lei "trouvera naturel qu'il tombe amoureux" (Ivi, p. 158), battuta in cui fa capolino il pericolo di Yvonne.
90.                   L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 48.
91.                   Ibidem.
92.                   Il giovane viene da Fred definito, a causa delle conseguenze della permanenza in provincia, come sempre "sombre, nerveux, secret, menteur, comédien, faible, têtu, adorable" (J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théâtre, cit., 129).
93.                   Ivi, p. 162.
94.                   L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 48.
95.                   S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 54.
96.                   J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théatre, cit., p. 104.
97.                   S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 51.
98.                   G. GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio), in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 44.
99.                   L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 48.
100.                 J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théatre, cit., p. 205.
101                  In entrambi i testi siamo di fronte ad uno scombussolamento dei generi canonici, perchè La machine à écrire si muove tra commedia, farsa, tragedia e dramma, introspezione psicologica mista a rivendicazioni sociali e morali su di un palinsesto poliziesco, il tutto trattato con distaccata ironia alternata a serietà d'intenti. Continua anche in questo testo la difficile ricerca di una adeguata espressione teatrale, che torna sui suoi passi, sulle tracce di forme vecchie che diventano un ritorno al boulevard: "boulevard veut dire gros public.
Et c'est au gros public que le théâtre s'adresse [...] Le problème du théâtre consiste [...] à créer un malentendu: ne renoncer à aucune de nos prérogatives, et atteindre cette masse mystérieuse [che è il grande pubblico]".(J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théâtre, cit., p. 103). Allora il testo stesso diventa una falsificazione, un inseguimento di  se e del pubblico perché il segreto del teatro è barare, creare artificialmente le condizioni di un malinteso, e la Machine è un grosso malinteso che confonde tutte le piste per essere solo teatro e spettacolo.
102.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 81.
103.                 AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 150.
104.                 Ibidem.
105.                 Ivi, p. 107.
106.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 77.
107.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 53.
108.                 S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 46.
109.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 54.
110.                 S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 59.
111.                 ANOUILH Jean, Antigone, Paris, La Table Ronde, 1988, p. 82.
112.                 S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 60.
113.                 Ivi, p. 59. Il testo antico emerge sporadicamente nelle parole di Antigone, e "quando l'Antigone di Anouilh ne pronuncia alcune poche di Sofocle [...], è come se si fosse aperto per un attimo tutto un immenso sfondo luminoso, a ridarci, con un confronto tremendo, il senso del pamphlet in cui, dall'antica tragedia, siamo andati a precipitare" (Ivi, p. 60). Della tragedia originale, il testo francese sembra un ridicolo bignami che getta luce ancor più dubbia sulla moderna Antigone.
114.                 Antigone è vicina a Ludwig, come lui bisognosa d'assoluto che rifiuta la vita come le è stata definita, ma che si muore inutilmente inseguendo immagini assurde e lontane, vane illusioni del tutto simili ai sogno del re di Baviera. In Elisabetta risuonano parole ("prince sans histoire") e significati, inviti alla prudenza e alla rassegnazione che sono anche di Creonte, ma che non vengono ascoltate dai protagonisti, accecati dal loro (pur comprensibile) sogno. Parlando della guerra, Ludwig sottolinea che i suoi alleti come i suoi nemici sono tutti suoi parenti, suoi cugini: "noi facciamo tutto in famiglia, facciamo le guerre e i matrimoni. Facciano i figli. Siamo incestuosi e fratricidi, senza sapere perchè" (L. VISCONTI, Ludwig, Mega Film-Cinétel-Dieter Gaissler Filmproduktion-Divina Film, Italia-Francia-Repubblica Federale Tedesca, 1973. Trascrizione personale). La stirpe dei re d'Europa è dannata, come quella di Edipo: è una grande famiglia dissoluta all'interno della quale tutto è fatto, che non ammette fughe, legata ad imprescindibili, soffocanti ripetizioni che non autorizzano a vivere liberamente. Il lamento di Ludwig fa eco a quello di Elisabetta che consiglia prudentemente al cugino di dimenticare i sogni di ruolo per attenersi al suo ruolo di re, già scritto e delimitato: "i regnanti come noi non hanno storia: servono di parata. Ci dimenticano presto, a meno che non ci diano un minimo d'importanza assassinandoci" (Ivi). Vittime della propria condizione, della propria identità, della famiglia e delle sua ancestrali tradizioni, eleganti pupazzi che non possono pretendere di vivere.
115.                 J. ANOUILH, Antigone, cit., p. 115.
116.                 Ivi, p. 11.
117.                  "Pour moi", è l'unica motivazione del suo comportamento che è capace di dare a Creonte. Forse vi è anche il bisogno di riscattare in modo plateale il suo aspetto insignificante di ragazza brutterella, piccola, taciturna e magrolina, dimessa e senza altre ambizioni.
118.                 J. ANOUILH, Antigone, cit., p. 123.
119.                 G. GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio), in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 47.
120.                 J-P. SARTRE, Huis clos, Paris, Gallimard, Collection Folio, 1972, p. 92.
121.                 Ivi, p. 40.
122.                 Ivi, p. 41.
123.                 Ivi, p. 91.
124.                 Ivi, p. 47.      
125.                 Ivi, p. 88.
126.                 Ivi, p. 89.
127.                 J-P., L'esistenzialismo è un umanesimo, a cura di Franco Fergnani, Mursia, 1985, p. 51.
128.                 "Io sono ateo, ma ciò non significa che non mi ponga dei problemi morali, anzi. Me li pongo con la piena consapevolezza di ciò che comporta perchè non delego alla divinità la decisione di ciò che è giusto o errato: me ne assumo consapevolmente la responsabilità. Se colpe ho, non si riscattano col pentimento [...] o con punizioni. Io sono un uomo libero, la terra è la mia sola patria perché non ci vivo provvisoriamente: la mia storia comincia e finisce qui. Io non ho un inferno da temere né un cielo in cui sperare. [...] E' una soluzione che affronta la verità dell'esistenza e non cerca rifugio nella fede, in un Dio confezionato dalla nostra fantasia e che in un'altra vita assegna il premio o le pene" (L. VISCONTI, L'Innocente, Rizzoli Film-Les Films Jacques Leitienne-Société Imp. Exp. Ci.-Francoriz Production, Italia-Francia, 1976. Trascrizione personale).
129.                 L. VISCONTI, La caduta degli dei, Praesidens Film-Pegaso-Italnoleggio-Eichberg Film, Svizzera-Italia-Repubblica Federale Tedesca, 1969. Trascrizione personale.
130.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 62.
131.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 59.
132.                 Ivi, p. 60.
133.                 Ivi, p. 62.
134.                 Ivi, p. 60.
135.                 Ivi, p. 59.
136.                 Ivi, p. 62.
137.                 S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 65.
138.                 Dice Caterina: "è pieno di contraddizioni, Massimo. E piace proprio per questo. Sembra tanto forte ed è debole, sembra sincero ed è bugiardo; è pigro e si alza alle quattro del mattino per portarmi in campagna; è goloso, e si metterebbe a  dieta per otto giorni si gli dicessi che ingrassa; é bello e non lo sa; è simpatico e non sa servirsene. Vuol imparare tutto ed ha orrore dei libri. E' violento e sempre mezzo addormentato. E' la tigre che si crede un gattino. E' un bambino un po' pazzo. Lo adoro" (M. ACHARD, Adamo, Torino, Società Editrice Torinese, 1946, p. 53)
139.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 60.
140.                 Ivi, p. 62.
141.                 S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 65.
142.                 "Ma allora noi assistiamo alla fine di un dramma. [...] Del resto, [la sconosciuta] ha proprio l'aspetto di una creatura da dramma" (M. ACHARD, Adamo, cit., p. 15).
143.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 60.
144.                 Ivi, p. 62.
145.                 G. GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio), in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 61.
146.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 77.
147.                 Ivi, p. 80.
148.                 Ivi, p. 73.
149.                 P-A. Caron de BEAUMARCHAIS, Il matrimonio di Figaro, Torino, Einaudi, 1943, p. 56.
150.                 Cfr. S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 88-89.
151.                 P-A. Caron de BEAUMARCHAIS, Il matrimonio di Figaro, p. 158.
152.                 Ivi, p. 154-155.
153.                 A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 138.
Una crisi di coscienza che proviene da una forte presa di coscienza della società, come anche in Visconti. Nella Règle, Renoir dà la perfetta espressione del suo ideale di spettacolo, quel "drame gai" (Ivi, p. 67) in bilico tra tragedia e commedia che è parte importante del suo stile e della sua personalità. Al contrario (ma non poteva esserci completa sovrapposizione), Visconti tende più volentieri al melodramma tragico, maggiormente consono alla sua personalità.
154.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 80.
155.                 S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 88.
156.                 G. GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio), in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 61.
157.                 Ibidem.
158.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 82.
159.                 Ivi, p. 83.
160.                 Ivi, p. 93.
161.                 ibidem.
162.                 Ivi, p. 100.
163.                 Ivi, p. 86.
164.                 Ivi, p. 95.
165.                 vi, p. 94.
166.                 G. BATY, Crime et châtiment, in "La petite illustration", n. 640 (théatre n. 331), 2 settembre 1933,   p. 6.
167.                 L. VISCONTI, Ludwig, cit..  Trascrizione personale.
168.                 Da appunti manoscritti di Visconti sul personaggio, riprodotti in AA.VV., Album Visconti, a cura di Caterina D'Amico de Carvalho, Milano, Sonzogno, 1978, p. 96. Vi sono delineati alcuni tratti fondamentali del carattere del Raskolnikof viscontiano; oltre a quelli suddetti, troviamo: "critica sociale intellettualistica" e "impulso sotterraneo egoistico".
169.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 100.
170.                 Ivi, pp. 100/102.
171.                 Ivi, p. 103.
172.                 G. BATY, Crime et châtiment, cit., p. 23.
173.                 Se Sonia 'era' la sorella, ora si identifica con la madre, le due figure femminili vicine a Raskolnikof, ma che egli non può infangare con la confessione che invece fa a Sonia la quale, allora, diventa entrambi i personaggi, la sua intera famiglia. Rimane ancora, essendo Sonia amante di Raskolnikof, un'aria d'incesto (con la sorella, con la madre) che è sintomatica dell'attaccamento dell'uomo alla famiglia e della sua incapacità ad ottenere un'autonomia psicologica.
174.                 G. BATY, Crime et châtiment, cit., p. 24.
175.                 Ivi, p. 27.
176.                 AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 131.
177.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 122.
178.                 J. ANOUILH, Euridice, in "Il dramma", n. 50/1, Anno 23 (nuova serie), 15 dicembre 1947, p. 16.
179.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 63.
180.                 J. ANOUILH, Euridice, cit., p. 38.
181.                 Ivi, p. 22.
182.                 All'atto IV, il Padre chiede a Enrico se è "viaggiatore di commercio", ed Enrico gli risponde: "esatto" ( cfr. Ivi, p. 35).
183.                 L. VISCONTI, Il mio teatro, p. 123.
184.                 Ibidem.
185.                 Ivi, p. 122.
186.                 S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 203.
187.                 Ivi, p. 201.
188.                 Ivi, p. 202.
189.                 V. PANDOLFI, L'esperienza e l'arte di Jean Anouilh, in "Il dramma", n. 50/1, Anno 23 (nuova serie), 15 dicembre 1947, pp. 11-12.
190.                 Ivi, p.12.
191.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 78-9.
192.                 AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 94.
193.                 AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 150.
194.                 Ivi, p. 104.
195.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 72.
196.                 AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 138.
197.                 Ivi, p. 147.
198.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 80.
199.                 Ivi, p. 77.
200.                 L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 34.
201.                 J-P., L'esistenzialismo è un umanesimo, a cura di Franco Fergnani, Mursia, 1985, p. 52.
202.                 Ivi, p. 63.
203.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 63.
204.                 J-P., L'esistenzialismo è un umanesimo, cit., p. 64.
205.                 AA. VV., Leggere Visconti, cit., p. 137.
206.                 Ivi, p. 138.
207.                 AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 76.
208.                 Anche Cocteau dichiara di voler "rester extérieur à l'oeuvre, de ne défendre aucune cause, et de ne pas prendre parti" (J. COCTEAU, Les parents terribles, cit., p. 10). 
209.                 J-P., L'esistenzialismo è un umanesimo, cit., p. 51.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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