LA FRANCIA.
A partire dal 1932 Luchino
Visconti soggiorna più volte in Francia, frequentando i circoli mondani e
culturali della capitale ed entrando in contatto con l'effervescente mondo
artistico che vi vive, culturalmente e politicamente all'avanguardia. A Parigi,
Visconti conosce alcune delle personalità più interessanti dell'epoca, e si
lega d'amicizia soprattutto con Jean
Cocteau, che aveva da poco esordito alla regia cinematografica con Le sang
d'un poète, finanziato dal visconte e mecenate Charles de Noailles, e Coco
Chanel. E a Parigi, "oltre alle prime teatrali e ai cenacoli artistici,
egli conobbe il miglior cinema del tempo, che spesso non riusciva ad ottenere
diritto d'ingresso in Italia" (1). Con sempre maggiore chiarezza, il giovane
Conte di Modrone, realizza di aver vissuto per anni, forse senza neppure
accorgersene, in un paese di "cadaveri" viventi costretto dal giogo
fascista ad un soffocante e sterile conservatorismo. Contribuiscono alla progressiva messa a fuoco di questa
consapevolezza anche le esperienze personali di Visconti, perché in Francia
avviene la definitiva accettazione della sua omosessualità, sino a quel momento
repressa o, al contrario, alternativamente, con scandalistico narcisismo
esibita. Egli va sperimentando "una serie di rapporti estremamente liberi
e anticonformistici" perché l'omosessualità, "tollerata se non
addirittura esaltata in Francia (basti pensare agli ambienti di Cocteau e di
Gide che Visconti aveva frequentato), [...] nell'Italia clericale e
fascista" (2) è invece rigidamente ed inequivocabilmente condannata. Molto importante è l'appassionata e duratura
relazione che Visconti stabilisce con Horst, il fotografo conosciuto in quell'ambito
mondano ed elegante che questi ritrae
in raffinati e splendidi bianchi e
neri: è proprio lui a portare Visconti
"à vivre et à accepter son homosexualité" (3).
I soggiorni francesi
trasformano dunque completamente Visconti, "ne ampliano gli interessi, ne
dilatano la cultura" (4) e la sensibilità, permettono lo sviluppo della
sua personalità. Essi servono ad aggiornarlo su cose di cui pochissima o nessuna
eco arriva in Italia e lo mettono in contatto con quel mondo dello spettacolo
cosmopolita che in seguito diventerà il suo e che lo porterà ad abbandonare
definitivamente la pur amatissima attività di allevatore di cavalli. Sono tutti
momenti di una complessiva ed importantissima presa di coscienza che si
svilupperà e approfondirà definitivamente con la vicinanza e la fattiva
collaborazione con Jean Renoir: sarà questa, infine, ad indirizzarlo verso
decisive scelte esistenziali, ancor prima che artistiche o politiche o umane,
alle quali rimarrà fedele.
RENOIR.
Con ogni probabilità, Luchino
Visconti e Jean Renoir si conoscono tramite la loro comune amica Coco Chanel.
La prima collaborazione -ma le fonti sono incerte- risale forse addirittura al 1934, durante la lavorazione
di Toni. Numerose filmografie renoiriane registrano Visconti come
"stagiaire" sul set del film, un ruolo non ben identificato ma che
probabilmente consiste, come il termine stesso lascia supporre, in una specie
di apprendistato: guarda Renoir al lavoro senza intervenire. "Se così
stanno le cose, meglio si spiega l'improvvisa passione di Visconti per il
cinema: passione che non nascerebbe soltanto dalla frequentazione di certe sale
cinematografiche di Parigi in cui passavano film inediti per l'Italia, ma
anche, e forse soprattutto, dalla partecipazione, sia pure in veste di curioso
osservatore, alla realizzazione di un film" (5). Molto più certa e
concreta è invece la sua partecipazione, nel 1936, a Une partie de campagne,
per il quale Renoir lo recluta come assistente e costumista: Visconti risulta
"stagiaire accessoriste", ossia, nell'accezione di Gianni Rondolino,
"trovarobe"; ma anche, secondo alcune filmografie, 'assistente',
ultimo dopo Jacques Becker, Claude Heymann, Jacques B. Brunius, Yves Allégret e
Henri Cartier-bresson. "Certains témoins du tournage de Une
partie de campagne [...] évoquent le souvenir d'un garçon de courses
italien qui s'appellait Luchino Visconti, d'autres disent qu'il s'occupait des
costumes, les filmographies le comptent généralement parmi les assistants à la
mise en scène [...] et l'on sait aussi que Renoir sympathisera avec lui au
point de lui suggérer de lire le roman
de James Cain: Le facteur sonne toujours deux fois dont Visconti tirera
cinq ans plus tard son premier film Ossessione. Une équipe réunie autour
de Renoir ne constitue [...] pas un groupe hiérarchisé mais plutôt une petite
bande" (6).
Ho conosciuto Renoir in Francia ed ho lavorato con lui per Une partie de
campagne come terzo assistente. Avevo anche un po' partecipato alla
preparazione de Les bas-fonds, il film che fece subito dopo e, in una
certa misura, ugualmente a quella de La grande illusion [...]. Mi
ricordo che a casa sua, durante qualche riunione, [...] si parlava già di un
film sui prigionieri dui guerra francesi in Germania [...]. Non partecipai direttamente alla lavorazione di Les
bas-fonds e in cambio presi parte alla stesura di Une partie de campagne,
film per il quale feci anche i costumi.
(7)
Una collaborazione che sembra positiva in quanto Renoir lo chiama, e questa
volta come secondo assistente, per Tosca, progetto italo-francese da
girarsi in Italia, ma interrotto, dopo solo alcune sequenze girate, dallo
scoppio della guerra e la conseguente partenza del regista. Il film è terminato
dai due assistenti e firmato solo da Karl Coch: Visconti lo considera un
risultato mediocre, probabilmente troppo
renoiriano per essere originale ma non abbastanza per essere riuscito.
L'impronta che Renoir lascia
su Visconti non è semplicemente di natura stilistica, benchè molti dei suoi
tratti più caratteristici si ritrovino in seguito nell'opera
dell'ex-assistente. Infatti, come Renoir, anche Visconti è portato a mettere in
scena in profondità, girando lunghi blocchi narrativi, piani sequenza che
legano l'attore alla scena in un continuum
spazio-temporale ed evitano l'intromissione spesso dispersiva del montaggio. La
profondità di campo permette inoltre un'accresciuta mobilità agli attori,
ovunque costantemente a fuoco assieme agli altri elementi inquadrati i quali,
per l'evidenza plastica che guadagnano, acquistano importanza espressiva. La
scenografia pertanto non può più essere mera ambientazione, sfondo indefinito,
e diventa automaticamente la vera 'realtà' in cui si muovono i personaggi del
film.
Nelle pellicole del regista
francese, l'attore ha un'importanza basilare, ed è spesso usato, come in
Visconti, in contraddizione con i ruoli tenuti in precedenza e con esiti
solitamente sorprendenti: "Renoir ne prend pas ses acteurs, comme on fait
au théâtre, pour leur confirmité à un emploi, mais, comme le peintre, pour ce
qu'il sait qu'il nous forcera à y voir" (8), scavando e trovandovi
l'essenza del personaggio, portandola in superficie con sicura "capacità
rabdomantica" (9). Nell'interpretazione, l'attore
è spesso "poussé au-delà de lui-même, surprit de nudité d'être qui n'a
plus rien à voir avec l'expression dramatique" (10). Vi è in
entrambi i registi il medesimo puntiglioso interesse per il minimo gesto che
diventa importante e decisivo per la creazione del personaggio e che deriva da
un profondo rispetto per l'uomo perché: anche "le geste d'une laveuse de
linge, d'une femme qui se peigne devant une glace, d'un marchand de quatre
saisons devant sa voiture [a ...] souvent une valeur plastique
incomparable" (11). Per Visconti "il più umile gesto dell'uomo, il
suo passo, le sue agitazioni [...] danno poesia e vibrazioni alle cose che li
circondano e nelle quali si inquadrano" (12).
Renoir ha esercitato su di me un'influenza enorme
[...]. Non che Ossessione sia stato [...] influenzato dal cinema
francese in particolare, ma è Renoir che mi ha insegnato il modo di lavorare
con gli attori. Quel breve contatto di un mese è stato sufficiente, tanto la
sua personalità mi aveva affascinato.
(13)
Soprattutto
Renoir fa un cinema che si pone in diretto contatto con la realtà con la quale
è sinceramente ed indissolubilmente legato, da cui trae ispirazione e a cui, in
fine, rimanda: "toute son oeuvre
française et surtout celle des dernières années d'avant-guerre, porte le plus
profond et le plus vivant témoignage sur la France d'alors (Le Crime de M.
Lange, par exemple, est issu de l'ambiance du Front Populair dont il
traduit merveilleusemente les espoirs et peut-être les naivetés). Mais le
sommet de la vérité dans l'epression implicite d'une époque est certainement
attaint en 1939 par La Règle du jeu, que demeure peut-être le
chef-d'oeuvre de Renoir" (14). In entrambi i registi, la
realtà si traduce in immagini sintomatiche e rappresentative di un dato momento
storico, che determina in qualche modo l'azione, che interviene a guidare la
loro mano ed il percorso dei personaggi. Tutti e due, e Visconti, è lecito
supporlo, sull'esempio di Renoir, cercano di esprimere in forme autonome,
concluse e personali motivi più generali. Visconti afferma di lavorare sempre
"nella convinzione che per capire la società contemporanea e i suoi problemi e cercare di trovarne una
soluzione non convenzionale, uno dei mezzi e non il meno importante, sia quello
di studiare l'animo di certi suoi personaggi rappresentativi, comunque
collocati ed angolati" (15). Nella Règle, Renoir esprime la
sotterranea angoscia che prelude l'esplosione dell'imminente conflitto
mondiale, rivestendola dell'apparenza festosa di una commedia degli equivoci
che, improvvisamente, vicina alla conclusione, si tramuta in tragedia.
Quand j'ai fait La Règle du jeu je savais
où aller, je connaissais le mal qui rongeait mes contemporains. Mon instinct me
guidait. La conscience du danger me fournissait les situations et les
répliques. [...] Mais cela n'est pas tellement difficile de bien travailler quand le compas de
l'inquiétude marque la vrai diréction.
(16)
ANTROPOMORFISMO.
Il cinema di Renoir è un
cinema umanistico, imperniato sull'uomo e di cui vuole approfondire la
conoscenza, indagandone i cangianti rapporti col mondo: l'attività artistica
diventa pertanto sinonimo, nella sua continua implicazione con la realtà, di
costante impegno, non solamente politico. Essa diventa infatti "l'opera di
un uomo vivente in mezzo agli uomini" (17), secondo la definizione accolta
da Visconti nel famoso scritto coevo alla prima uscita di Ossessione. Quello dell'artista e, in questo caso, più
specificamente, del regista cinematografico, è un lavoro che, "s'il était
libre, pourrait tellement aider à la connaissance des hommes et des
choses" (18). Il tentativo di Visconti di indagare l'animo umano deriva
direttamente dal simile sforzo di Renoir, interessato come lui ad un "cinema antropomorfico", somigliante ai
personaggi che lo popolano e sincera espressione del loro animo e della loro
personalità, indagata, senza schematismi, in tutte le visibili sfaccettature. In quel periodo, il cinema si rivela
per Visconti come "lo strumento
giusto per affrontare direttamente la realtà umana e sociale e darne una
rappresentazione prospettica" (19). Il lavoro con Renoir mette a frutto
tutta la preparazione culturale di Visconti, affinata proprio dai vari
soggiorni francesi, e la investe di una luce nuova, probabilmente inedita per
il giovane aristocratico italiano. Ed anche la sua tendenza artistica, una
'vocazione' che si era sin lì espressa in forme vagamente estetizzanti di cui
sono testimonianze alcuni scritti e progetti giovanili, acquista senso
nell'ormai irrinunciabile 'impegno'. Questo è forse solo intuitivamente sentito
nel periodo francese ma trova in seguito modo di affinarsi e precisarsi anche
ideologicamente frequentando la redazione ed i collaboratori alla rivista
"Cinema" e che viene chiaramente espresso, in forma matura e
polemicamente aggressiva, negli scritti pubblicati sulla stessa rivista:
quel periodo successivo al soggiorno in Francia, i
contatti con gli amici di Roma restano per me fondamentali ed inconfondibili.
Furono una scoperta viva e le circostanze favorirono [...] che essa si mutasse
in un tentativo o in una ricerca di stile artistico. [...] Fu la scoperta del
marxismo, ma in modo operativo.
(20)
Rimane comunque il fatto che è in Francia, assieme a Renoir, che Visconti
trova le sue idee comuniste: in Italia, non farà che cercare un ambiente a
quello simile, nel quale continuare a sviluppare una ricerca in gran parte già
indirizzata, che avesse come esito la definizione di una espressione
cinematografica italiana realistica, vicina e parallela a quella di Renoir.
Furono proprio il mio soggiorno a Parigi e la
conoscenza di un uomo come Renoir che mi aprirono gli occhi su molte cose.
Capii che il cinema poteva essere il mezzo per avvicinarsi a certe verità da
cui ervamo lontanissimi, specialmente in Italia. Ricordo che La vie est à
nous mi fece una profonda impressione [...]. Durante quel periodo
ardente -era quello del Fronte
Popolare- aderii a tutte le idee, a tutti i principi estetici [...] ma anche
politici. Il gruppo di Renoir era schierato nettamente a sinistra e Renoir
stesso, anche se non era iscritto, era certamente molto vicino al P.C. . In
quel momento, ho veramente aperto gli occhi: venivo da un paese fascista dove
non era possibile sapere niente, leggere niente, conoscere niente, nè avere
esperienze personali. Subii uno choc. Quando tornai in Italia ero veramente
molto cambiato.
(21)
Per Visconti, dopo
l'esperienza francese e la realizzazione di Ossessione, l'attività
creativa, artistica o meno, si identifica con la vita stessa, cosa vitale in
rapporto con uomini altrettanto vivi, intendendo, ancora, per vita la libertà,
ossia la possibilità di autodeterminarsi al di fuori di ogni condizionamento.
L'artista non può trincerarsi dietro vaghi pretesti romantici, secondo una vile
e ormai del tutto inaccettabile, pretestuosa 'vocazione', la quale non può
essere intesa che come il maturo frutto di uno studio, di un'approfondita
"specializzazione". "La vocazione non esiste" quindi,
"ma esiste la coscienza della propria esperienza. Lo sviluppo dialettico
della vita di un uomo al contatto con gli altri uomini" (22), conseguenza di una precisa e ben
razionale scelta in cui le semplici e da sole sterili finalità artistiche sono
potenziate dalla consapevolezza di una 'missione': l'esplicito dovere
dell'artista di fornire un prodotto valido in quanto risultato di
"molteplici testimoniamze di vita" e "manifestazione di
vita" esso stesso.
Cinema antropomorfico è un puntuale manifesto di poetica in
cui le intenzioni del regista (il progetto del lavoro da fare) vengono spiegate
ed analizzate, assieme ai modi con cui realizzarle e dove Visconti espone i
cardini di una pratica cinematografica che ha applicato in Ossessione e
che rimarrà sostanzialmente immutata: la centralità dell'attore in quanto
essere umano capace di dar vita ad una persona diversa (il personaggio) ma
ugualmente viva; l'importanza della costruzione di un mondo credibile attorno
ai personaggi, che approfondisca e delinei il loro carattere; l'assoluto
"impegno di raccontare storie di uomini vivi: di uomini vivi nelle cose,
non le cose per se stesse", senza il quale qualsiasi attività artistica
perde interesse. Ed egli sceglie di esprimersi attraverso il cinema perchè esso
si presenta come un mezzo democratico in cui "confluiscono e si coordinano
slanci ed esistenze di molti, tesi per un lavoro complessivo migliore". Cinema
antropomorfico è una dichiarazione d'intenti estremamente razionale, ben
ponderata e lucida, basata su una perfetta conoscenza dei propri mezzi
espressivi e delle proprie intenzioni, che è anche la logica conseguenza del
lavoro svolto in Francia, accanto a Renoir. Dopo la conquista della maturità,
la prima pratica espressione del suo cambiamento è Ossessione di cui Cinema
antropomorfico rappresenta il riflesso teorico.
OSSESSIONE.
Questo primo film, più degli
altri, risente dell'influenza di Renoir, e, in misura minore, del Realismo
Poetico imperante negli Anni Trenta sugli schermi francesi, e lo confessa
Visconti stesso:
narrativamente, Ossessione era ancora
legato a certe infuenze che intervenivano dal cinema francese. Da Renoir, da
Duvivier, da Carné. Si nasce sempre da qualche cosa.
(23)
Ossessione presenta infatti con alcuni film di quel periodo
interessanti analogie e chiarificatrici divergenze. All'origine del progetto di Ossessione vi è ancora
Renoir: è lui a dare a Visconti il dattiloscritto contenente una prima
riduzione del romanzo di Cain, il quale, in Francia, era già stato oggetto di
una trasposizione cinematografica da parte di Pierre Chenal, Le dernier
tournant, che molto probabilmente Visconti ha visto prima di scrivere il
suo film: il remake doveva essere
realizzato da Renoir stesso o da Duvivier, ma nessuno sembra interessarsene
veramente.
Ossessione è
effettivamente tratto da The Postman Always Rings Twice, e mantiene una
certa fedeltà nei confronti del pretesto letterario originale, che però arriva
a Visconti attraverso un duplice filtro francese: linguistico, innanzitutto (il
testo della sceneggiatura dato da Renoir è molto probabilmente in francese), ma
anche culturale, per il debito che il film mostra nei confronti di una precisa
tradizione cinematografica. Questa patina francese si somma ad una piccola
influenza statunitense, alla tendenza di un certo ambiente letterario
progressista di esaltare la narrativa americana contemporanea per trapiantarne
i tratti più significativi, con tutta la loro carica polemica ed innovativa,
nell'Italia fascista. Questa esigenza si coniuga alla ricerca, da parte dei
redattori di "Cinema" di una forma implicitamente eversiva di
realismo italiano, sulla scia della tradizione verghiana, e sull'esempio del
cinema francese che si era rifatto , negli Anni Trenta, al Naturalismo
letterario. Ossessione è il risultato di tutti questi influssi, i quali
non emergono mai vistosamente, poichè il film, innanzitutto, è un'opera,
conclusa, già matura e già prepotentemente personale, di Luchino Visconti. Il
romanzo di Cain non viene scelto per i suoi pregi letterari, anzi, viene
trattato alla stregua di un semplice fatto di cronaca che la censura fascista
non permetteva fossero riportati sui giornali. Visconti stesso afferma che, in
effetti, "non ci fu uno stretto rapporto con la narrativa americana"
e che del romanzo gli sceneggiatori si limitarono a trarre "la traccia aneddotica" perchè "qualunque
altra vicenda avrebbe servito ugualmente" (24). Le intenzioni innovative
di Visconti e dei suoi collaboratori certamente passavano per la novità di
contenuto, che diventava automaticamente polemico, ma soprattutto erano dirette
alla ricerca di una inedita forma espressiva: "era piuttosto il modo di
svolgere l'aneddoto che importava" (25), lo stile, che molto risente della
tradizione cinematografica francese degli Anni Trenta. Di questa, il film
recupera la cura fotografica, abbinata alla scelta di girare in esterni reali,
i quali, appunto per l'inusitato riguardo formale, acquistano un forte rilievo
espressivo. Questa scelta dipende forse maggiormente dall'esempio diretto di
Renoir piuttosto che del Realiso Poetico tradizionale il quale preferisce
ambientare le sue storie in contesti realistici ma palesemente ricostruiti in
studio. Renoir, proprio con quel Toni di cui Visconti forse ha seguito
le riprese, tenta, già nel 1934, un'ipotesi di realismo integrale, girando
tutto in esterni veri (26).
La storia di Ossessione,
sebbene di provenienza americana, ha tratti in comune con i caratteristici
soggetti del cinema francese, il quale presenta spesso figure di emarginati o
vagabondi, col cappello inclinato sulle ventitrè, o tenuto indietro,
sull'esempio di Jean Gabin, attore allora estremamente in voga. Sono eroi
romantici votati al fallimento e alla tragedia, imbrigliati in storie di amori
impossibili, che sovente passano per un omicidio, un delitto passionale che
accelera l'approssimarsi della morte. In apparenza, ad una superficiale
lettura, il film sembra respirare la stessa aria fatale che circola in quelle
pellicole, come in Quai des brumes di Marcel Carné per citare un esempio
che presenta alcune analogie. Gabin vi è un soldato dal passato confuso ma
sicuramente non limpido, che vive alla giornata, senza meta, sognando solo di
partire per rifarsi una vita altrove. I due film si aprono su inquadrature di
una strada, viste dal camion che depositerà l'uomo vicino al suo destino, alla
donna che sta per incontrare (27).
Eppure, al di là di analogie apparenti, i personaggi di Ossessione non
hanno niente da spartire con quelli di Carné: figure romantiche, ideali,
stereotipi poetici quasi evanescenti ed astratti. "I personaggi
prévertiani sono elementari, privi di sviluppo psicologico e condizionati, nei
loro atteggiamenti, da una realtà sociale immobile e ostile, contro la quale i
loro sforzi sono vani. Ma nella loro semplicità sono umani e riflettono le
speranze e le disillusioni dell'uomo contemporaneo" (28). Girotti e la
Calamai colpisco invece per la loro corposa sensualità e l'approfondimento
psicologico che Visconti ne dà. I personaggi di Carné sembrano dominati da
un'ironica e maligna casualità, un fato che fa di loro le vittime più o meno
inconsapevoli di un destino maligno. Il pessimismo che traspare da quei film
equivale all'impotenza degli stessi personaggi, mai arbitri completi della loro
vita, succubi della generale crudeltà che li circonda come la nebbia. In Ossessione
non c'è affatto questo senso di fatalità ineluttabile: i protagonisti di
Visconti sono gli unici arbitri del loro destino, anche se non sempre lo sanno.
Ogni loro azione deriva da una precisa scelta, di cui scontano le conseguenze:
Gino e Giovanna sono irrimediabilmente attratti l'uno verso l'altra, la
sensualità e violenza del loro rapporto è inconfutabile: ma dopo il primo
fallito tentativo di fuga, si separono e percorrono strade distinte. Quella di
Gino lo porta ad incontrare lo Spagnolo, figura enigmatica per molta critica, e
personaggio inedito rispetto alla trama americana. Questi, negli intenti degli
altri sceneggiatori del film (Mario Alicata, Giuseppe De Santis, Gianni
Puccini) era l'indubbio rappresentante di un'alternativa politica, nuova, a cui
rimanda anche la sua natura di "spagnolo" (un collegamento con la
guerra di Spagna), era l'emblema della concreta speranza antifascista.
Visconti, pur non venendo meno a questi presupposti, conferisce al personaggio
un suo proprio spessore psicologico, facendolo diventare, secondo una visione
personale, il rappresentante, in toto,
della libertà così come lui stesso l'aveva vista e vissuta in Francia, una
libertà quindi non solo politica, ma anche sentimentale e sessuale: è, insomma,
il simbolo stesso della Francia. Visconti gli dà una caratterizzazione che,
sebbene non del tutto esplicita, è chiaramente omosessuale e che solo certa
critica eccessivamente pudica e moralistica può leggere come "ambigua".
Lo Spagnolo non solo offre a Gino quella istintiva solidarietà tra emarginati
che pallidamente illuminava anche il fosco mondo di Quai des brumes, ma
gli indica anche una nuova possibilità di vita, che non corrisponde solo ad una
vaga tendenza anarcoide o di sinistra. Simile al personaggio di Boudu nel film
di Renoir, lo Spagnolo impone a Gino una svolta concreta ed eversiva, che lo
libera dalle ipocrisie delle convenzioni borghesi, impersonando la libertà,
l'assenza di preconcetti e di inibizioni, ed è, come il personaggio renoiriano,
un vagabondo senza casa nè patria, assolutamente libero:
tramite lui ho voluto rappresentare i temi
essenziali dela mia opera: i problemi sociali e la poesia [...]; é il simbolo
stesso della rivoluzione e della libertà di pensiero.
(29)
Gino, incontrandolo, si trova di fronte ad un'opzione di vita nuova e
sembra sceglierla, sino al secondo inaspettato incontro con Giovanna. Di fronte
a lei, e al risorgere impetuoso della passione che li lega, lo Spagnolo è
totalmente impotente. L'omicidio dell'ingombrante marito è solo la prima tappa
(quasi solo intuita, più che pianificata e preparata) della loro riunione, il
primo passo verso il definitivo suggello del loro destino. Perchè è solo
adesso, in seguito alla decisione di Gino di tornare da Giovanna, che la
fatalità, mostrata ed annunciata da nitidi segnali e simboli premonitori,
incombe ormai sui due amanti e li accompagna sino al negativo e prevedibile
esito finale, il logico fallimento di tutte le speranze. E' quindi solo Gino
che, scegliendo Giovanna in alternativa e contrapposizione allo Spagnolo,
sceglie allo stesso tempo di diventare -o tornare- il tipico personaggio dei
film del Realismo Poetico: il riferimento a quel cinema diventa solo funzionale
alla misura del significativo scarto rispetto al modello.
I PERSONAGGI VISCONTIANI.
In Ossessione i
personaggi sono solo vittime di loro stessi. E' possibile separare i personaggi
viscontiani in due categorie, due tipologie ricorrenti che si distinguono per
il rapporto che instaurano con la
realtà circostante. Vi sono infatti personaggi pienamente consapevoli della
loro condizione, della situazione generale e che agiscono quindi con piena e
talvolta cinica -per l'eccessiva disillusione- lucidità, mentre ve ne sono
altri privi di questa visione chiara e critica del loro mondo e del loro tempo,
viventi per inerzia, guidati da illusioni che si infrangono con violenza, e
l'esempio massimo è forse il protagonista de Lo Straniero che per
inerzia vive uccide e muore, abbagliato da una totale indifferenza ed
incapacità di capire, di rendersi conto della realtà. Spesso, nei film di
Visconti (ma anche nei sui spettacoli teatrali) la trama non è che il percorso
di questa progressiva consapevolezza, che culmina, solitamente, in una scena in
cui la verità è violentemente e crudamente mostrata tanto da distruggere tutte
le illusioni passate, le false certezze su cui i personaggi avevano costruito
la loro vita. Rivelazioni che si esprimono attraverso potenti scene madri,
situazioni limite, crisi catartiche ma non sempre risolutive. Il personaggio di
Visconti si trova bloccato in una situazione di stallo in cui è costretto a
rendersi conto di aver sbagliato, a ripensare in modo nuovo la sua vita passata
ed intuire il futuro: in quel momento di lucidità, egli ha la possibilità di
cambiarlo, di autodeterminarsi, di scegliere. Spesso fallisce perchè non
sufficientemente consapevole, o perchè vincolato al passato in modo troppo
forte. A Visconti non interessa sapere quale strada il suo personaggio
prenderà, perchè ciò dipende esclusivamente da lui, dalla sua psicologia e
personalità. Importante è mostrarlo al bivio, nel momento in cui scopre di aver
sbagliato, di essersi illuso: il regista si limita a seguire ed illustrare
fedelmente questo trapasso verso la coscienza: Gino e Giovanna forse non
raggiungono mai una piena consapevolezza, che invece lo Spagnolo ha. I due
amanti sono i primi rappresentanti degli 'illusi' viscontiani, 'vinti' non per
fatalità, ma per autonoma scelta, personaggi incapaci di guardarsi attorno
lucidamente, vittime, appunto, di loro stessi, prigionieri senza saperlo in
quanto ciechi di fronte ai limiti e alle restrizioni che li condizionano.
Di fronte ad una simile
rivelazione si era ritrovato lo stesso Visconti. Italiano in Francia, egli si
accorge di aver vissuto in patria solo la parvenza della libertà, i
condizionamenti essendo troppo forti per permettergli quella libertà di
pensiero che è sinonimo di vita, in quanto possibilità di decidere
autonomamente il proprio futuro. L'influenza francese diventa una tappa senza
la quale non è possibile capire Visconti perchè è la premessa a tutta la sua
vita e attività artistica:
mi recai in Francia e lavorai come assistente di
Renoir. Lì avvenne per me il primo contatto con un tipo di ambiente del quale
non immaginavo neppure l'esistenza. In fondo, arrivando a Parigi da Milano si
aveva l'impressione che in Italia si vivesse a occhi bendati ed orecchie
tappate.
(30)
Sull'esempio di Renoir e lo stimolo complessivo francese, si afferma
prepotentemente in Visconti l'esigenza di trasmettere questa nuova
consapevolezza agli altri italiani,
denunciare l'esistenza di quei tappi e bende. La sua esperienza privata
diventa, così, emblematica di un risveglio di coscienza che deve essere
travasato in Italia, portato a tutti e reso esplicito. Ed è ciò che fa
attraverso il suo lavoro di regista: in filigrana in ogni sua storia è
possibile ritrovare la trama di quella personale vicenda, la sofferta conquista
della maturità e della lucidità. Ovviamente si può osservare che questa
necessità era evidente nel periodo fascista e che, in seguito, trova meno la
sua ragion d'essere. Ma il persistere in quella direzione lascia sospettare che
le condizioni non fossero, in seguito, realmente cambiate, che molti condizionamenti
residui persistessero e testimonia di un preciso impegno morale di Visconti,
ancor prima che ideologico. La presa di coscienza che l'attività artistica
implica deriva quindi dalla forte crisi di coscienza che Visconti ha provato in
Francia, accorgendosi che non era possibile esprimersi 'inutilmente', con
finalità meramente artistiche. Nei suoi personaggi, Visconti ripete,
potenziandole con lo spettacolo, simili prese di coscienza derivanti tutte da
precedenti crisi le quale in effetti risultano costituire l'essenza stessa del
cinema viscontiano.
Provenivo da un paese fascista, ove era proibito
leggere, pensare, conoscere. A Parigi cominciai a pensare. E credo di aver
sempre continuato a farlo.
(31)
Appunto per questo, al di là di una fallace separazione in buoni o cattivi,
positivi o meno, i personaggi di Visconti si distinguono solo per la
lucidità o la cecità che dimostrano nei
confronti dei condizionamenti, sociali
culturali o personali, attivi nella loro vita: una distinzione che tiene
conto soltanto della loro intelligenza. L'onestà dello sguardo gli proviene,
forse, ancora una volta, da Renoir, che non ha disdegnato mettere in scena
personaggi negativi, o che comunque non ricevevano totalmente la sua simpatia:
"tutti hanno le loro ragioni", fa dire Renoir al personaggio
interpretato da Dalio nella Règle du jeu: tutti sono quindi
giustificabili, ed il regista deve mostrare anche le ragioni dei personaggi a
cui non si sente più vicino.
Perciò il cinema di Visconti
non ha in realtà niente a che vedere con lo schematismo romantico del Realismo
Poetico, dove i personaggi sono più che altro pretesti, figure evidenti ma
sostanzialmente inanimate, vittime, prima che di un destino avverso, delle
stesse programmatiche intenzioni dei loro autori. In Visconti, i personaggi
sono capaci di scegliersi il futuro, anche positivo, ma non ne sono sempre
consci e il suo pessimismo non è aprioristico come in Carné o Prévert, ma
deriva dalla mancanza di lucidità, quindi di consapevoleza e di intelligenza,
dimostrata dai personaggi.
LA REALTA' CIRCOSTANTE.
I personaggi di Visconti si
muovono in un ambiente restituito fedelmente, che ricalca alla lettera la
realtà storica, quando questa interviene attivamente a determinarli: come ogni
ambiente, esso interagisce con i personaggi, condizionandoli e essendone condizionato,
e si presenta quindi nella duplice veste di proiezione -conseguente al
personaggio- di aspetti della sua personalità e, all'opposto, di insieme di
elementi preesistenti che agiscono con forza su di lui, assolvendo quindi alla
funzione di ricostruzione del mondo esterno ma anche di quello interiore del
personaggio. La 'scenografia' interviene così ad aiutare lo spettatore nella
comprensione dei personaggi che in essa si muovono e si riflettono, sfumandone e definendone la psicologia,
ricorrendo anche a riferimenti culturali di vario tipo che non sono mai
semplici citazioni, ma che nel rapporto che il film istituisce con la fonte,
permettono di evidenziare aspetti non
immediati della psicologia del personaggio o del suo tempo: ogni elemento
significativo, che non si ritrovi nelle battute della sceneggiatura, è posto in
superficie, in modo da entrare nel campo visivo e semantico del contenuto
spettacolare globale. L'ambientazione si attiene a canoni di assoluta fedeltà
storica e psicologica per creare attorno ai personaggi ambienti ed atmosfere
perfettamente consone e conformi ad essi, illuminanti quindi sul tempo
dell'azione e sul personaggio stesso. Ciò che per Visconti è necessario ed
imprescindibile è "esprimere il pensiero", sia dell'autore di un
testo che del personaggio, e "renderlo plastico e vivo allo
spettatore" (32). Il film, lo spettacolo teatrale sono costruiti ad
immagine del personaggio, della sua personalità e in conformità della visione
del regista, secondo un procedimento 'antropomorfico'. Questo comporta una
varietà di stili che dipende dal
soggetto e dal personaggio ritratto, ma risultante da una forte ed unitaria
coerenza di impostazione. Il lavoro del regista, quindi, creato un ambiente e dei personaggi
credibili, consiste nel penetrare quel mondo per andarvi a scoprire ciò che lo
interessa, scrutando in profondità i personaggi, entrando in loro e facendo
trasparire quei moti interni che unici possono spiegarli. Una prossimità che è
necessaria alla comprensione ma che non si lascia mai travolgere rimanendo
lucidamente critica ed obiettiva: Visconti sottolinea e rende del tutto
evidente la sua posizione di narratore onniscente, che non guida l'azione, ma
la segue.
Potremmo ritenere emblematico
del rapporto di Visconti col contenuto dei suoi lavori e con i suoi personaggi
quel movimento di macchina che in Ossessione introduce Gino in casa,
nella taverna, per poi portarlo su, sino alla camera dove Giovanna lo aspetta:
la macchina da presa, dopo aver mostrato Gino alla pompa dell'acqua davanti
all'entrata, mostra ciò che sta guardando (la costruzione, e Giovanna, sottintesa,
al suo interno), staccando in quello che sembra un normale controcampo, che ci
fa ritenere l'inquadratura una soggettiva di Gino, molto esplicita sulle sue
intenzioni. Eppure, la macchina, carrelando in avanti, permette a Gino di entrare in campo,
rivelando come la ripresa fosse in realtà una normale oggettiva. Ma proprio in
questo improvviso passaggio da un'apparente soggettiva ad una oggettiva,
Visconti chiarisce il suo approccio e la sua posizione, che consiste
nell'avvicinarsi al personaggio, fino ad entrarvi per capirne le intenzioni ed
i pensieri, lasciandolo infine per porsi ad una distanza contemplativa che
ribadisce che il film è nel suo complesso la soggettiva del regista, che guarda i personaggi con la maggior aderenza
e fedeltà possibili, senza dimenticarsi di sottolineare la sua posizione
comunque al di sopra delle parti, esterna.
IL PERSONAGGIO POSITIVO.
La critica si è affannosamente sforzata di ritrovare nei film di
Visconti il 'personaggio positivo'; non trovandolo, o sentendosi solo in parte
soddisfatta per l'esilità psicologica e drammatica spesso dimostrata da questi
personaggi, essa ha di volta in volta accusato Visconti di decadenza, perdita
dell'ideale politico, abdicazione del programmatico impegno civile e morale,
intima e sospetta incapacità e disegnare o ritrarre personaggi positivi,
senilità. Ma la posizione di Visconti, lo scarto rispetto al contenuto e ai
personaggi è evidente a livello formale, dal complesso degli elementi registici
di messinscena, inquadratura, recitazione, ritmo, montaggio, non dalla semplice
presenza, all'interno della narrazione, di un suo alter ego. Il giudizio sui personaggi che Visconti formula, non è da ricercarsi nelle parole dette o
nella sua identificazione con un personaggio, ma risulta dall'insieme degli
elementi rappresentatativi a disposizione, dall'integralità dell'opera, non da
una sola sua parte. Lo Spagnolo di Ossessione è il primo rappresentante
di questa schiera di personaggi implicitamente positivi, o che molta critica ha
definito così, ma che non lo sono fino in fondo. Nelle intenzioni degli altri
sceneggiatori, lo Spagnolo era il simbolo di un'alternativa esclusivamente
politica e si dichiarano infatti traditi e delusi dal risultato finale che
presenta un personaggio al limite del negativo: come poteva l'ideale comunista
ritrovarsi in un omosessuale che denuncia l'ex-amante perchè lo ha tradito?
I personaggi di Visconti
esistono come entità autonome, con una psicologia e una logica interna. Se
abbracciano una particolare, 'positiva', fede politica, lo fanno solamente in
base ad esigenze personali che non sono affatto riconducibili alla necessità di
Visconti di esprimersi tramite loro: farli portavoci del suo pensiero sarebbe
ridurli ad una dimensione semplicemente simbolica e strumentale a scapito della
loro personalità e libertà, ed entrerebbe in completa collisione con gli
intenti analitici ed umanistici del
cinema viscontiano che non tollera nessuno schematismo. E' un cinema teso ad un
"affettuoso e obbiettivo esame dei casi umani" (33) che porta il
regista a calarsi momentaneamente nei suoi personaggi per renderne evidente e
visibile la personalità e la psicologia, ricorrendo nel far ciò a qualsiasi
mezzo espressivo a sua disposizione, ma senza permettere, nè a se stesso nè
allo spettatore, una completa emotiva identificazione. Visconti, con estrema
lucidità, segue le azioni dei suoi personaggi, indagando l'intimo della loro
realistica psicologia, senza intervenire direttamente. Ogni gesto e decisione
dipendono da loro, e il regista illustra e spiega, analizza: egli guarda i
personaggi senza preventivi pregiudizi, lasciando loro una totale libertà. La
sincerità di Visconti nell'illustrare il personaggio e i suoi determinanti
rapporti con il contesto, permettono allo spettatore di essere perfettamente
consapevole di ogni particolare significativo, lo mettono in condizione di
giudicare obbiettivamente il personaggio. Pertanto, non esistono distinzioni ulteriori tra i
personaggi viscontiani che sulla base della lucidità e della comprensione della
loro realtà che dimostrano, non ci sono moralistiche condanne o assoluzioni
politiche: il personaggio viene denudato e visto come è, ricercando una equità di visione così che anche lo spettatore
possa lucidamente porsi di fronte ai personaggi. Fallace ed inutile è allora la
ricerca di personaggi schiettamente positivi, anche perchè l'interesse di
Visconti è maggiormente rivolto a personaggi discutibili, che sono anche
migliore materia drammatica, vittime di illusioni o condizionamenti:
sul piano generale debbo dire che i cosiddetti
"personaggi positivi" dei miei film hanno uno sviluppo relativamente
limitato perchè io preferisco sempre raccontare le sconfitte, descrivere le
vittime, i destini schiacciati dalla realtà.
(34)
La libertà che Visconti
concede ai personaggi si riflette in quella che lascia agli stessi spettatori,
ai quali non trasmette chiaramente un messaggio politico, non dà indicazioni
ideologiche; le sue opinioni politiche sono espresse altrove, in scritti o
dichiarazioni paralleli alla sua attività artistica, la quale si rifiuta
categoricamente di essere propagandistica perchè gli intenti politici
finirebbero col soffocare e falsare i ritratti umani che costituiscono il
centro di interesse della sua opera.
In Senso la critica ha
preteso di riconoscere nel 'positivo' marchese Ussoni, nobile e rivoluzionario,
il personaggio più vicino a Visconti. Ma questa figurina marginale e di
contorno, non convince tutti. Alcuni critici pensano ad una identificazione con
Livia e Franz, ma non senza accusare il regista di compiacimenti
decadentistici. E' lo stesso film, con la sua melodrammatica teatralità,
introdotta da quel bellissimo movimento di macchina iniziale che ci porta al di
là della ribalta all'interno del melodramma, ad offirci la giusta chiave di lettura. Senso, a
dispetto di quanto risulta del progetto iniziale, non vuole raccontare il
Risorgimento: lo fa occupandosi ossessivamente della esclusiva passione tra la
nobile italiana ed il giovane ufficiale austriaco che, poi, si inserisce nel
più vasto fallimento storico e sociale della battaglia di Custoza. Alla fine il
film presenta delle ellissi dovute alla censura: Ussoni viene abbandonato sul
campo di battaglia, ed è perso di vista dalla pellicola; tuttavia, questi tagli
perfettamente si integrano all'atmosfera confusa di un finale che, con Ussoni,
dimentica tutti gli ideali civili che questi rappresenta per guardare solo alla
conclusione della storia tra Livia e Franz perchè, in fondo, anche Ussoni è
agitato da illusioni prepotentemente romantiche, simili a quelle di Livia che
passa da un acceso fervore rivoluzionario alla totale dipendenza dall'amante,
un semplice trasferimento di passioni romantiche. In realtà, l'unico
personaggio sufficientemente lucido è proprio Franz, il cinico profittatore,
l'amante ingrato, l'ignobile traditore. Sorprendentemente è lui a conquistarsi
un'aura 'positiva' che tutte le altre figure non hanno: ma non per questo
Visconti 'è' Franz. Questi è solo cosciente di star vivendo la fine di un mondo
che crollando li travolgerà tutti: egli ha quest'unica consapevolezza, che lo
mette su un piano di superiorità rispetto a Livia (ciò che si traduce in un
interessato rapporto di dipendenza e di sfruttamento della donna), ma si lascia
con indifferenza e voluttà trascinare dal vortice. Il film somiglia a Livia: la
soffocante ricchezza degli addobbi, la recitazione 'melodrammatica' e enfatica,
la stessa fotografia che tinge le immagini di un colore interiore, quelle scene
di battaglia, riprese a distanza, con maggiore attenzione al pittoricismo che
emanano che alla loro evidenza ed incisività drammatiche, confermano che il film
è Livia Serpieri. Nella straziante scena della rivelazione, Franz, con crudeltà
e sadismo, le sbatte in faccia i resti delle sue ridicole illusioni. Ma questa
nuova lucidità non è sufficiente a farla cambiare. Nei gironi infernali di
Verona, ella sopprime con Franz la ragione del suo dolore: una conclusione
comunque grottesca e melodrammatica che rivela come non ci sia stata vera
evoluzione nel personaggio. Nel film, "il fato, il deus ex machina del melodramma, si trasforma [...] in una sorta di
nemesi storica. Non vittime di un destino sono i due eroi: hanno scelto. Pagano
con la distruzione la propria colpa morale (come individui) e storica (come
esponenti di una classe in dissoluzione). Pagano per la loro impossibilità di
mettersi in relazione con la storia" (35).
A TEATRO.
Nell'immediato dopoguerra,
con ancora parte dell'Italia occupata, in seguito ad un periodo di attività
nella Resistenza che Visconti considera il più bello della sua vita,
nell'impossibilità di tornare all'attività cinematografica e in seguito
all'offerta del produttore Riccardo Gualino, Luchino Visconti esordisce alla
regia teatrale con I parenti terribili, del suo amico Jean Cocteau.
Io non avevo una preparazione adeguata, cioè non
avevo mai fatto l'assistente in teatro, per esempio. Avevo fatto semplicemente Ossessione
per conto mio; prima ero stato assistente di Renoir per un breve film.
(36)
Ed è proprio sulla scorta di questa precedente esperienza che Visconti
inaugura la sua attività teatrale: perchè con I parenti terribili egli
sembra tradurre per il palcoscenico e trasferirvi tutti i presupposti teorici e
pratici sperimentati con Ossessione. Come con la Calamai, Visconti
stravolge il personaggio di Andreina Pagnani che risultava dalla sedimentazione
dei ruoli interpretati in precedenza e da vecchie abitudini per scavare e
scoprirvi la verità di Yvonne (37), costrigendo l'attrice ad imbruttirsi,
rinunciare al cerone per esaltare tutta l'espressività del volto e rendere con
maggiore evidenza la spossatezza fisica e morale del personaggio drogato e
consunto, con risultati di tale efficacia da sorprendere la critica e il
pubblico, travolto dalla verità ed intensità di tutto lo spettacolo.
Contrariamente alle abitudini
del tempo, Visconti interviene a riordinare l'assetto interno della compagnia
nella distribuzione dei ruoli privando la già affermata Rina Morelli della
parte della seconda donna -Leo nel testo- per cederlo a Lola Braccini, lasciandole
quello di Maddalena, a lei più adatto anche per semplici ragioni anagrafiche.
La messinscena e la
recitazione vengono semplificate e portate "su un piano di verità e di
realismo" (38) inusitati e di tale impatto sul pubblico da provocare
l'invasione del palcoscenico alla fine delle rappresentazioni. Come testimonia
Mario Chiari, lo scenografo: "il successo fu incredibile. Dalle scalette
dell'Eliseo la gente salì ed occupò il palcoscenico. Stettero lì delle ore, non
se n'andavano più. Le signore toccavano le stoffe, il tessuto del letto, per
sentire com'era fatto, aprivano gli armadi che erano pieni di roba" (39).
Gli spettatori, catturati e coinvolti dallo spettacolo, sono trascinati
fisicamente sul palco, richiamati da esso e travolgono la scena per andare a
trovare, vedere, capire i personaggi nel loro mondo. Visconti aveva optato per
una fedele restituzione dei morbosi e complessi rapporti familiari che il testo
di Cocteau con abilità ed ironia mette in luce, illustrando e motivando
psicologicamente ogni battuta, con una "minuziosa ed attentissima regia di
ascendenza cinematografica" (40) che privava la recitazione di qualsiasi
tipo di enfasi teatralizzante, ambientando l'azione in una scenografia
improntata anch'essa ad un estremo realismo. E' uno spettacolo che bandisce,
come Ossessione, ogni forma di gratuita evasione per concentrarsi sulla
verità dei rapporti psicologici che legano i personaggi (e il testo di Cocteau
si presta meravigliosamente), resi con drammatica veemenza. I parenti
terribili rompe decisamente con la precedente tradizione e pratica
teatrale,e in un tempo in cui il teatro è ancora considerato "bella
finzione" (41), Visconti vi trasporta di peso la verità con un notevole
impatto emotivo ed innovativo:
sentivo chiaramente l'usura di una certa formula,
e mi sembrava che fosse tempo di prodursi in prove impegnate, ma fu solamente
dopo I parenti terribili che mi resi conto che valeva la pena di
continuare [...]. Ho cercato di condurre gli attori a una prestazione precisa,
a una maggiore verità, e inoltre ho
voluto un'atmosfera di maggiore verità attorno a essi [...], volevo che tutto
fosse rigorosamente esatto, la scena come l'interpretazione.
(42)
Visconti sente l'esigenza di sbarazzarsi di tutti gli errori di una pratica
teatrale degenerata e sterile, smantellare gli edifici fatiscenti della
consuetudine e minati da vecchie incancrenite abitudini, luoghi comuni inutili
ed inespressivi: bisogna togliere di mezzo quei "cadaveri che si ostinano
a credersi vivi" (43), continuando a teatro la sua attività riformatrice.
Ma ciò che più di tutto
Visconti afferma, e conferma in ogni successiva espressione spettacolare, è la
centralità e univocità del punto di vista registico, che si impone al di sopra
di ogni abitudine e logica preesistente per guidare lo spettacolo e informarne
ogni parte. Il regista crea uno spettacolo in conformità alla sua personale
idea del soggetto o del testo e dei personaggi: Visconti, in effetti, sia a
teatro che al cinema, introduce una sintassi spettacolare moderna, organica e
coerente, per la quale ogni singolo momento dell lavoro si rispecchia e si
inserisce espressivamente in un disegno complessivo. Lo spettacolo non è più
semplicemente concertato dal regista secondo criteri di eleganza ed armonia, ma
diventa una sua personale espressione artistica perchè è lui ad averne la
completa responsabilità. Essa si manifesta attraverso la maggiore o minore
risonanza data agli elementi presenti nel testo che ne altera
significativamente gli interni equilibri, ed ha la precedenza sulle esigenze e
le letture degli attori. I personaggi, in sede di prova, vengono ricondotti,
con un lavoro di razionale convincimento, a questa visione conclusiva così da
potersi in essa perfettamente inserire.
Vi è una sostanziale
indifferenza, spesso da Visconti ribadita, tra forma cinematografica e
teatrale, in quanto entrambe, semplicemente, sono la personale 'espressione'
del regista che, di volta in volta,
affronta ed adopera linguaggi differenti non disdegnando affatto le
ibridazioni.
So ciò che a volte si dice, che i miei film sono
un po' teatrali e il mio teatro un po' cinematografico. Non vedo nessun
inconveniente in ciò, tutti i mezzi sono buoni. Non credo che il teatro debba
rifiutare questi mezzi se gli vengono in aiuto, nè credo che il cinema a
maggior ragione debba rifiutarli, se questi mezzi gli servono.
(44)
Sono tutti mezzi espressivi di cui il regista dispone e tramite i quali
egli può meglio tramettere il suo pensiero, per una complessiva più efficace
resa spettacolare. In questo senso intervengono i vari riferimenti culturali
reperibili nei film viscontiani, siano essi di natura pittorica o musicale o
letteraria o altra, sfruttati per approfondire o suggerire una chiave di
lettura o un aspetto della psicologia di un personaggio, integrandosi con il
contesto senza imporsi disorganicamente. La permeabilità del lavoro viscontiano
ad influssi avventizi presenta numerosi esempi: è il caso, per citarne uno
macroscopico, de La terra trema in cui l'estrema teatralità dei gesti e
l'artificiosità delle inquadrature contraddice l'impostazione neorealistica di
base, portando ad suo un completo superamento. Andando là dove il Neorealismo
non aveva mai osato giungere (l'uso di attori presi sul posto, la ripresa negli
effettivi luoghi dell'azione, il ricorso alla presa diretta e al dialetto vero
del luogo nella sua integralità e non italianizzato, l'improvvisazione quotidiana dei dialoghi e della
sceneggiatura, sull'ossatura verghiana imprescindibile e corroborata dalla
attualizzazione), fa esplodere la logica neorealistica e la tendenza
documentaristica per arrivare alla sua completa contraddizione (45). Perchè è
proprio nella ieraticità dei gesti, nella eleganza e nella forza del taglio
delle inquadrature, nella violenza del costrasto del bianco e nero, nell'uso
stesso di un dialetto pressochè incompresibile ("in vero siciliano che è
come il greco: non se ne capisce niente") che il messaggio rivoluzionario
viene veramente espresso in tutta la sua potenza. Il ritmo del film "dà il
tono religioso e fatale dell'antica tragedia a questa umile vicenda della vita
d'ogni giorno, a questo [...] brano di <<cronaca>> paesana"
(46). E' la teatralità dell'insieme a trasformare, con una metafora che ha
anche una sua validità poetica, le reali condizioni di vita dei pescatori di
Aci Trezza in una tragedia atemporale, classica, ma in cui il fato, come sempre
in Visconti, è determinato da uomini, che qui impongono ingiustamente
insopportabili condizioni di vita. La scoperta e la consapevolezza di questa
verità (l' "accorgersi che non si sta bene e che si potrebbe star meglio"
[47]) è la premessa ad un cambiamento, fuori campo rispetto al contenuto
effettivo del film che forse lo annuncia o ne mostra l'incipit, il quale altererà una situazione di oppressione ormai
senza tempo e farà realmente 'tremare la terra'. Il secondo film di Visconti,
non a caso segue l'esperienza teatrale del triennio 1945-1947, un tirocinio che
ha affinato sensibilmente le qualità espressive viscontiane (48).
I parenti terribili
prosegue negli intenti e nei modi il discorso iniziato con Ossessione e
dimostra come non vi siano fratture tra l'attività cinematografica e quella
teatrale di Visconti: la recitazione è orientata nello stesso senso e vi è la
medesima esasperazione realistica dei personaggi e delle situazioni; i due
lavori approfondiscono similmente i condizionamenti di un ambiente, vincolante
lo sviluppo drammatico, sensuale ed opprimente, che è perfettamente reso da uno
spettacolo "antropomorfico" che affronta temi scabrosi e nuovi
perseguendo un comune intento traumatizzante e catartico nei confronti del
pubblico.
In tutti i campi, Visconti
lavora ad una complessiva definizione ed affermazione della "regia",
della posizione determinante del
regista in quando mente dirigente lo spettacolo. Anche per questo, è forse meglio
definire visconti "autore di spettacoli", una formula, mutuata da
Marinucci (49), che compendia la molteplicità espressiva viscontiana; allora,
invece di parlare dei suoi film o delle sue regie teatrali di prosa o liriche,
per i tratti comuni conviene forse parlare degli 'spettacoli', in senso lato,
di Visconti.
Mi interessa soprattutto lavorare con esseri
umani, cercare nel fondo di un'anima la verità che essa tenta di esprimere:
quella dell'autore, quella dei personaggi, degli attori che li interpretano,
del pubblico. E' per questo che mi è indifferente curare una regia teatrale o
cinematografica. Non dipende dalla mia scelta il passaggio da una forma
d'espressione aal'altra. Prendo ciò che viene. Resta inteso, comunque, che il
cinema è una creazione, il teatro
soltanto un'interpretazione.
(50)
Se sostanziale è
l'indifferenza di Visconti per la forma di comunicazione utilizzata, allora è
comprensibile come tutte convergano in quella da lui prediletta: il melodramma.
Egli lo considera, nella forma ottocentesca ed italiana, come la summa delle manifestazioni spettacolari,
compendio di elementi audiovisivi, sonori ed iconografici rafforzantesi
vicendevolmente per meglio comunicare con lo spettatore essendo la "forma
più completa di spettacolo" (51).
Verdi ed il melodramma italiano sono stati il mio primo
amore. Quasi tutto il mio lavoro, si tratti di film o di regie teatrali, esala
una certa polvere di melodramma. E questo mi è stato rimproverato, ma per me è
un complimento. (52)
Il melodramma per Visconti condensa espressivamente lo spettacolo e la
vita: qualcosa in più di una semplice registrazione di fatti, esso permette
l'esaltazione dei contenuti emotivi di gesti e parole e li rende spettacolo.
Visconti ha sempre utilizzato questo modo di procedere,
"enfatizzando" il contenuto emotivo dei singoli momenti dei suoi
lavori perchè lo spettacolo è per lui, sin da Ossessione, sottolineatura
significativa ed espressiva, drammatizzazione: "amo il melodramma perchè
si situa proprio ai confini della vita e del teatro" (53): attraverso
esso, appunto, la vita può diventare spettacolo. In questa tendenza
spettacolare, il melodramma finisce per avere una valenza quasi
espressionistica, in un autore che si è sempre dichiarato restio ad accettare
le innovazioni delle avanguardie per rivolgersi a forme narrative più
classiche, ottocentesche (ma aggiornate proprio tramite apporti dalle ricerche
espressive più recenti, inglobate e non accettate in toto, diventate solo strumento per un potenziamento
dell'efficacia comunicativa complessiva): la musica commenta e rafforza il
contenuto delle immagini e delle parole amplificandone, accentuandone il senso
con una convergenza che arriva talvolta a deformare il dato realistico per eccedenza di preganza significativa.
L'oggettività di base dei lavori viscontiani passa infatti per una forte
soggettività espressiva, il ricorso ad espedienti di disparata provenienza per
evidenziare e trasmettere il contenuto dello spettacolo, ciò che non permette a
Visconti di attenersi alla semplice registrazione di fatti, ma lo porta automaticamente,
a farne spettacolo, melodramma.
A
volte la forma melodrammatica prevale e si impone come struttura portante;
soprattutto in Senso dove questi stilemi si affermano e rendono il film
un vero e proprio melodramma cinematografico, assecondando però esigenze
estetiche dettate dall'opera e non dal semplice capriccio del regista.
Non so perchè la critica non vuole ancora
riconoscera la mia libertà. [...] Rivendico la mia libertà che non è limitata.
[...] La verità è che io ubbidisco solo a tre direttive. Stabilire una verità
filologica storica e drammatica e cercare di raggiungere questo ideale di
spettacolo completo che è il melodramma.
(54)
Il presupposto antropomorfico
degli spettacoli viscontiani comporta una notevole varietà stilistica poichè lo
stesso stile non può indifferentemente adattarsi a tutti i soggetti: Vaghe
stelle dell'Orsa..., ad esempio, film immediatamente successivo al Gattopardo,
non ha stilisticamente niente da spartire con questo:
ogni film presenta problemi diversi. Tratti una
materia diversa, racconti una storia diversa. Il problema dello stile nasce
dalla storia, dalla sua realizzazione per lo schermo.
(55)
E' forse ciò che ha dato l'immagine di un Visconti spesso in apparente
contraddizione, quindi di difficile catalogazione (56). Ma è esattamente ciò da
cui egli rifugge, e le ragioni sono già tutte nei suoi intenti di rinnovamento
culturale, nella necessità dell'abolizione di vecchie formule. Se la varietà
stilistica è direttamente conseguente dalla
scelta dei temi, essa è anche collegata alla necessità di una costante
revisione delle proprie qualità espressive, di una continua rimessa in
discussione di se, perchè ogni formula, anche se inizialmente innovativa,
diventa per l'usura presto inefficace ed inutilizzabile.
Così anche l'estremo realismo
a teatro o il neorealismo al cinema non sono per Visconti che espedienti e
momenti espressivi transitori e non vincolanti, legati ad una precisa
situazione storica, necessari per un'adeguata resa di determinati spettacoli.A
lungo, per la critica, il suo abbandono del neorealismo è stato traumatico,
inaccettabile perchè non sembravano esistere alternative possibili. Ma il
cinema di Visconti dal punto di vista dello stile non ha in effetti avuto mai
niente da spartire con la pretesa oggettività documentaristica del neorealismo
canonico, nella sua accezione rosselliniana, avendone però indicato con Ossessione
l'approccio tecnico-stilistico alla realtà: si è trattato, come Visconti stesso
ha osservato, soprattutto di una comunanza di contenuti, dettati dall'esigenza
del momento storico (57).
Nella mia personale esperienza di regista, la
ricerca di una verace documentazione della realtà che si sostituisse al
convenzionale posticcio ha soddisfatto il bisogno di una libera creazione
artistica in un momento in cui il cinema doveva attenersi ad un ricettario al
quale lo stesso pubblico aveva finito con l'assuefarsi.
(58)
Il suo interesse si è in seguito orientato diversamente ma allora
corrispondeva al bisogno, sentito da tutti e necessario dopo un ventennio di
regime fascista, di guardare chiaramente e lucidamente in faccia la realtà.
"Ossessione, tanto per il contenuto quanto per lo stile aveva
provocato una specie di choc, soprattutto perchè in quel momento nessuno
avrebbe potuto o voluto abbordare temi del genere" (59). Uno choc
salutare, e tipicamente viscontiano, ripetuto anche nella scelta dei testi e
delle tematiche affrontate dalla immediatamente successiva esperienza teatrale.
Bellissima è
tratto da un soggetto di Cesare Zavattini, abituale musa neorealistica
desichiana, che serve a Visconti solo come scusa per lavorare finalmente con la
Magnani, attrice amatissima originariamente scritturata per Ossessione.
Rispetto al soggetto oiginale, Visconti si prende molte libertà per comporre
"il ritratto di una madre", ma anche, e soprattutto, per farne
"un pretesto per una certa attrice" e infatti "l'obbiettivo era
puntato più su di lei che su tutto il resto" (60). Il discorso sviluppato
attorno alla Magnani, di cui sfrutta le immense doti di attrice, è centrato
sulla duplicità e l'ambiguità, sull'opposizione tra realtà e finzione, sulla
menzogna, legato al ricorrente tema viscostiano della scoperta della vanità
delle proprie illusioni nella conquista della lucidità, che per il personaggio
interpretato dalla Magnani diventa la finale "consapevolezza di aver amato
male la sua bambina" (61). Il film è costruito sulla personalità di
Maddalena, in bilico tra le legittime aspirazioni e vanità di madre e le
frustrate ambizioni di attrice che si riflettono deformate sulla figlia e che
la costringono a torturarla con amore ed in completa buona fede. Ma anche sulla
sua doppiezza, sulla volontà di sfruttare a suo vantaggio tutte le circostanze
(le punture, lo stesso personaggio di Chiari che viene da lei 'raggirato') con
cinismo ed interesse; soprattutto sulla sua grottesca incapacità a vedere
l'illusorietà delle sue pretese che mina internamente la dimostrata capacità di
muoversi su un piano di profonda concreta consapevolezza nel mondo circostante,
la quale diventa soltanto il mezzo per alimentare ulteriormente il sogno. Si
tratta di un personaggio in perpetua contraddizione, costruito secondo una
struttura binaria (62) che denuncia una certa schizofrenia, e che si riflette e
ripropone nelle antinomie dell'intero film ed è pienamente esaltata
dall'ambientazione a Cinecittà vista come il gigantesco set di una menzogna
massificata, zeppa di finti fondali ed infestata da personaggi dubbi e
sospetti, un universo precario e discutibile animato da figure quasi felliniane
(l'attrice, l'attempata ballerina). E' il film di Visconti che maggiormente si
avvicina alla commedia, per mezzo di una feroce ironia e di un acceso gusto per
il grottesco che assume tratti caricaturali.
Cinecittà è la capitale dei sogni di Maddalena che, letteralmente,
vive nel cinema, per vocazione e perchè lo schermo nel cortile del suo palazzo
è sempre visibile e le voci degli attori risuonano ossessivamente in tutta la
casa. Non vi è da parte di Visconti nessun narcisistico compiacimento nè
tentazione metacinematografica nel penetrare al mecca italiana del cinema; lo
stesso cinema "dall'inizio alla fine, è guardato da un'angolazione di
acuta ed inesorabile demistificazione, dei suoi protagonisti, dei suoi
servitori, dei suoi sudditi, del suo regno" (63) così da meglio
evidenziare la patetica cecità di Maddalena.
Nella prolungata scena del
pianto (iniziato dalla bambina nel provino e continuato dalla commozione della
madre, amplificato attraverso lo scherno e riso di Blasetti e dei suoi
collaboratori) nella cabina di proiezione, che prosegue nella sequenza sulla panchina
davanti alla giostra, la donna acquista la conclusiva consapevolezza della
irrealizzabilità del proprio sogno e della sofferenza ed umiliazione inflitte
alla figlia. Maria, in effetti, è il fulcro psicologico sottinteso di tutta la
storia: Visconti lo evidenzia in due momenti che ritaglia per lei, due
silenziosi carrelli che vanno a cogliere la vera condizione della bambina,
l'angoscia e la solitudine provate, e dovute alla madre. Sono i due soli
momenti realmente 'viscontiani', che indagano in profondità la psicologia della
figlia di Maddalena in un film dall'apparenza neorealistica, un 'falso' che
anche stilisticamente riafferma il motivo dominante: la duplicità. Questa è esemplificata
dalla scena a casa dei Cecconi, costruita su un forte crescendo che termina
nella drammatica sequenza delle percosse a Maddalena da parte del marito. La
scena continua con il conseguente accorrere delle donne del palazzo in difesa
di Maddalena e lo sfogo di questa, picchiata ed oppressa, offesa
dall'ingratitudine dell'uomo, che si conclude con la finale estromissione del
marito ed il ritorno della bambina tra le braccia di Maddalena e la sorpresa
della soddisfazione della donna che rivela di aver finto tutto, interpretato
astutamente e perfettamente la parte della moglie umiliata per continuare
imperterrita nei suoi intenti, in una sorta di congiura femminile di cui sono
state complici le altre donne: Visconti fa bruscamente crollare la tensione costruita
con apparente sincerità in tutta la scena, sconfessandola alla fine e
mostrandone la vera natura di mistificazione registica: una finta 'scena madre', in realtà un pezzo
di puro virtuosismo attoriale per Maddalena-Magnani. Infatti è proprio nella capacità
e vanità di attrice mai realizzata che si situa il motore del film, il quale si
regge sulla stessa duplice recitazione della magnifica Magnani, attrice ed
interprete di una donna anch'essa 'attrice', che è di una tale intensità e
verità da lasciare sempre nel dubbio che non stia realmente recitando,
aumentando così ancor di più i margini dell'ambiguità (64).
Bellissima viene
distribuito pressappoco nel momento in cui si consuma la disfatta economica e
si annuncia l'estinzione del movimento cinematografico neorealista, in seguito
al completo fallimento di Umberto D, ciò che segnala un prepotente
cambiamento nei gusti e negli interessi del pubblico a dispetto delle
aspettative e pretese della critica. Con un soggetto, un'attrice, uno stile
apperentemente neorealistico, Visconti chiude gli ultimi conti ancora aperti
con il movimento. Perchè nel film è implicita una severa critica all'apparenza
neorealistica di molti film coevi, alla degenerazione in formula commerciale,
sterilmente stereotipata a Cinecittà, degli intenti originali. Una forte
denuncia di una falsità (quindi duplicità e menzogna di base), dell'ipocrisia
di un'industria che maschera e spaccia la fasificazione per verità, con
ignobile opportunismo. Ai tempi già polemici nei confronti del neorealismo de La
terra trema, egli si era lamentato del fatto che "la ricerca legittima
di certi temi, una posizione morale nei confronti della vita passassero
silenziosamente a compromessi di comodo" (65), si arenassero dietro la
facilità della ripetizione, perdendo l'impulso indagatore e critico che invece
Visconti non abbandonerà mai, pur allontanadosi formalmente dal neorealismo,
per ritrovare, indipendentemente, la vera e più intima essenza del suo cinema,
dello 'spettacolo' viscontiano, che denota un impegno costante e comunque
valido, non vincolato a ricette o schemi esterni:
io parlo più di realismo che di neorealismo. Noi
dobbiamo porci in un'attitudine morale di fronte agli avvenimenti, alla vita:
in un atteggiamento, insomma, che ci consente di vedere con occhio limpido,
critico, la società così come è oggi, e raccontare [anche attraverso metafore
storiche] fatti che di questa società sono parte".
(66)
Attraverso Bellissima
e la stessa Magnani è possibile istituire un ennesimo nesso con Jean Renoir con
la novità, questa volta, che il percorso dell'influenza sembra orientato in
senso inverso e andare da Visconti a Renoir. Nel 1952, questi gira Le
carrosse d'or, da Le Carrosse du Saint-Sacrement di Prosper Mérimée,
con Anna Magnani. Ed è un film, come Bellissima, imperniato sul rapporto
tra menzogna e verità, attraverso la commedia dell'Arte e la confusione tra la
realtà e la mistificazione, la donna e il personaggio. La Magnani vi interpreta
la duplice parte di Camilla e Colombina, il suo personaggio nell'Arte: ancora
un ruolo doppio, di attrice riconosciuta e realizzata in questo caso, ma in cui comunque si mescolano i
limiti della finzione e della recitazione con quelli della sincerità. Una
storia che secondo lo stesso Renoir poteva essere intitolata "la
comédienne, le théâtre et la vie" (67), dove il teatro prende il posto del
cinema e inserisce tutto il film in una complessiva finzione teatrale esibita.
Sono analogie con Bellissima che non lasciano dubbi sulla sua
discendenza da Visconti il quale aveva già lavorato ad un suo personale
adattamento del testo francese (che figura anche tra progetti da mettere in
scena a teatro) a cui "collaborarono Suso Cecchi D'Amico, Antonio Pietrangeli
e Franco Zeffirelli- e forse anche Pietro Tellini e Renzo Avanzo" (68) che
ritroviamo nei credits del film di
Renoir come co-sceneggiatore. Allora non sorprende scoprire tra i membri della troupe fedeli collaboratori di Visconti:
Mario Chiari per le scenografie e Mario Serandrei al montaggio.
"Regalando" il suo progetto a Renoir, Visconti intende forse
risarcire quel debito ancora aperto dai tempi di Ossessione e di Cain.
Le début du Carrosse d'or nous présente en
effet un rideau qui se lève sur un second rideau qui se lève à son tour, sur un
escalier à trois paiers, l'entresol n'étant rien d'autre que la scène du
théatre. Nous sommes à ce moment spectateurs de théatre. Un travelling nous
entraine de notre fautuil sur la scène [...]. Alors seulement nous sommes au
cinéma.
(69)
E' difficile non pensare al movimento di macchina iniziale di Senso:
un carrello su un dolly che porta all'interno del palcoscenico, invertendo il
punto di vista iniziale e trasformando il cinema in teatro, in melodramma, così
come Renoir aveva, al contrario, immesso il cinema nel teatro. E' una somiglianza
che comunque, come sempre, Visconti perfettamente integra al film, ma che
testimonia ulteriormente del profondo rapporto di vicinanza con il regista
francese.
Senso ed il
personaggio di Livia, sono forse la più forte espressione del bovarismo in
Visconti. La contessa Serpieri è molto somigliante ad Emma Bovary, vittime
entrambe di luoghi comuni romantici che trasformano e falsificano
grottescamente la loro vita. Il discorso viscontiano sulla necessità di una
piena consapevolezza dei condizionamenti esterni si conferma e corrobora nella
somiglianza del film con il romanzo, il ritratto di una inconsapevole e
ridicola vittima 'predestinata'. Inoltre, per la ripetizione nella storia di
Livia della esperienza vissuta di Visconti, anch'egli potrebbe dire,
parafrasando Flaubert, che "Livia c'est moi", o meglio, "c'était
moi"; l'identificazione, comunque parziale, non annulla la critica al
personaggio, ma, anzi, la amplifica.
Scorrendo la filmografia di
Renoir, scopriamo che nel 1933, subito prima di Toni, egli filma il
romanzo di Flaubert in cui realizza una precisa e minuziosa ricostruzione del
periodo, "de la privince francaise de 1850, étonnante de vérité. Décors, costumes, dialogues, tout sonne admirablement juste. Ce n'est
pourtant pas le réalisme qui a guidé ici Renoir, mais au contraire une
recherche constante de <<théâtralité>>: chacun joue ici un rôle,
campe un personnage, et Emma Bovary apparaît comme une sorte de victime de ses
propres illusion" (70). Senso sembra
quindi riprendere moltissimo dal film di Renoir, la verità dell'ambientazione
storica e psicologica, la stessa tematica viscontiana della soccombenza alle
proprie sbagliate illusioni. Anche la melodrammaticità di una recitazione
enfatica sembra ripetere l'esempio di Renoir che ha diretto gli attori
"dans le sens d'une certaine surenchère d'expressivité" (71). Bazin,
analizzando il film, lo avvicina al Carrosse d'or per la stessa
confusione tra finzione e realtà; "pour Renoir, le bovarisme n'est qu'une
des forme de l'incertitude que formulera plus tard Camilla: <<où commence
la comédie? Où finit la vie?>>" (72),
con la sola differenza che se in Camilla la recita, pur essendo un'abitudine
che insidia la vita, rimane sostanzialmente consapevole mentre in Livia ed Emma
essa diventa automatica ed istintiva, naturale conseguenza dei tempi e della
loro personalità. "Mme Bovary est vraie, même dans le plus grand artifice,
artificielle dans chacune de ces minutes de vérité" (73) perchè vi è una
completa e pericolosa sovrapposizione tra il personaggio che credono di essere
ed interpretano e la loro vera nascosta personalità. Emma non lo saprà forse
mai; Livia, grazie a Franz, alla fine capisce. Ma anche lei non potrà non
concludere la sua storia che con la morte, ovvero con una specie di vile e grottesco
indiretto suicidio che le fa uccidere Franz ed urlare di dolore. Inoltre, Mme.
Bovary "è tutta giocata in chiave operistica" (74), e Senso
è un melodramma cinematografico. La "finzione" permette quindi di
ricollegare Senso a Bellissima (passando per l'episodio di
Siamo donne in cui la Magnani si 'smaschera' per una ancor migliore identificazione col personaggio e
raggiungerne la più completa verità) tramite Renoir e Le carrosse d'or
(75).
"COCTEAU-VISCONTI".
Il teatro è per Visconti un importante veicolo per
offrire al pubblico testi, interessanti per la loro validità poetica o
semplicemente per le tematiche affrontate. Le scelte della prima stagione teatrale viscontiana rispondono soprattutto
a questo secondo tipo di esigenze, poichè la gamma dei temi scelti, spesso
nuovi e scabrosi e trattati con violenta verità, è vasta e polemica, e punta
sostanzialmente al rinnovamento dei repertori delle compagnie attraverso testi
sempre inediti per l'Italia, che diventano anche il veicolo per regie innovative.
La volontà di rottura da tutte le consuetudini precedenti è molto forte in
questo periodo, e continua l'impatto di Ossessione, il bisogno di
sottoporre ad uno choc il pubblico intellettualmente intorpidito dal fascismo
con testi 'immorali', provocatori e spesso sconcertanti perchè "se si fa
qualche cosa, bisogna non dico dar fastidio, ma per lo meno buttare un sasso in
mezzo a uno stagno, in mezzo a delle acque stagnanti, smuoverle queste
acque" (76). La scelta dei testi voleva anche allentare le restrizioni
della censura per cercare di arginare la chiusura culturale dell'Italia,
aggiornandola e mettendola al passo con i tempi e con le produzioni straniere,
soprattutto sui versanti francese e americano.
I Parenti terribili è un
testo importante per l'emergere ed il mettersi a fuoco di elementi e tematiche
in seguito ricorrenti, e che risponde completamente alle intenzioni
traumatizzanti di Visconti affrontando l'imbarazzante argomento dell'incesto
per mezzo dell'ironia di Cocteau, forse in parte cancellata dall'opprimente e
travolgente realismo della messinscena. Come osserva Guerrieri, "I
parenti terribili sono un manifesto: con questo doppio incesto, Luchino
[...] entra nel teatro italiano. Non solo: ma nel bel mezzo della guerra, con
urla familiari con un bisogno di affetti privati che in quei giorni era una
bella audacia" (77). E' il primo lavoro in cui emerge il tema della
famiglia, nella sua più tipica espressione corale (78). Quello del
"carrozzone" è il primo dei nuclei familiari in dissoluzione che
condensano in situazioni di privato sfacelo morale, nella dissolutezza dei suoi
componenti, il più generale crollo degli equilibri sociali.
Quando non esiste la famiglia non esiste più nulla
[...]. Fuori l'uomo, fuori la donna, la casa come nucleo familiare è diventata
inesistente, con conseguente disordine di tutta la società.
(79)
All'interno della famiglia
dei Parenti terribili sono riconoscibili rapporti di forza che la
rendono un emblematico microcosmo sociale; l'unità familiare è infranta dalla
lotta per il potere ed il dominio, dal gioco di allenaze e complotti capeggiati
da Leo, dallo scontro tra i due opposti schieramenti che fanno rispettivamente
capo a lei e ad Yvonne, baluardo, al contrario, del disordine, morale fisico e
psicologico. Leo è da sempre la consapevole rappresentante delle forze
dell'ordine, tacita guida della ruolotte,
che nella battaglia rafforza le sue posizioni con l'introduzione in famiglia,
al III atto, di Maddalena, altro caposaldo dell'ordine e della pulizia. Questo
ha effetti devastanti sul pericolante equilibrio degli affetti familiari perchè
la presenza di Maddalena, nella veste di duplice rivale di Yvonne nella
passione per Michel e nel più confessabile ed ufficiale affetto per il marito
(80), spodesta la donna dalla sua posizione privilegiata da cui si irradiava la
viziata e soffocante atmosfera della casa. L'alleanza con Maddalena, che avrà fatali conseguenza sulla sorella,
viene decisa da Leo alla fine del II atto, quando, abbastanza inaspettatamente,
mantenendo comunque la sua incontrasata posizione demiurgica di fulcro
ragionativo ed adulto della storia, la donna sceglie di cambiare campo, nel
tentativo di non ripetere e perpetuare l'errore passato che l'aveva portata a
sacrificarsi per amore di Georges riunendo disordine con disordine: la
consapevalezza di aver allora sbagliato, unita al rimpianto di aver sprecato
tutta la vita e mossa dall'ancor vitale amore per il marito di Yvonne, spinge
Leo a lavorare per la finale affermazione del suo nuovo ordine nel carrozzone:
nella battuta conclusiva, Leo manda via la donna di servizio: "je lui ai
dit qu'ici elle n'avait rien à faire, que tout était en ordre" (81). La
consueta distinzione viscontiana tra lucidità ed inconsapevolezza si traduce perfettamente in Cocteau nella
contrapposizione tra personaggi infantili ed adulti, nella dicotomia tra
passione accecante e razionalità da cui consegue una ulteriore separazione,
molto viscontiana, in vittime e carnefici. Le vittime in Visconti sono i
personaggi infantili, ingenui e non lucidi che subiscono la sopraffazione
emotiva di personaggi invece più consapevoli e cinici.
La comunanza d'intenti tra
Cocteau e Visconti, nel senso di una critica antiborghese, è affermata dalla
riproduzione delle prefazioni alla pièce sul
programma di sala delle rappresentazioni viscontiane. L'autore vi afferma di
voler essere "peintre fidèle d'une socièté à la dérive" (82): le
convenzioni e le appariscenti ipocrisie borghesi, diventano ridicoli,
grottescamente vuoti luoghi comuni privi di qualsiasi senso e dignità nel
disordine dominante che vorrebbero disperatamente nascondere ("Qu'est ce
qu'une famille bourgeoise? [...] C'est une famille riche,
en ordre, avec des domestiques... Chez nous, pas d'argent pas d'ordre, pas de
domestiques. [...] Mais les phrases et les principes tiennent bon. L'épave de
la bourgeoisie" [83]).
Cocteau
dice di aver intenti anche artisticamente innovatori poichè dichiara di aver
scritto un testo che, legandosi alla tradizione passata (di teatro borghese),
cerca diverse vie d'espressione confondendo e rimescolando artificiosamentne topoi noti:
j'ai vuolu essayer ici un drame qui soit une
comédie et dont le centre même serait un noeud de vaudeville si la marche des
scènes et le mécanisme des personnages n'étaient dramatiques.
(84)
Questo atteggiamento sperimentale ed innovativo si trova confermato dalla
seconda prefazione "écrite au théâtre" in cui Cocteau sostiene di
ritenere "essentiel de changer les règle du jeu. Revenir
en arrière est impossible. Mais renouer avec de subtils exemples est
tentant" (85) in modo che il testo emerga nuovo da un diversa proporzione
di vecchi ingredienti (86).
Il passato è quindi un
elemento attivo determinante per la costruzione del testo. Esso agisce però
anche all'interno di questo come motivo conduttore del comportamento di Leo e,
quindi, dell'intera azione del dramma. La rilettura lucida e razionale del
passato tipica dei personaggi viscontiani trova nei Parenti terribili la
prima chiara espressione con il personaggio di Leo. In lei, lo sguardo
consapevole al passato diventa il
preludio al futuro che si prospetta allora più libero da tutti gli errori già
commessi, più consapevole e che inizia con un diverso comportamento nel
presente corretto, appunto, da una inedita comprensione del passato. E non a
caso il tema del passato è associato alla famiglia e, soprattutto, all'incesto
(che Cocteau ironicamente declina in tutte le sue sfumature nei Parenti
terribili) inteso come esasperazione di un rapporto affettivo opprimente
che rappresenta il culmine di un conservatorismo amoroso refrattario a
qualsiasi influsso estraneo ed innovatore, terrificato dal cambiamento ed
arenato nello statu quo, ripiegato
ossessivamente e sterilmente su se stesso. L'incesto è una prigione di affetti
e comportamenti che non accetta l'evoluzione, ma comporta una continua
riconferma del passato: è l'espressione dell'incapacità di sfuggirgli, ed è
questa staticità che Visconti critica come inaccettabile ostacolo allo sviluppo
ed al futuro perchè è l'impossibilità di un rinnovamento e premessa certa alla
decadenza. Ad indignare Visconti è la viltà implicita nell'incesto, il quale
diventa di conseguenza il potente simbolo di una incapacità al cambiamento, del
rifiuto del progresso, il sintomo di una colpevole assenza di sguardo
critico.
Dal punto di vista
drammaturgico, l'incesto, essendo l'ultimo vero tabù rimasto, costituisce un
valido pretesto narrativo perchè crea una situazione di estrema tensione morale
e drammatica fortemente spettacolare.
E' un problema professionale, narrativo. L'amore
felice, realizzato, non fa storia. [...] In una società come la nostra gli
amori impossibili non esistono più [...]. L'unico tabù sessuale che sopravvive
intatto è l'incesto [...] è il solo amore impossibile, maledetto, drammatico.
(87)
Ma la ricorrenza di questo motivo in Visconti non è così semplicemente
spiegabile perchè la sua ripetizione denoterebbe solamente una mancanza di
fantasia creativa: l'incesto corrisponde invece soprattutto ad una esigenza di
efficacia emblematica del rapporto con il passato ed i suoi condizionamenti,
indica chiaramente l'incapacità di uscirne, di rifiutarli. La famiglia è
l'ambiente (una microsocietà) in cui è più sensibile, nella presenza di ruoli e
tradizioni invariabili, il peso vincolante e restrittivo del passato e in cui
il discorso viscontiano sulla necessità di liberarsene essendone coscienti può
più chiaramente emergere.
Lo dimostra anche Vaghe
stelle dell'Orsa..., che, ad un ventennio di distanza dalla prima
incursione, costituisce un ritorno all'universo di Cocteau il cui influsso è
molto più sensibile dei debiti riconosciuti dalla critica verso la tragedia di
Elettra e il dannunziano Forse che sì forse che no. L'incesto, anche
qui, si associa alla dissoluzione dell'universo familiare (come avverrà anche in La caduta degli
dei), alla perdita dell'unità nella divisione in due campi avversi (i
figli, i 'genitori'), alla morte finale per avvelenamento del personaggio
"disordinato", melodrammaticamente ed infantilmente voluta ma, alla
fine, troppo tardi rifiutata. Il passato è ancora al centro della vicenda,
parzialmente sotterrato e riscoperto nel procedere del film, costruito come un
giallo, una ricerca dei delitti, dei colpevoli e della verità. L'ambientazione
a Volterra aumenta il peso opprimente del tempo e dà tangibilmente il senso
della morte cui Sandra condanna il fratello, come Leo la sorella,
implicitamente inscritta nel loro ripudio del passato e del vecchio ordine:
Sandra se ne deterge simbolicamente con un bianchissimo asciugamano mentre
Gianni muore, scegliendo definitivamente la vita adulta ed il marito. Questi è
l'unico personaggio 'positivo' del film, non coinvolto nella generale ambiguità
(da cui trapelano cenni di una critica alla borghesia), l'estraneo, incapace
però di svelare il mistero della famiglia (e con il queale il pubblico, per la
struttura stessa del film, è costretto ad identificarsi), ma in realtà
emarginato dal vero nucleo drammatico del film, il rapporto tra i due fratelli.
E' un personaggio maltrattato e deriso dallo stesso Visconti, che gli fa tenere
in mano una cinepresa superotto con la quale registra avvenimenti per lui
incomprensibili. Il regista gli preferisce la crescente lucidità di Sandra, il
vero personaggio viscontiano, che accompagna sino alla finale completa
liberazione dalle maglie del passato:
la mia vera attenzione è stata rivolta alla
coscienza di Sandra, al suo disagio morale, al suo impegno di capire: gli
stessi tiranti che hanno mosso 'Ntoni, Livia, Rocco e il principe di Salina.
(88)
Anche l'impostazione 'gialla'
è forse derivata da Cocteau, più precisamente da La machine à écrire che
Visconti mette in scena nell'ottobre 1945, a pochi mesi di distanza da I
parenti terribili. La machine à écrire è costruito sulla ricerca
della vera identità della misteriosa "macchina da scrivere" che
terrorizza gli abitanti di una cittadina della provincia francese con missive
rivelatrici dei segreti più compromettenti, innescando una serie di suicidi
estremamente 'borghesi', dettati dalla incapacità di sopportare lo scandalo e
la vergogna della verità. La scena, come in ogni giallo, è dominata da un
poliziotto, taciturno osservatore di tutto, ma stanco del suo ruolo ufficiale e
sempre più affascinato dal disordine criminale. Egli dirige dall'interno
l'azione, smascherando i falsi colpevoli perchè, al contrario della comune
logica poliziesca, quasi tutti i personaggi, per la loro puerile mania
protagonistica, sono portati a confessarsi colpevoli pur non essendolo.
Ovviamente, la vera macchina da scrivere è il personaggio più insospettabile,
Solange, la castellana. Con lei si ripropone parte dell'ambiente dei Parenti
terribili: come Maddalena, la donna, già promessa sposa di Didier, è
l'amante del figlio, Massimo (un legame che risarcisce la rottura del rapporto
con il padre e che allo stesso tempo punisce l'ostilità di Margot verso la
donna), con una sovrapposizione del ruolo di amante e di madre, sottolineata
anche dal fatto che Massimo è il compagno di giochi e di avventure di Claudio,
il figlio di Solange, ed è stato proprio da questi portato in casa (89). La
trama gialla, come anche in Vaghe stelle dell'Orsa..., non prevale e in
realtà non interessa, dimostrandosi pretestuosa per un approfondimento della
psicologia dei personaggi. Difatti la partizione del testo intitola i tre atti
ai tre personaggi più importanti; il primo a "Margot", il secondo a
Massimo ("La crise d'épilepsie") ed il terzo a Solange ("Le
coupable"). Massimo è sdoppiato nel gemello Pascal, personaggio di tediosa
banalità che rappresenta il suo lato più solare ed apparentemente chiaro (più
borghese, anche nelle sue ipocrisie); la presenza dei due fratelli, di cui
Margot, loro sorellastra adottiva, è puerilmente innamorata, serve a mostrare
la riflessa schizofrenia della ragazza, personaggio non duplice ma molteplice,
che vive nell'ombra ossessiva del ricordo della madre adottiva con pretese di
drammaturgo e d'attrice che esaltano la sua natura infantile: Visconti l'ha
giustamente resa "esasperata ed ansiosa" (90). Nel testo si riafferma
la dialettica tra ordine e disordine, la distinzione dei personaggi in adulti e
bambini tipica di Cocteau, e quella parallela e conseguente in personaggi
lucidi o miopi, l'unico vero adulto della pièce
essendo Fred, il poliziotto consapevole della sua posizione privilegiata di
spettatore straniato, ma anche amante del disordine e animato dalla confessata
ammirazione per "la macchina da scrivere", di cui vorrebbe diventare
complice. Neanche Solange è sufficientemente lucida ed adulta, a dispetto della
sua attività minatoria e disvelatrice delle mistificazioni altrui e delle sue
velleità di emancipazione. Anch'ella
rimane vittima della stessa mentalità borghese che combatte con le lettere
anonime per vendicarsi di un atteggiamento di critica e di condanna a lei
rivolto. Solange sceglie alla fine la morte, gesto che la denuncia prigioniera
di un comportamento e di una mentalità comuni: proprio come le sue vittime, la
donna si suicida dopo che la sua personale inconfessabile verità è stata
scoperta, la "machine à
écrire" essendosi rivolta contro di lei. Un finale da mélo che riconduce il dramma ed il personaggio entro stereotipi
convenzionali, che impedisce l'attuazione del piano di fuga di Fred e afferma
l'impossibillità di una completa evasione dalle costrizioni borghesi e
l'essenza della loro sotterranea pericolosità. La Solange di Visconti è
"complessa, intensa e sottile" (91) rivelando la presenza di vari
piani nel personaggio. Se tutti e tre i protagonisti della pièce (Margot,
Massimo, Solange) possono considerarsi 'attori' e legati ad una certa
falsificazione, i diversi personggi in Solange si confondono. La sua età non le
permette una finzione completa e narcisistica, ma sofferta; la realtà è in lei
molto più radicata che negli altri due: è realmente innamorata, è realmente
"la macchina da scrivere" e la sua vendetta ed il suo odio sono veri
e forti: e pure di questa mancanza di scarto che impedisce il 'gioco' rimarrà
vittima.
Anche Margot e Massimo
vorrebbero porsi al di fuori della convenzione borghese ma non riescono che ad
essere conformi ai borghesissimi cliché
dell'artista e del personaggio 'maledetto' (e i cui dialoghi sono infestati da
luoghi comuni), con una totale frustrazione dei loro sogni di evasione sociale,
cui risponde anche l'esigenza di dichiararsi colpevoli per distinguersi ed
emergere veramente dalla norma. Una tendenza diffusa, che ha contagiato molti
giovani (92) abitanti della cittadina che sognano tutti di interpretare il
vistoso e privilegiato ruolo del colpevole per sfuggire alla soffocante banalità
della provincia e sognare "de
vedette, de crimes, et de portraits en première page. Les têtes travaillent. Et on se voudrait
coupable... Et comme il importe que le monde entier le sache, on se précipite
chez le commissaire de police et on se constitue prisonnier" (93), lo
scandalo diventando l'unica via per l'originalità. Per
l'espressione di questa generale nevrosi, la regia di Visconti, sempre
"limpida, coerente e ritmata" (94) diventa "esasperata
frenesia" (95).
Si ripete quindi anche nella Machine
à écrire la critica alla borghesia dei Parenti terribili, forse più
sottilmente sviluppata perchè non situata nella trama e in fondo nemmeno nella
feroce invettiva finale di Solange, ma è insita nei personaggi che non riescono
a divincolarsi, staccarsi realmente dai condizionamenti borghesi, diventati una
inconscia ed inquietante forma mentis.
Cocteau dichiara infatti di aver voluto dipingere
"la terrible province féodale d'avant la débâcle, province dont les vices
et l'hypocrisie poussent les uns à se défendre mal et les autres (la jeunesse romanesque) à devenir
mythomanes" (96). E la dipendenza "feudale" che Cocteau
vuole sottolineare è proprio l'impossibilità culturale di trovare reali
alternative, una dipendenza psicologica inconsapevole. L'altra denuncia, tutta
esterna, espressa a chiare lettere nel testo e per cui la provincia è "il
mondo della feroce ipocrisia, il regno dello spietato farisaismo, il dominio
delle false virtù che coprono i vizi più gretti e calcolati, la sentina di una
segreta corruzione ammantata di rispettabilità" (97), insomma il paradiso
della borghesia, è molto facile, in fondo lo è troppo, e serve all'autore più
che altro da pretesto narrativo per motivare i comportamenti dei personaggi,
ciò che permette alla critica di accusarlo di essere un "finto
rivoluzionario" (98). Questo non impedisce comunque al testo di avere una
sua potenza provocatoria esplicita tanto da scandalizzare parte del pubblico e
da provocarne, durante la prima, il dissenso, e riscuotere un successo soltanto
parziale. La sincerità delle affermazioni antiborghesi è indubbia in Visconti
che ha calato l'azione (le scene sono da lui stesso disegnate) in un interno
infernale e claustrofobico che sembra anticipare per certi elementi la
successiva messinscena di A porte chiuse, pur richiamandone altri da I
parenti terribili: "oscure e confuse stanze di soggiorno: rosso e
celeste. Lampadari velati, un arredamento strascicato e sensuale, in stile, a
tinte di fiamma e di cobalto. Chiusi e murati dall'esterno vi si divincolano e
vi si macerano alcuni personaggi casuali di un'assopita e difforme cittadina
della provincia francese. Basta lacerare tendaggi e alcove, la cenere del
silenzio, per giungere ad un fuoco distruttore" (99). La messa a nudo del
passato scabroso, del segreto nascosto gelosamente in seno alle famiglie, delle
turpitudini mai ammesse non può non
piacere a Visconti che condivide gli intenti della "macchina da
scrivere" e lavora nella stessa direzione. Anche Solange ha una finalità
dinamitarda che cerca di rompere le apparenze per mostrare la verità creando
salutare scompliglio con le denunce; ma nell'agire mantiene l'anonimato, con
gratuita viltà terroristica, motivata dall'unica sete di vendetta che si
traduce in una serie di omicidi indiretti,
finendo con il lasciare sostanzialmente inalterate le cose: "j'en
voulais à toute la ville: A tous ces faux bonheurs, à toutes cesfausses piétés,
à tuos ces faux luxes, à toute cette bourgeoisie hypocrite, égoïste, avare,
inattaquable . J'ai voulu remouer cette boue, attaquer,
démasquer, C'était un vertige! Sans me rendre compte, j'ai choisi l'arme la
plus sale, la plus crapuleuse: la machine à écrire" (100). Questo
la pone su di un piano di certa ma incompleta lucidità, che compromette il
risultato effettivo del suo intervento.
Accenni di metateatralità si
ritrovano simili nei due testi di Cocteau messi in scena da Visconti, dove
hanno la funzione di esplicitare con ironica efficacia aspetti della psicologia
dei personaggi: Leo dei Parenti terribili si rivela essere regista
ed ottima attrice, ciò che denuncia la
sua effettiva posizione (e l'ambiguità di questa) all'interno dell'azione. Leo e Solange sono personaggi impuri la
cui razionalità è pericolosamente incrinata da residui passionali romantici, da
atteggiamenti stereotipati che finiscono col determinare il loro comportamento
(101).
Infine, nei due testi si
ripropone uguale l'ambientazione familiare, con una esasperazione dei rapporti
che è una costante viscontiana, assieme alla presenza di amori ossessivi dalla
parvenza incestuosa:
i film che ho fatto raccontano spesso la storia di
una famiglia, l'autodistruzione e il dissolvimento di quella famiglia. Racconto
queste storie come se raccontassi un requiem
perchè sento più giusto e congeniale narrare delle tragedie: nei miei film, i
rapporti toccano il massimo grado di esasperazione possibile. I personaggi, per
scelta propria o perchè costretti dalle circostanze, finiscono per trovarsi
faccia a faccia con se stessi [...]. Essi sono soli. Senza speranza di poter
cambiare in qualche modo la loro condizione. E spesso senza neppure il
desiderio, la volontà di farlo.
(102)
L'esasperazione dei rapporti porta ad una crisi che mette in luce la verità
e la necessità del cambiamento. Il ricorso alla famiglia ha solo intenti
spettacolari e drammatizzanti perchè fornisce l'ambiente adatto ed
immediatamente comprensibile, per lo sviluppo del discorso viscontiano che non
contiene assolutamente nessuna critica all'istituzione familiare:
io parlo di tradimenti, è vero: parlo di nuclei
malati e di lotte tribali. Ma nella speranza che queste cose non succedano più,
che il simbolo della famiglia si rivaluti.
(103)
Il suo amore per la famiglia è in fondo confermato dalla ossessiva
attenzione che vi rivolge. Essa è l'ambiente ideale per i suoi racconti perchè
è il primo momento di potente condizionamento dell'individuo, il primo limite
alla sua libertà, un capitolo formativo vitale ed anche la base della struttura
sociale: è l'essenza del discorso viscontiano che è contenuta nell'ambientazione
familiare. La famiglia ha avuto per Visconti un'importanza notevole, sia per la
forza dei legami affettivi, sia perchè l'educazione ricevuta ha impresso su di lui tracce definitive che hanno contribuito
a determinare positivamente il suo carattere
e la sua personalità, e di cui egli è assolutamente consapevole:
le mie storie sono queste, storie di gruppi
familiari che stanno andando alla rovina. [...] Io amo raccontare delle
tragedie, è vero. Amo raccontare di quando i rapporti si esasperano a un punto
tale che non possono preludere a nulla di diverso. E però i ricordi personali
non c'entrano, le influenze del passato non c'entrano. [...] La mia fu una
famiglia talmente straordinaria. Eravamo e siamo tutti talmente legati,
talmente uniti. [...] Erano giornate dure [quelle della sua infanzia e della
sua educazione], certo. [...] E però ci hanno allenato a crescere vivi, non dei
cialtroni aristocratici. [...] Io l'ho imparato lì ad essere rigoroso. Con me
stesso e con gli altri.
(104)
E' l'emblematicità dell'ambientazione familiare che lo interessa, le
possibilità drammatiche e tragiche che essa gli offre. Perchè Visconti è sempre
interessato ai momenti in cui le tensioni esplodono e si rendono visibili le
cause della deflagrazione.
A me interessano sempre le situazioni estreme, i
momenti in cui una tensione abnorme rivela la verità degli esseri umani,
(105)
una verità psicologica e storica, che cancella con violenza tutte le
illusioni passate. Per questo le sue storie si situano tutte al crepuscolo,
quando una forma passata sta concludendosi per dar vita ad una nuova,
trasformarsi in un'altra diversa ma la cui natura è già scritta in quella
vecchia. Sono i momenti di transizione dell'evoluzione, del trapasso, in cui
per l'ultima volta brillano i motivi della morte, che Visconti vuole registrare
per capirli, per chiarire; momenti di passaggio sia individuali che
sociali, momenti questi intersecantesi
fra loro, riflessi emblematicamente l'uno nell'altro. Situazioni di crisi per
eccellenza, in cui tutto è più comprensibile ed estremamente drammatico tanto
da diventare dell'ottimo materiale spettacolare, secondo una concezione di
spettacolo che intende penetrare con efficacia le più intime ragioni dei
personaggi, spiegarle con lucidità ed onestà:
quello che mi interessa è proprio questo:
raccontare dei nuclei sociali che si disgregano, e che, per qualche motivo, si
trasformano e spariscono.
(106)
IL DITTICO ESISTENZIALISTA.
Subito dopo la seconda
messinscena da Cocteau, Visconti decide di rappresentare insieme due atti unici
facendoli interpretare dagli stessi attori, la Compagnia Morelli-Stoppa. Per
questo dittico, Visconti si rivolge una volta ancora alla Francia, a Jean Anouilh
e Jean-Paul Sartre. Antigone e A porte chiuse vanno in scena
all'Eliseo per la prima volta il 18 ottobre 1945, insieme, anche se non molto
sembra in apparenza riunire i due testi.
Anouilh trapianta la tragedia
greca in un moderno elegante interno borghese dove si agitano personaggi che
Visconti ha voluto freddi, a cui ha imposto una recitazione molto distaccata ed
una eleganza tutta esteriore negli atteggiamenti, l'intera rappresentazione
avendo l'aspetto di una recita esibita, della prova di uno spettacolo: gli
attori, terminate le proprie battute, si siedono in disparte, su panche poste
ai lati della scena. "La tragedia,
limpida e lineare, è tenuta su un tono squisitamente distaccato e
letterario. La regia di Luchino Visconti, riducendo lo spettacolo sul piano di
una lettura, [...] ha accentuato questo lato letterario svuotando di
suggestione teatrale la rappresentazione. La recitazione volutamente fredda e
monotonale ha completato il senso di agghiacciante distacco" (107). Vi è
quindi un forte effetto di straniamento che si interpone tra la tragedia e lo
spettatore impedendogli di essere
coinvolto. La Morelli (Antigone) esibisce "una recitazione volutamente
atonale ed agghiacciante" (108) che sottolinea l'aspetto di finzione il
cui risultato è un allontanamento della tragedia che diventa solo il soggetto
di una recita borghese (cui fanno riferimento anche battute metateatrali del
testo), la messa in scena a casa di una tragedia antica. La recitazione di Huis
clos è invece totalmente coinvolgente, tesa, ambientata in un opprimente
interno infernale, un'atmosfera soffocante e claustrofobica che si scontra con
l'ariosa scenografia del primo atto. Nella pièce
di Sartre gli attori sono perfettamente inseriti nelle loro parti, "la
Morelli ha trovato alcuni tra i suoi più belli accenti vibrati, tutta contratta
[...] nella diabolica perfidia dell'invertita. Vivi Gioi [...] è palpitante,
piena di calore, convincente. Lo Stoppa ha reso il tormentato rovello del
disertore con intensa e sincera sofferenza" (109). Un tipo di recitazione
concitata e violenta, variata ma assolutamente realistica, dettata dal testo e
contrastante con la continua freddezza dell'atto unico precedente: essa ha
l'effetto di trasportare in pieno nel dramma di cui rafforza il lato tragico e
lacerante, compensando in abbondanza la carenza emotiva di Antigone.
Huis clos, presenta
una situazione statica di eterna impasse
in cui i personaggi continueranno a lacerarsi instancabilmente, come indica la
ciclicità del testo; la protagonista di Anouilh consuma invece rapidamente la
sua aspirazione tragica sino all'esito fatale, alle morti a ripetizione
innescate dalla sua, che decimano la famiglia di Creonte e con le quali la pièce si placa e si conclude. Una
impressionante sequela di morti che sono lo spropositato e imprevisto esito del
gesto della ragazza, un gesto di cui tutto il testo mette il luce la gratuità e
l'inutilità ma voluto dalla figlia dell'orgoglio di Edipo con imperterrita
ostinazione. Anouilh fa di Creonte, il re tiranno, un personaggio certamente
banale e mediocre, ma le cui ragioni "non appaiono nient'affatto più
deboli di quelle d'Antigone" (110). Anzi, di fronte a lui, Antigone arriva
quasi a capitolare ed abbandonare i suoi intenti suicidi per rassegnarsi al
conformismo e alla vita, anche se alla fine i suoi impulsi iniziali riemergono
e fanno precipitare la conclusione. Creonte diventa il polo di razionale
lucidità del testo a cui si oppone l'immotivato e bizzoso comportamento della
ragazza che in più occasioni afferma di non voler assolutamnetne capire:
"je ne veux pas comprendre. C'est bon pour vous. Moi je
suis là pour autre chose que pour comprendre. Je suis là pour vous
dire <<non>> et pour mourir" (111), compiere il ruolo scritto;
nel confronto con lo zio, Antigone appare come una bambina che vuole
ostinatamente i suoi pochi minuti di gloria come si può volere un giocattolo
inutile (ancora, forse, un illuso "enfant terrible" alla Cocteau).
D'Amico rileva infatti che vi sono "momenti in cui la sublime tenacia,
interpretata con violenza stupendamente aggressiva da Rina Morelli, pare quasi
stizzita cocciutaggine, puntiglio a vuoto e disumano" (112). E tutto porta
ad alimentare nello spettatore un forte scetticismo nei confronti di Antigone,
impegnata a recitare un ruolo più che viverlo e sentirlo veramente. La stessa
attualizzazione del testo vanifica le possibilità di giustificarla in base a
ragioni politiche o religiose facenti parte della giurisdizione della pòlis; Antigone è "del nostro
tempo, senza vera fede religiosa, che non crede affatto all'efficacia
spirituale della sepoltura di una salma [...] e non crede neppure a una vita al
di là" (113). Il suo sacrificio sembra uno sproposito, l'incomprensibile
risposta ad affetti mai dimostrati ed addirittura incerti, venati forse
d'incesto. Il vero senso della scelta di Antigone, le sue motivazioni si sono
esaurite col passare dei secoli. Il tempo ha spolpato la tragedia della sua
essenza, lasciandone solo il palinsesto, la struttura generale in cui i
personaggi cessano di inserirsi coerentemente, diventati solo ruoli in una
recita. Il gesto di Antigone non trova nessuna giustificazione, sembra solo il
pretesto per un'adolescenziale e romantica voglia di tragedia, una ferrea
volontà di assoluto (114).
Antigone è il personaggio
tipicamente viscontiano, privo di lucidità, che soccombe nel vano tentativo di
esaudire le proprie illusioni, senza rendersi veramente conto, se non alla
fine, in quel mozzicone di messaggio dettato alla guardia, di aver sbagliato:
al confronto con la squallida concretezza della guardia, la realtà della
tragedia scende nella finzione ("je ne sais plus pourquoi je meurs. J'ai
peur..." [115]). Creonte è invece il personaggio lucido, coerente e
razionale, ma anche il crudele carnefice dei suoi affetti, vittima anch'egli
del suo ruolo, di un lavoro che deve, comunque, nel migliore dei modi, esser
svolto: Creonte è la mediocrità della vita, in opposizione all'eroicità della
morte corteggiata e scelta da Antigone. Eppure una solitudine simile li
riunisce (e quella di Creonte, a causa di Antigone, alla fine della tragedia
sarà completa), la dedizione al rispettivo ruolo fa di entranbi delle vittime,
sebbene la consapevolezza caratterizzi Creonte che "joue au jeu difficile
de conduire les hommes. [...] Il a laissé ses livres,
ses objets, il a retroussé ses manches", svolgendo ogni giorno il suo
dovere di re, "comme un ouvrier" (116).
La
lettura 'viscontiana', che forse è la più probabile e che la stessa regia
sembra avallare, è contraddetta da molte altre che fanno di Antigone un'eroina,
e rendono difficile giudicarla, approvare o meno la sua condotta leggendovi
santo eroismo o narcisistica stupidità; è in fondo la stessa costruzione della pièce a darle "le bon rôle"
lasciando a Creonte quello brutto di carnefice. Il punto di vista personale di Antigone, la sua ottica romantica
le fa vedere in Creonte la medietà e la viltà del compromesso, la penosa
ricerca della felicità, la vita ad ogni costo contro il suo sacrificio
emblematico, ugualmente crudele.
Continuando in questa direzione, Antigone può diventare il simbolo della
libera volontà che l'individuo oppone all'arbitrio della legge e dell'ordine in
cui non si riconosce, una volontà che si afferma indipendente, sopra e contro
ogni imposizione: è la lettura antitotalitaria del testo (che nellla pièce
è sostenuta, senza vera convinzione da Ismene, mentre Antigone dice
chiaramente di non voler ragioni, di non averne bisogno), che molti hanno
spiegato col fatto che fu scritto durante l'occupazione nazista in Francia. Ma
la giustificazione ribellistica di
Antigone è inficiata dalla stessa dipendenza da pregiudizi romantici che
vogliono il ribelle, l'oppositore, eroe ad ogni costo, e stona nel confronto
con gli effetti devastanti che la sua morte comporta, la valanga di sangue
sprecato che trascina con se. Il suo gesto, in fine, non cambia niente. E' una
ribellione sterile, l'espressione di un egocentrismo protagonistico che afferma
mancanza di lucidità, in cui la vendetta privata venata di sadomasochismo
cancella ogni valenza rivoluzionaria tanto che Antigone finisce col
rassomigliare alla Solange della Macchina da scrivere (117). In conclusione il coro commenta l'azione passata, osservando che "tous
ceux qui avaient à mourir sont morts. Ceux qui croyaient une chose, et puis
ceux qui croyaient le contraire -même ceux qui ne croyaient rien et qui se sont trouvés pris dans
l'histoire sans y rien comprendre. Morts pareils, tous, bien raides, biens
inutiles, bien pourris. [...] Antigone est calmée maintenant, nous ne sauront
jamais de quelle fièvre" (118). Il sacrificio insensato della
ragazza afferma comunque l'autonomia dalla coscienza individuale che si impone
scavalcando i pregiudizi degli 'altri', ciò che finisce col collegare Anouilh a
Sartre.
Ma quel che forse veramente
riunisce i due testi, è l'impossibilità di prendere posizione pro o contro i
suoi personaggi, l'affermazione della necessità di non farlo. In Huis clos,
"l'infanticida", "il disertore", "l'invertita"
sono personaggi negativi e condannabili, già dannati, vissuti e morti nella
glorificazione del loro abietto egoismo. Anche all'inferno essi cercano di
nascondersi gli uni agli altri, di mostrarsi migliori con ridicole controfigure
con cui tentano di imbastire verità più clementi prima che il loro delitto
venga alla luce. Essi, "ancora intrisi di sensualità e passione"
(119), trascinano lo spettatore in mezzo ai loro scontri, nella lotta per il
controllo del tormento sugli altri, ma impedendogli di scegliere un campo,
senza possibilità di identificazione: nell'irreltà di Antigone o
nell'iperrealismo violento di Huis clos, lo spettatore è costretto a
sostare sulla soglia della scena da dove guarda svolgersi l'azione. Ed è
appunto qui che emerge la tesi
sartriana sulla impossibilità di dare un giudizio, l'esigenza di superare il
pregiudizio moralistico. "Ognuno ha le sue ragioni", diceva Renoir,
ogni personaggio, ognuno di noi, ragioni che motivano il proprio comportamento,
che non lo giustificano assolutamente ma cha devono esser note per capire
veramente. A porte chiuse permette una visione post mortem delle scelte fatte e delle conseguenti azioni, ormai
tutte concluse e rese inalterabili dalla morte stessa. I personaggi sono
costretti a contemplare l'esaurirsi del proprio ricordo in terra e soffrire per
l'invariabilità dei propri passati errori: anche Antigone farebbe parte di
questa schiera dannata e vedrebbe chiaramente la fallace gratuità del suo
gesto, capirebbe e ne soffrirebbe, senza poter più correggerlo. Forse la
disposizione degli attori in Antigone accenna ad un'atmosfera vagamente
processuale, che, calata nell'apparenza generale di 'prova', di finzione,
diventa l'esame dell'attendibilità della recitazione della ragazza che
interpreta Antigone, la sua non convincente adesione al personaggio. In Huis
clos i personaggi sono posti tutti sullo stesso piano, senza gerarchie
possibili, nella medesima condizione di indubbio colpevole il cui delitto si
riflette nello sguardo, negli occhi degli altri (il tema della vista è,
appunto, ricorrente nel testo), tutti infine consapevoli della propria e delle
altrui colpe, vicendevoli carnefici proprio sulla scorta di questa lucidità.
"L'enfer, c'est les Autres" (120), nel loro bisogno di giudicare, di
semplificare, di emettere un'arbitraria condanna od assoluzione. A questa
scoperta giungono i tre protagonisti. Essi sono indissolubilmente legati dalla
necessità di riabilitare la propria immagine negli altri, di convincerli della
propria innocenza per vedersi finalmente assolti e sentirsi tali: sino a quel
momento la fuga è impossibile, sebbene il tormento che si infliggono sia
proprio la continua incessante conferma della rispettiva colpevolezza. Inés è
sin dall'inizio dei tre il personaggio più lucido, meno ipocritamente legato
all'apparenza ("on ne damne jamais les gens pour rien" [121]) e che
intuisce presto che "le bourreau c'est chacun de nous pour les deux
autres" (122). Questa superiorità si traduce in violenza aggressiva verso
i coinquilini di quell'inferno "second Empire", in cattiveria palese.
La donna, con compiaciuto sadismo, osserva: "je ne
suis rien que le regard qui te voit, que cette pensée qui te pense. [...] Je
vous vois, je vous vois; à moi seule je suis une foule" (123), l'intera
umanità unita per accusarli e condannarli spietatamente. Gli
altri, tutti gli altri sono l'inferno: perchè il loro sguardo accusatore è
un'insostenibile tortura; perchè ogni giudizio formulato è un ingiusto freno
imposto alla libertà individuale; perchè l'altrui condanna è la definizione
della linea di confine dell'accettabilità, è l'inferno. Solo negli altri però è
possibile specchiarsi poichè solo essi restituiscono la propria vera immagine,
quella ufficialmente, socialmente riconosciuta, ma non più controllabile. "Mon image dans les glaces était apprivoisée. Je la connaissais si
bien... Je vais sourire: mon sourire ira au fond de vos prunelles et Dieu sait
ce qu'il va devenir" (124): sono parole di Estelle, il personaggio più
debole e legato ad una esteriore coscienza e consapevolezza di se. La
propria personale immagine non può che soccombere, annullata dall'altra, più
forte e grande: quella non è rintracciabile che astraendosi dagli altri per
avvalersi soltanto dell'unico metro di giudizio individuale, della propria
coscienza. Ma ciò non esclude che si possa rimanere vittima delle proprie
illusioni, come Garcin lo è del suo sogno eroico, vigliaccamente terminato
dalla fuga e dalla diserzione. Non è possibile nessun postumo processo alle
intenzioni poichè l'atto, che dovrebbe completarle e concretizzarle, si impone
sopra di esse. E' possibile soltanto un processo alle azioni, agli atti,
"ma peut-on jouger une vie sur un seul acte?" (125). Garcin afferma
che ognuno è ciò che vuole, ma sostiene anche di non aver avuto tempo
sufficiente per diventarlo realmente, per realizzarsi concretamente. Eppure, "seuls les actes décident de ce qu'on a voulu. [...] On meurt
toujours trop tôt -ou trop tard. Et cependant la vie est là, terminée: le trait
est tiré, il faut faire la somme. Tu n'es rien d'autre que ta vie" (126). Garcin ha sognato un'immagine
di se che non è diventata realtà, che è rimasta solo illusione. La sua immagine
definitiva è un'altra.
Se, come dice Sartre in L'esistenzialismo
è un umanesimo, "l'uomo è un progetto che vive se stesso
soggettivamente" (127), che si crea giorno per giorno in conformità ad
un'idea alla quale, con una successione di scelte, egli tende ad avvicinarsi,
allora il giudizio altrui è solo un limite alla propria libertà che è invece
assoluta ed inalienabile. Questa non può avere come punti di riferimento che il
"progetto" e la propria coscienza, l'intelligenza. Non essendoci una
provvidenza nè un Dio garante, l'uomo è assolutamente libero di agire,
provvisto di una libertà totale con la quale realizzarsi, pericolosa, frenata e
limitata soltanto dalla propria intelligenza, dalla consapevolezza delle
proprie azioni. Pertanto non esiste fatalità, non esiste altro destino che
quello creato dall'uomo nella continuità delle sue scelte. Il fato in Antigone
ha sembianze umane, è Antigone stessa che decide di morire contro ogni logica,
contro tutto. Il suo destino forse è scritto nel suo ruolo, nel personaggio che
la ragazza borghese si trova ad interpretare, un ruolo tanto più grande di lei
e che non capisce del tutto, che recita senza vera convinzione, senza
sentimento, con cieca fedeltà, pur illudendosi di esser totalmente libera. Ma
il ruolo può esser cambiato, la tragedia può diventare dramma, aprirsi alle
possibilità della vita, non è più ineluttabile; Creonte vorrebbe farla deviare,
volgere al dramma, ma Antigone sceglie la tragedia, opera una definitiva scelta
drammaturgica che, affermando la sua indipendenza e 'libertà', nello stesso
momento incanala il suo destino entro limiti noti. La tragedia era sul punto di
vacillare, perdere limpidezza ed intorbidirsi con i dubbi, i compromessi,
l'apertura all'alea della vita e del dramma, ma alla fine Antigone si rifugia
con voluttà nella morte. Attraverso Sartre ed Anouilh si svela un'altra
importante zona d'influenza della Francia in Visconti, l'esistenzialismo, di
matrice soprattutto sartriana, inteso essenzialmente come filosofia razionale
ed umanistica, protesa all'azione. L'uomo tende a realizzare un'idea di se, a
realizzarsi in conformità a quest'idea attraverso la quotidiana sequenza di
scelte che informano la sua vita. Ma ovviamente, per procedere in avanti, verso
il futuro nel quale si situa il completamento del suo progetto, l'uomo deve
agire nel presente, dove avvengono tutte le scelte, tutte le correzioni della
sua rotta verso quella meta; queste non possono essere giuste ed adeguate se
l'uomo non ha piena coscienza di se, della sua esatta posizione e
dell'interferenza dell'ambiente esterno. Allora, egli deve guardare e capire
profondamente ogni influsso, ogni condizionamento dal quale rischia di essere
inconsapevolmente deviato: egli deve procedere avanti, ma con lo sguardo
rivolto al passato, prossimo o più remoto, cercandovi tutte le limitazioni,
capendolo completamente. Ed è ciò che fa Visconti, quel che fa fare ai suoi
personaggi, quel che ha fatto in Francia negli anni trenta. La presa di
coscienza della realtà è preliminare ad ogni azione perchè la consapevolezza è
la condizione della libertà che può così raggiungere il massimo grado
possibile. E' anche evidente l'influenza che l'esistenzialismo ha finito per
avere sulla costruzione degli spettacoli in Visconti, come sia alla base di
tutto il suo discorso registico: anche gli spettacoli viscontiani nascono tutti
come successione di scelte registiche tendenti ad esprimere e progressivamente
illuminare il contenuto effettivo della regia, la sua idea portante, nella
peculiare individualità del testo e dello spettacolo che risponde solo ad
esigenze di coerenza interne, in base ad una totale libertà del regista,
rivendicata più di una volta molto chiaramente nei confronti della critica, di
esprimersi con completa e fiera estraneità ad ogni moda o formula
precostituita.
La libertà ha infatti una
basilare importanza nel lavoro di Visconti: libertà d'azione dei personaggi,
capiti però nel loro contesto storico e psicologico; libertà dello spettatore,
non indirizzato verso una conclusione, ma a cui il regista presenta una serie
di situazioni emblematiche e dense di significati che permettono di capire il
mondo del personaggio; libertà infine del regista, che si muove con
disinvoltura in tutti i campi della cultura per evidenziare efficacemente, anche
attraverso forzature vagamente espressionistiche, il suo discorso,
contraddicendo ogni inutile e fuorviante luogo comune. Perché è proprio nei
luoghi comuni, nelle abitudini incallite e sedimentate, nei comportamenti
automatici che il condizionamento si fa più forte ed inconsapevole, limite
pericoloso ed inaccettabile alla libertà individuale. Ed il discorso registico
viscontiano, legato alla centralità di un'idea razionalmente espressa, si
rivela così essere basato sull'intelligenza, di cui segue il risveglio nei
personaggi, riflettendola per loro tramite nello spettatore. L'intelligenza è
l'unica vera garanzia di libertà, la condizione necessaria all'attuazione del
progetto sartriano, di cui definisce anche i confini, i limiti che la coscienza
individuale, non quella degli "altri", si sceglie: l'intelligenza
come sinonimo di libertà e questa stessa di vita, secondo l'assioma di Cinema
antropomorfico. Il senso complessivo del lavoro di Visconti è quindi nella
messa in evidenza della totale libertà di ogni uomo, che deve rivendicarla come
condizione sine qua non della sua
esistenza, ma che spesso è da conquistarsi a caro prezzo: l'intento
viscontiano è anche nella dimostrazione
della responsabilità dell'indipendenza dell'uomo. Se nelle parole di Tullio Hermil
ne L'innocente è possibile riconoscere parte della visione sartriana e
viscontiana dell'esistenza, vi è anche nel personaggio la pretesa di porsi al
di fuori dei limiti umani e sociali per identificarsi con una sorta di
superuomo cui tutto è lecito (così come Antigone è una 'superdonna') che non
riconosce, fallando, neanche i limiti della razionalità, gli invalicabili
confini dell'intelligenza, ricadendo in pieno nella tipologia dell'illuso
viscontiano. Egli non capisce che intelligenza non vuol dir solo consapevolezza
delle limitazioni esterne (che significa libertà), ma anche coscienza dei
propri limiti, ch'egli, molto dannunzianamente, non riconosce (128).
L'intento complessivo di
Visconti è di stabilire uno stretto dialogo col pubblico, ma non in quanto
massa, bensì insieme di singoli spettatori perchè non c'è intelligenza nella
massa. Allo spettatore lo speculum vitae
degli spettacoli viscontiani deve portare ad un'accresciuta consapevolezza che
la massa non può, nel suo complesso, avere: è un dialogo tra due individui, il
regista, il cui spettacolo, fedele riproduzione di un'idea, diventa tramite del
messaggio, e lo spettatore, che questo messaggio deve recepire per applicarlo
nella sua vita per conquistarsi indipendentemente la piena libertà per mezzo
della personale consapevolezza del proprio mondo, attraverso la propria
intelligenza. La massa è un vero e proprio pericolo, è l'inferno, è "gli
altri", l'insieme dei loro sguardi indagatori ed accusatori, dei loro
ragionamenti estranei ad una vera conoscenza, incapaci di una reale coscienza.
La condanna di Visconti al nazismo è categorica, anche indipendentemente da
precise scelte politiche, perché è l'esaltazione della massa anonima, priva di
senno; più profondamente, il nazismo è la completa contraddizione della
concezione viscontiana dell'uomo, la negazione dell'intelligenza in cui
Visconti crede e per cui lavora. Dice Aschenbach ne La caduta degli dei,
condensando il credo nazista: "chi vuol esser padrone [...] di se stesso
ed è tanto illuso di credere di poter prendere da solo una decisione, di
pensare con la propria testa, quello no, [non è un amico fidato del
nazismo]" (129). Non può quindi esservi da parte di Visconti che una
razionale condanna di un movimento che presuppone l'inaccettabile emarginazione
della libertà e dello spirito critico, l'abdicazione dell'intelligenza. Il
nazismo, come ogni altra forma di totalitarismo, necessita di un uomo stupido,
in opposizione all'uomo viscontiano: il tramonto dell'intelligenza che esige si
traduce allora ovviamente nella deflagrazione della perversione poiché non vi è
più nessun freno razionale. Gli individui diventano accecate bestie umane e
sono necessariamente ridotti
all'essenza dei loro istinti ciò che permette l'irrompere dell'egoismo allo
stato puro come degenerazione incontrollabile dell'individualismo: il
nazional-socialismo è la premessa alla fine del mondo, come indica il titolo
apocalittico del film, alla regressione dell'umanità.
Al contrario, il marxismo è
da Visconti inteso come filosofia della razionalità, scelta dopo l'esperienza
francese e l'influenza pratica di Renoir, in seguito anche alla vicinanza con l'ambiente di "Cinema". Il
marxismo è la ricerca dell'affermazione di condizioni di vita più giuste e
democratiche, più ragionevolmente eque; è anche l'affermazione dell'uguaglianza
di tutti gli uomini che si conquistano la dignità attraverso un lavoro in cui
si rilette la loro intelligenza e libertà. La prospettiva marxista è anche
l'inevitabile logica evoluzione della decadenza del capitalismo e della sua
proteiforme adattabilità, dettata dagli interessi economici, che ne fa il
prodromo al nazismo, come il film mostra. Questo forse avvicina il patriarca
dei von Essenbeck a Creonte, essendo Antigone in fin dei conti una pièce borghese; nel giudizio
sull'eroina, ciò farebbe pendere la bilancia in suo favore, ma in realtà, non
fa che confermare l'impossibilità di giudizio sostenuta da Visconti. Questi
opta sempre per una razionale oggettività nei riguardi dei suoi personaggi dei
quali non vuole giudicare le scelte di cui desidera solo verificare e mostrare
l'adeguatezza rispetto al tempo e al luogo nel quale si inseriscono, rilevare
il loro rapporto con la realtà, guardarle insomma nel modo più onesto possibile. Quest'oggettività, che si
astiene dal giudicare moralmente i suoi personaggi per darne solo un giudizio
intellettuale, stride vistosamente in La caduta degli dei, tanta è
l'avversione per il contenuto ed i personaggi, e finisce col fare del film
un'opera dissonante e formalmente sgradevole, antipatica, nevrotica, veramente
ad immagine di quei personaggi.
Narratore di psicologie
individuali, di approfonditi ritratti psicologici, Visconti crea sempre una
serie di rimandi che collegano l'individio alla sua società, non perde mai di
vista l'orizzonte sociale nel quale si inscrivono (e parzialmente si spiegano)
i singoli comportamenti:
la chiave di volta degli stati d'animo, delle
psicologie e dei conflitti, è [...] per me perfettamente sociale, anche se le
conclusioni a cui giungo sono soltanto umane e riguardano concretamente gli
individui singoli. Il lievito, però, il sangue che scorre nella storia è
intriso di passione civile, di problematica sociale".
(130)
I suoi personaggi sono metafore della società e il piano individuale
riflette eloquentemente quello sociale: Visconti sceglie, per non essere
generico, di essere specifico in quanto le storie individuali sono molto più
comprensibili e significative, quindi spettacolarmente efficaci. Ma anche
perchè la consapevolezza del singolo è la necessaria condizione alla
consapevolezza della società.
IL BALLETTO MECCANICO.
"Spettacolo
d'oggi", Adamo è un testo che ha la sua ragion d'essere
sostanzialmente nel tema che affronta: l'omosessualità (già presente in Huis
clos), inserita in una pièce
seria che non la mette in berlina.
L'omosessualità esiste: non dobbiamo tapparci gli
occhi e fingere di non accorgersene. Dilaga sui giornali [...], esiste come
argomento letterario, ne hanno scritto Gide Proust Zweig Mann e altri [...] e
ne sono state fatte commedie.
(131)
Visconti esprime così ancora una volta l'esigenza di sbarazzarsi delle
ipocrisie moralistiche per affrontare di petto tutti gli aspetti, anche i più
sconvenienti, della realtà. Adamo è un testo che ha soltanto una
funzione strumentale, è un buon veicolo, un pretesto per affrontare temi
scottanti, scabrosi e Visconti stesso riconosce che per l'epoca si trattava di
una "commedia abbastanza ardita"; sebbene abbia il pregio di essere
"abile ben costruita e tutta teatrale" (132), di fornire cioè buon
materiale per uno spettacolo, comunque
"la commedia non è delle migliori". La polemica che la
rappresentazione suscita e la serie di rappresaglie censorie che ne ostacolano
il cammino, assieme alla protesta di parte del pubblico, indicano chiaramente
che l'intento di aggiornamento della morale e della cultura italiana intrapreso
da Visconti è lontano dall'essere concluso. La sua orgogliosa indipendenza
dalle limitazioni e dai pregiudizi si scontra con atteggiamenti reazionari del
governo e di parte della critica che dichiara il suo conformismo nel volere che
il teatro e lo spettacolo in genere siano solo stantii intrattenimenti rivolti
"ad una nazione sconfitta che vuole parole rigeneratrici" (133) e non
'veleno'. Il governo era infatti restio a denunciare in pubblico le deficienze
del paese, seppellendolo di fatto sotto un immondezzaio culturale che non
poteva, nel limitare la visione della realtà alla sua porzione più gustosa ed
appariscente, che ripristinare le condizioni censorie fasciste.
Non a caso Visconti sceglie
un testo che è ambientato nella medesima "terrible province féodale"
della Machine à écrire, mettendolo in scena con la stessa Compagnia.
L'aberrante provincia è egregiamente rappresentata dai due personaggi marginali
di Lancelot e Gianfrancesco nella cui quotidiana banalità irrompe la misteriosa
sconosciuta che trasporta di peso nel villino il suo dramma; una situazione che
riflette quella del pubblico, chiuso nel suo mediocre perbenismo ed
improvvisamente sbalzato in un mondo nuovo. Questi due personaggi sono gli
impotenti spettatori di un dramma in parte già avvenuto e che terminerà per
puro caso nella loro abitazione -che diventa lo sbagliato scenario
dell'azione-, per telefono, ancora una
volta 'altrove'. La loro casa è riprodotta sulla scena con "aggraziata
ironia" (134) che probabilmente ne esalta la mediocrità, stonando
vistosamente con i veri protagonisti della vicenda, soprattutto con Saxel, il
raffinato direttore d'orchestra, il quale entra in scena preceduto da Carlos,
l'autista, che ha solo la funzione di introdurre l'eleganza appariscente del
personaggio e sottolinearne l'estraneità nell'interno borghese.
Io ho scelto Adamo perchè è la commedia che
meglio si poteva prestare per certe esigenze sia del teatro sia della Compagnia
sia ancora del pubblico.
(135)
Nel testo non vi è nè esaltazione nè vera condanna dell'omosessualità
(anche se ve ne è forse un piccolo accenno nelle battute finali) che viene
semplicemente accettata come un dato di fatto da cui è impossibile prescindere:
Achard scioglie la situazione con abilità non scegliendo nè il partito
favorevole nè quello contrario ma facendo suicidarsi Max, l'amante conteso, ciò
che pone fine al dissidio senza risolverlo, evitando al personaggio ed al testo
una scelta imbarazzante. Max infatti non sceglie che la fuga la quale non
conclude nemmeno il dramma e lo trasforma all'improvviso in tragedia. Ma forse
il tragico epilogo è solo lo scontato finale di un mélo il quale compie però in pieno l'introduzione dell'omosessualità
nel repertorio delle trame tradizionali che si inseriscono sulla ripetizione
del triangolo amoroso dove, in questo caso, l'elemento innovativo è nel fatto
che l' "altro" è amante di "lui" e non di "lei".
La banalità dell'impianto è forse il vero segno di una trasgressione da parte
di Achard, il cui tentativo di normalizzazione dell'omosessualità passa
attraverso l'integrazione di questa in una trama ricorrente che la parifica ad
ogni altra variazione sul tema del tradimento amoroso. Adamo non propone
esplicitamente la riabilitazione di un argomento tabù perchè questa è già
inclusa e sottintesa nella sua banalizzazione entro i confini noti di una
situazione drammatica tanto scontata che Bontempelli (136) si lamenta di
trovarsi di fronte ad "una solitissima commedia sentimentale".
Ugo Saxel e Caterina si
contendono selvaggiamente Max con cui sono in contatto telefonico e che, sempre
fuori scena, è l' "invisibile protagonista" del dramma. Incapace di
decidersi tra i due amanti, Max sembra del tutto privo di personaità e di vita
autonoma, di una giusta definizione: diventa solo la proiezione dei desideri
dei due protagonisti in scena per lui duellanti. Max è in effetti incapace di
sopravvivere alla rottura di uno dei rapporti ed il suicidio non è che la
misura della sua viltà; "Max non esiste non già perchè non si vede [...]
ma perchè del suo spirito e diciamo pure della sua carne niente d'effettivo e
comunicativo ci vien dato" (137). Egli è solo l'altro capo del telefono,
un personaggio immaginario che si riflette nelle parole di Ugo e Caterina, come
già Cocteau avava fatto ne La voce umana. Il tragico finale è solo la
conseguenza della mancanza di decisione del personaggio che rende Max l'illuso
bambino di Cocteau, la viscontiana vittima di se (138). Egli è esattamente agli
antipodi di Saxel, personaggio che
Visconti vede "piuttosto ambiguo, difficile, pieno di sfaccettature"
(139) e sottigliezze, contraddittorio per calcolo che Gassman ha benissimo reso
dandogli, al contempo, artificialità e naturalezza. "Gassman nella parte
dell'invertito maestro ha ottenuto la perfezione, a cominciare dalla figura,
dal trucco, dal vestire, dal portamento, tipicissimi senza cadere nè nella
gretta copia realistica nè nella esagerazione caricaturale: ogni suo gesto,
movimento, inflessione" è trovato, "colorito al punto esatto"
(140). Saxel è l'elemento nuovo e disturbatore delle normali armonie,
dell'idillio tra Caterina e Max, della banalità dell'ambientazione
piccolo-borghese, del tipico svolgimento drammatico del mélo. Personaggio lucidissimo, perfetto padrone di se e del suo
aspetto, curato narcisisticanmente e con sapiente calcolo dell'effetto: egli è
dotato di una sarcastica misoginia che con coerenza smonta Caterina inserendola
nella generale perdita del precario romanticismo della donna contemporanea, che
diventa a suo avviso, "il superfluo della vita".
Caterina, personaggio
sostanzialmante sincero e ad una dimensione, è portata alla consapevolezza da
Saxel, nel progredire della pièce. Il
testo è infatti un avvicinamento riluttante alla verità che emerge solo alla
fine del II atto; il I atto è "tramato con illusoria abilità [...], si
tien tutto sopra un motivo esteticamente ingiustificato, l'amnesia della
vittima" (141), che è quasi la fine di un altro dramma (142), creando una
forte suspense drammaturgica essendo
terreno di tutte le potenzialità narrative, a cui fa seguito la progressiva
riacquisizione della memoria, quindi l'introduzione del mélo e la sua variante omosessuale. Caterina, scoperta ed infine
accettata la verità, rompe il suo rapporto con Max, trasformandosi, proprio nel
momento della piena consapevolezza e della sconfitta, da vittima di Ugo in
carnefice dell'amante. Il personaggio è interpretato dalla Adani con
"foga, con sì perduto abbandono, con disperazione così squassata e
convincente" (143) da farne quasi un personaggio di tragedia, umanissimo e
sofferente, distrutto e annichilito dal tradimento di Max. Tutto il dramma è
"posto in rilievo con ineccepibile buon gusto e costante e preciso senso
di un'ottima resa scenica", come è solito fare Visconti che su ogni
elemento dello spettacolo getta la sua "rete prestigiosa di colore e
sapore tra il divertito e l'angosciato" (144).
Sintesi di angoscia e
'divertimento' si ritrova nel primo classico che Visconti mette in scena, Il
matrimonio di Figaro. L'essersi rivolto ad un testo già noto non
contraddice le esigenze innovative di Visconti: il Matrimonio di
Beaumarchais era infatti stato messo all'indice durante il fascismo e la
lettura che Visconti ne dà, pur nella fedeltà al senso effettivo del testo, ne
fa emergere l'importanza storica. E' uno spettacolo rivelatore della tendenza
antiveristica viscontiana perchè il regista rifiuta la realistica resa del
testo, pur accolto integralmente, per farne un 'balletto', una forzatura che fa
storcere il naso a molti critici che si lamentano di non ritrovare nella
messinscena il testo amato . Come osserva Guerrieri, emerge qui chiaramente che
il criterio ideale di Visconti è lo spettacolo in se: "egli fu sempre a
suo agio col criterio parigino, londinese, newiorchese dello spettacolo volta
per volta, con un cast scelto
appositamente" (145) e con
collaboratori chiamati per l'occasione ad imprimere, in conformità alle
esigenze del regista, un personale tono allo spettacolo.
Nel Matrimonio,
Visconti lavora contro il testo raffreddandone la carica emotiva attraverso una
recitazione 'movimentata', saltellante, irrequieta e una generale aria di
balletto; il testo è musicato da Renzo Rossellini e l'insieme dello spettacolo
acquista una preziosa ed elegantissima artificiosità. Così, dall'accortissima
commedia emerge soprattutto l'aspetto lugubre che ne annulla la giocosità
esaltandola sino a renderla insensata, facendo apparire vuoti i gesti e gli
sforzi dei personaggi in scena. L'accavallarsi di colpi di scena, di
trabocchetti ed insidie, la sarabanda di trovate annega nell'enorme generale
aspetto di danza macabra che lo spettacolo assume e che si esplicita durante la
Carmagnola quando, da sotto innocue maschere, fanno capolino inquietanti
scheletri. Non serve allora più sapere chi si è dimostrato intelligente e
lucido, chi ha vinto la confusa gara al più furbo, chi è stato beffato o chi ha
tramato con successo poichè tutto si risolve in un esteriore e straniato
balletto. Le individuali prove d'intellligenza ed accortezza non discriminano
vinti da vincitori, tutti "atteggiati fantocci" (146) inconsapevoli
di esser giunti alla fine, al momento del trapasso, dell'immane trasformazione
che spazzerà implacabile la loro festosità; i tempi che li comprendono stanno
esaurendosi ma essi non se ne accorgono: sono tutti le indistinte vittime di
una globale inconsapevolezza rivelata dalle macabre maschere, "svelanti la
dissoluzione e la fragilità di un mondo ufficialmente sereno ed imbellettato,
recante in se i segni della propria condanna" (147). Visconti, rispondendo
a domande poste alla vigilia dello spettacolo, dice:
mi riprometto di sottolineare il singolare valore
polemico di quest'opera accentuando quei caratteri di satira sociale che in
essa fanno spicco. Sì che, nelle tinte caricate, nei costumi inverosimili, si
riveli all'improvviso il mostruoso ed il grottesco e si intravveda un chiaro
presagio del crollo di una società in disfacimento: l'aristocrazia.
(148)
E' un balletto che si acquieterà, un mondo che si spegnerà nel sangue della
Rivoluzione Francese. Un'altra 'danza macabra' conclude il Gattopardo:
molti degli invitati, tenendosi per mano formano un cordone umano che si muove
per le stanze vuote del palazzo, mentre si sfalda l'atmosfera festosa e la luce
delle candele ormai consumate si abbassa accrescendo il senso di lugubre
profezia del film, mentre il Principe di Salina in disparte sta a guardare: il
grottesco e la minaccia contenuti nella scena non sono lontani dal Matrimonio
e delineano un impietoso ma lucido ritratto di un'aristocrazia agonizzante. Per
don Fabrizio la comprensione della verità
si pone all'inizio del film e non viene più messa in discussione ma
subito interiorizzata, accettata come ineluttabile destino. A differenza di
tutte le altre pellicole viscontiane, questa non ricorre a scene madri, poichè
il protagonista è già al corrente di tutto, ed il film si consuma, in eleganti
volute, nella sofferta contemplazione della sicura morte, del tramonto del
principe e dell'avvento dell'ibrida nuova generazione. Il film è una continua
conferma di quella intuizione iniziale, presagio di morte che tinge di colori
funesti la solarità violenta del
paesaggio siciliano. Ma è anche questa un situazione di crisi, in cui il passato
è riletto in modo nuovo e definitivo, e che prelude ad un futuro intuito come
diverso, del quale il protagonista non farà parte.
Nel Matrimonio di Figaro,
i personaggi sono tutti vincolati al presente, troppo presi dalle loro vicende,
dalla "folle journée", troppo coinvolti nel guazzabuglio di intrighi
e sotterfugi, dalle schermaglie e scaramucce amorose, dalle acrobazie verbali
del succedersi di menzogne e di inganni, per accorgersi della minaccia che li
sovrasta: essi e i loro sforzi si dissolvono in esagitati movimenti,
prevalentemente circolari (perchè domina il motivo del cerchio e del ritorno al
punto di partenza, del movimento inutile), nell'angoscia meccanica accresciuta
e riflessa nei metaforici balletti di marionette che si interpongono all'azione
negli intervalli dello spettacolo.
Il Mariage de Figaro è
un testo comunque vicino a Visconti per i contenuti polemici intrisi di
rivendicazioni sociali, per la sensualità che maliziosamente affiora, per la
veridicità psicologica dei comportamenti perfettamente comprensibili e
giustificati (con anche una minaccia d'incesto presto debellata nel matrimonio
tra Figaro e Marcellina, che si scopre sua madre). Il Matrimonio ha una
struttura complessa e molto articolata, una specie di enorme ed intricato lazzo
reso credibile dall'abilità dell'autore che impone ai suoi personaggi
instancabile prontezza e raffinata accortezza, che si traduce sulla scena in
un'agilità fisica ed in una mobilità estenuante sopratutto per Figaro-De Sica
che viene fatto correre e saltare per
tutto il palcoscenico. Egli è tra tutti il personaggio più consapevole ed abile
ma comunque vincolato al presente della scena (nelle parole della madre, egli
non è "mai imbronciato, sempre di buon umore; pensa a godersi il presente
e non si cura dell'avvenire più che del passato" [149]): ciò che diventa,
nella situazione storica generale e nell'ottica viscontiana, un atto d'accusa.
Figaro è un servo che astutamente lavora per il suo interesse e non per quello
del padrone che, anzi, è suo rivale pretendendo
le grazie e i favori di Susanna; un personaggio pertanto 'rivoluzionario' ed
eversivo rispetto alla tradizone comica
che nel testo si riassume e si nega (150), con una sua indipendenza, la
capacità di gestirsi consapevolmente, di muoversi autonomamente, vedere gli
ostacoli e, con l'astuzia, superarli. Eppure, la sua bravura è soffocata dalla
stessa ipertrofia del testo, dall'accavallarsi di situazioni e di
capovolgimenti che lo rimettono continuamente in balia degli eventi.
Nel famoso monologo della
scena III dell'ultimo atto, Figaro capisce l'amarezza della disillusione per la
scoperta del (finto) tradimento della moglie; sono parole che nel contesto in
cui si inseriscono assumono valore emblematico di una più grande, inconsapevole
crisi d'identità (che prende anche risonanze esistenziali):
costretto a percorrere la strada su cui mi sono
messo senza saperlo, così come ne uscirò senza volerlo, l'ho cosparsa di tutti
i fiori che la mia gaiezza ha potuto darmi: dico anche la mia gaiezza, senza
sapere se appartiene a me più di tutto il resto, e senza nemmeno sapere cos'è
questo me di cui parlo: un insieme informe di parti sconosciute... Ho visto
tutto, ho fatto tutto, ho tentato tutto. Poi l'illusione s'è distrutta.
(151)
La delusione, motivata dalla supposta infedeltà della moglie, finisce
presto per Figaro, cancellando ironicamente i suoi dubbi. Questi, se guardati
con un'ottica meno privata, rimangono validi
e riguardano tutti i personaggi della pièce dei quali risaltano l'inconsapevolezza della propria identità
e del proprio futuro. Si ritrova così il tema viscontiano della lucidità che è,
in effetti, la ricerca della propria identità ed intima personalità, della
verità individuale. Una lucidità anche qui dolorosa, ma che il testo fa passare
in sordina e fa diventare divertente. Nel medesimo monologo, Figaro sostiene la
necessità della conquista della dignità tranite il lavoro, una tesi viscontiana
da sempre. Parlando del Conte:
perchè siete un gran signore, vi credete un gran
genio!... Nobiltà, ricchezza, gradi, cariche: fa diventare così furbi, tutto
questo! Ma voi che avete fatto per meritare tali fortune? Vi siete dato la pena
di nascere, e basta. Del resto, siete un uomo abbastnza comune! Mentre io,
perbacco!, sperso com'ero nella folla anonima, ho dovuto spiegare più scienza e
accortezza, solo per sopravvivere, che non in cent'anni per governare tutte le
Spagne.
(152)
Molti critici di fronte al Matrimonio
di Figaro nella veste viscontiana, accusano il regista di aver solo
ripetuto l'impostazione operettistica già proposta in Francia da Dullin. Ma,
ancora una volta, il precedente più diretto e più probabile è Jean Renoir che
al testo dell'autore settecentesco deve molto per la sua Règle du jeu,
film del 1939 che preludeva la catastrofe della seconda guerra mondiale,
ripetendo, aggiornato, l'inquietante intuito di Beaumarchais. Visconti dimostra
di aver mutuato molto dal suo maestro francese: il palazzo come scena unica,
che in Renoir è lo sfondo di più di tre quarti del film, imponente e lugubre
simbolo dell'aristocrazia (e della ricca borghesia); la costruzione danzante,
determinata nel film dalla esterma mobilità della macchina da presa che
volteggia attorno agli attori, dentro e fuori il castello, per seguirne le
giravolte e le corse a rimpiattino dei continui inseguimenti amorosi e fermarsi
quando tutta l'apparente leggerezza crolla all'irrompere della morte che qui, a
differenza di Beaumarchais, non è soltanto annunciata.
La Règle è effettivamente ispirata al Matrimonio di
Figaro, di cui alcuni versi sono trascritti dopo i titoli iniziali a mo'
d'introduzione; dalla commedia, il film deriva una struttura corale, la
definizione o la posizione di certi personaggi, il complessivo aspetto da
commedia degli equivoci; ed è proprio sul grande equivoco dell'occhialino, il
quale vede ingrandisce e deforma la realtà, che il dramma s'innesta, per
terminare con l'altro fatale equivoco dello scambio dei cappotti. "Dans ce film extraordinairement audacieux par le sujet, la technique
et la conception du récit, Renoir a donné à l'art français, au seuil de la
guerre, quelque chose d'équivalent à ce que fut Le mariage de Figaro
pour la Révolution Française. Non que cette histoire d'amour dans un châteu de
Sologne, inspirée par Beaumarchais, Musset et peut-être Marivaux, ait rien de
politique, mais elle traduit implicitament toute la crise de conscience d'une
civilisation au bord de sa perte" (153).
Se
Beumarchais contemplava l'affannoso dibattersi dell'aritocrazia, Renoir allarga
il discorso sino ad includervi la borghesia, inghiottita anche'essa dalla
guerra imminente. E ad un coinvolgimento altrettanto lato pensa anche Visconti
quando fa recitare a Figaro il suo monologo portando De Sica in platea,
"gomito a gomito con il pubblico borghese" (154) che pare così
inglobato nella sensazione di angosciante minaccia che sovrasta il
palcoscenico. Il monologo, oltretutto, è anche il momento più umano e denso di
significati polemici e politici, che la stasi dopo la frenesia generale
amplifica maggiormente e che viene rivolto direttamente al pubblico, quasi ad
accusarlo: è ciò che porta a pensare che l'evento trasformatore, la rivoluzione
prospettata dallospettacolo possa non essere solo quella francese, bensì una
diversa rivoluzione sociale.
Il senso del balletto nella Règle
è dato dall'agilità della macchina da presa e dai movimenti degli attori, dal
montaggio con rapidi cambiamenti di scena e dalla velocità del dialogo. Ma
anche dai giocattoli maccanici di Dalio, pupazzetti animati che ripetono
incessantemente i bei movimenti per i
quali sono stati costruiti, eleganti e divertenti, ma che non possono sfuggire
al loro rigido automatismo: si tratta di un motivo ripetuto nelle danze della
marionette degli intermezzi viscontiani. Piccoli balletti dalla superficiale insensatezza
e sottesa angoscia che presagiscono la danza macabra finale, presente anche
nella Règle, benchè un pochino anticipata (l'assassinio dell'aviatore ne
ha preso il posto ed il significato), e che termina il gioco dei travestimenti
e prepara la catastrofe. Le ferree regole dell'ipocrisia non possono venir
infrante, pena la morte, ciò che rende tutti i personaggi pedine animate di un
gioco pericoloso, un balletto vuoto di senso: Dalio conclude il film facendo
calare sugli avvenimenti un pudico sipario, annunciando con garbata eleganza
che lo spettacolo è finito, che non c'è stato niente di grave: la società si
ricompone.
Il Matrimonio è
l'ennesima ma per il momento più forte affermazione e rivendicazione della
libertà registica da parte di Visconti, applicata ad un testo 'classico',
facente cioè parte di un repertorio ben noto e che rimanda ad una solida
tradizione di messinscena con cui la sua regia innovativa si scontra in modo
violento ed estremamente palese, tale da dar polemico risalto al suo intervento.
Anche D'Amico, che non ha amato lo spettacolo, deve riconoscere al suo regista
un forte stile personale, un metodo perchè "quasi tutti i suoi spettacoli,
quelli meglio riusciti e quelli meno persuasivi, hanno una loro compattezza,
una loro unità: attori, luci, ritmo vi sono disciplinati da una guida unitaria,
fanno un blocco solo, puntano concordi in una determinata direzione" (155)
verso un'idea, un'interpretazione.
Secondo Guerrieri vi sono
numerosi motivi per guardare con attenzione a questo particolare spettacolo
viscontiano. E' il suo "debutto
nel teatro musicale. E' il melodramma che arriva" (156). Perchè è la prima
delle "corti" viscontiane, un termine che allarga il concetto di
'famiglia'. Infine, "c'è un'altra ragione per cui il Matrimonio è degno di
nota, e si distacca dagli spettacoli precedenti: da un punto di vista
produttivo. Finora Luchino, come guest
director, aveva limitato le proprie ambizioni alle disponibilità che gli
venivano offerte. [...] Ora propone il suo modello di lavoro, e si avvia alla
Compagnia che egli stesso finanzierà" (157).
LA COMPAGNIA.
Nell'autunno del 1946 Visconti decide di costituire una Compagnia "con
intenti esclusivamente d'arte" per ottenere il massimo di qualità
possibile per gli spettacoli che ha in mente, organizzata come una cooperativa
con la partecipazione di tutti i componenti fissi. Il repertorio è costituito
da una selezione di testi per la più parte inediti, soprattutto francesi (il
teatro esistenzialista: Sartre, Anouilh, Camus) e americani, che costituiscono
"quanto di meglio letterariamente e artisticamente sia stato prodotto
dalla drammaturgia contemporanea" (158). Visconti si avvale "di
attori della più provata e rinomata qualità e pieni di grande fede nel
teatro": il nucleo costitutivo della "Compagnia Italiana di
Prosa" è la Moreli-Stoppa cui si aggiungono le più o meno fisse
"partecipazioni straordinarie" di Memo Benassi e Tatiana Pavlova ed
altre saltuarie, a seconda dello spettacolo proposto. Per la messiscena
Visconti desidera la collaborazione di tecnici e dei "migliori pittori,
architetti, e musicisti italiani, intendendo [...] contribuire ad un
rinnovamento totale del gusto della scenografia teatrale" (159) e del
gusto teatrale in genere, perchè il 'rinnovamento' è l'unica via per superare
la drammatica situazione del teatro la cui funzione culturale è soffocata da
"abborracciatura, provincialismo, dilettantismo e pochades". Il progetto della Compagnia riuscirà solo
parzialmente, poichè soltanto alcuni dei testi prescelti verranno
effettivamente messi in scena: per quanto riguarda i francesi, solo la
riduzione di Baty di Delitto e castigo e l'Euridice di Anouilh.
Ma lo scopo della Compagnia è per Visconti soprattutto quello di poter
sviluppare con maggior coerenza ed indipendenza il suo progetto registico a
teatro, ottenere l'autonomia finanziaria necessaria per realizzare lo
spettacolo che considera soddisfacente, accordando così il teatro italiano alla
consuetudine già affermatasi sulle altre scene nazionali: Visconti scrive
chiaramente di non voler risparmiare nulla affinchè gli spettacoli della sua
Compagnia e non solo quelli da lui diretti "raggiungano come repertorio,
gusto, recitazione, rifinitezza e risonanza, uno stile definitivo e
rigoroso", siano chiara espressione di un'idea accentratrice che sia anche
affascinante per il pubblico. Il Matrimonio di Figaro è stato per
Visconti la prova generale, un manifesto di prepotenza registica che ha
sfondato il budget del 50% e superato
il numero dei giorni previsti per le prove. Fare di ogni spettacolo un evento
culturale, espressione viva di idee è ciò che Visconti ha fatto e farà
comunque, anche senza la Compagnia.
Un altro classico è la prima messinscena per la Compagnia: Delitto
e castigo nella riduzione di Gaston Baty scelta perchè "la più agile
ed efficace" (160) tra quelle esistenti. Visconti è interessato più al
romanzo ed ai temi in esso contenuti che all'effettiva qualità del testo
teatrale. Il programma di sala dello spettacolo (che presenta anche la
Compagnia) afferma che il lavoro di Baty ha il difetto "di spezzettare
l'azione in una serie di ambienti e scene staccate, di troncare cioè ad ogni
quadro la tensione drammatica" (161). Visconti ha ovviato a
quest'inconveniente creando una scena unica cangiante, rappresentante l'amalgama
di tutti gli ambienti della pièce,
ossessiva nella sua fissità come la paranoia del protagonista di cui dà una
valida immagine: all'aprirsi del sipario si ha "una visione da incubo e
tuttavia armonica di una scena tenuta per quell'effetto nell'ombra" (162),
che si illumina via via per inquadrare, con luci diverse, i vari luoghi
dell'azione. Raskolnikof è interpretato da Stoppa "alla Peter Lorre [...]
tutto fisso, immobile" (163) nella sua mania di persecuzione, fermo nel
tormento. "Nevrotico, inquieto e pieno di assilli, striscia lungo i muri
[...] e i grandi caseggiati della città pesano su di lui" (164). Corroso
dalla colpa, angosciato e tormentato, Raskonikof ha commesso il delitto per
abuso d'orgoglio, illuso di potersi porre sopra gli altri per aver intravisto
la possibilità di un superuomo che non riesce ad essere, e il suo castigo è lo stesso rimorso, la coscienza
dell'errore, il peso di quella colpa che gli si rivela insostenibile e che fa
di lui, ironicamente, la vittima, un perseguitato invece che il fiero
inattaccabile e superiore assassino che sognava. Come il Tullio dell'Innocente, è assassino per puntiglio,
perchè la sua superiorità è stata oltraggiosamente intaccata (qui dalla
povertà, dalla sua incapacità di riuscire a vivere decentemente), per
dimostrarla ancora vitale. "Perduta l'areola ribelle e satanica,
Raskolnikof ci mostra il viso angosciato e smarrito dell'uomo che ogni giorno
si accanisce a rifarsi della propria miseria sulla miseria degli altri, e
giuoca all'essere superiore" (165). Non è un ribelle perchè il suo gesto è
gratuito ed inutile, è un'ingiustizia immotivata benchè rivolta contro un
essere meschino. Non vi è intelligenza nel suo atto ma scientifica ipocrita
freddezza, debolezza che subito dopo emerge: vi è solo presunzione che si
nasconde nella esaltazione intellettuale. I quadri in cui è diviso il testo non
sono che tappe di un percorso circolare che parte dal delitto e si conclude con
la confessione che è innanzitutto l'ammissione del fallimento, dell'inutilità
dell'assassinio.
Delitto e castigo è
uno spettacolo che risente della precedente messinscena del Matrimonio di
Figaro nello sfarzo, l'eleganza, l'enormità dei costi; è ugualmente
musicato da Rossellini e ha una cert'aria di balletto che gli dà una simile
beffarda e tragica ironia: la gratuità delle acrobazie che accompagnano in
controscena il dialogo tra Raskolnikof e Marmelodof al II atto ha un effetto
che è alla fine lo stesso del Matrimonio, straniante e grottesco, che
sottolinea per contrasto l'angoscia della scena. E' un'aggiunta che alcuni
critici sentono come una stonatura, un arbitrario tradimento del testo, già
sufficientemente violentato dall'adattamento di Baty, un ulteriore sintomo di
una deplorevole invadenza registica che impediva una semplice efficace
"resa" scenica del testo.
Marmelodof e Raskolnikof
mostrano una forte simmetria: la loro viltà, l'incapacità a vivere hanno
conseguenze sulle rispettive famiglie, costringono implicitamente la figlia del
vecchio a prostituirsi, mentre la sorella dell'altro sta per impegnarsi in un
matrimonio d'interesse, necessario per ristabilire le disagiate finanze
familiari. L'uno legato al vizio e alla miseria quasi con masochistico
compiacimento, in un circolo vizioso da cui non sa fuggire; l'altro carnefice
di se stesso con un omicidio egoistico che non ha attenuanti. L'introduzione di
Marmeladof permette quindi un gioco di specchi che moltiplica l'angoscia del
protagonista, e sottolinea la specularità tra Sonia e Dunia sì da far emergere
una specie di alone incestuoso 'à la Cocteau'.
Raskolnikof ricerca una
superiorità che non trova in se e di cui capisce l'illusorietà scoprendosi
completamentwe indifeso nei confronti del rimorso. Vi è in lui l'esasperazione
dell'assunto sartriano, del diritto alla libertà e alla autodeterminazione perchè
il suo "progetto" non è realistico, non tiene conto dei sottintesi
limiti che l'intelligenza e la coscienza naturalmente definiscono. Secondo lui "l'humanité se divise en deux classes: d'un côté la foule
[...] soumise à la conscience, à la morale, au décalogue et au code; de l'autre
les individualités supérieures, qui, par définition, sont au dessus de toute
règle et n'ont d'autre devoir que de se réaliser pleinement" (166). Un
individualismo antidemocratico che non ha nulla in comune con quello
viscontiano: per Visconti vi è nell'individuo la sola forma d'intelligenza
possibile in quanto consapevolezza di se, ma senza possibilità di gerarchie che
invece sono il fondamento della teoria di Raskolnikof, della sua inebriante
esaltazione di eletti che non rispondono di niente a nessuno, nei cui diritti
rientra anche il delitto. La degenerazione dell'uomo sartriano che Raskolnikof
rappresenta si ritrova nel protagonista de L'Innocente e in Ludwig: in
tutti questi personaggi vi è confusione tra egoismo e libertà, sbagliano
illudendosi di essere nel giusto. Il re di Baviera afferma di voler esser
"libero di cercare la felicità nell'impossibile" e di accordare le
sue azioni alle sue idee per amore della verità, confondendola però con i suoi
impossibili esasperati sogni romantici. Dürkheim controbatte che "la
verità [...] non ha niente a che vedere con questa ricerca dell'impossibile.
Una libertà che sia privilegio di pochi non ha nulla in comune con la vera
autentica libertà, quella libertà cioè che appartiene a tutti gli uomini e che
ognuno di noi, a ragione, ha il diritto di avere. Viviamo in un mondo senza
innocenti, in cui nessuno ha il diritto di erigersi a giudice" (167).
E' la disperazione
dell'impotenza di fronte al rimorso (alla scoperta della propria stupidità) a
far sprofondare Raskolnikof nell'angoscia e nella disperazione, che si traduce
nella febbre che lo prende in seguito al delitto, nel delirio che rende irreale
l'atmosfera della pièce. Egli si
trova in uno "stato perenne di allucinazione" e "paranoia"
(168), il suo mondo è distorto, è diventato un incubo ossessivo e doloroso
perchè tutte le sue certezze gli sono crollate addosso. L'angoscia simbolica
della cupa scenografia che rappresenta il mondo reale si scontra con
"apparizioni di personaggi femminili in vastissime crinoline" (169)
che fanno anch'esse parte della visione corrotta di Rakolnikof diventando personaggi quasi immaginari, irreali
ambasciatrici di un paradiso perduto ma ancora sognato nel quale rifugiarsi per
aver conforto e comprensione. Sono figure salvifiche, esaltate dal delirio e
dal bisogno di pace: "mirabili" i loro vestiti, "splendidi gli atteggiamenti"
(170), tanto che la scena sembra di colpo modificarsi, con effetto ipnotico,
"veniva da pensare a certe pitture settecentesce, non a una Pietroburgo
1866" (171), perchè portano in scena l'atemporalità del sogno.
Raskolnikof si riconosce in
Sonia e si lega a lei cercandone l'assoluzione, volendo in realtà la pace della
propria coscienza: "te voici dans le déshonneur et l'adandon, épuisée par
un sacrifice inutile, sans plus rien en ce monde où accrocher un petit espoir. Tu as commis un meurtre puisque tu as supprimée ta propre vie. Voilà ton
péché véritable et je sais qu'il rejette à l'écart de tous celui qui en porte
le poids. Je connais un désespoir pareil, la même solitude et je suis comme toi
à bout de forces" (172). Un'identità che diventa amore masochistico,
sofferente e disperato tra compagni di una simile sventura. Negli ultimi quadri
Sonia assume un atteggiamento materno verso Raskolnikof che si lascia invece
andare alla disperazione (173). "Nous sauver l'un l'autre.
Ressusciter" (174) è ciò che egli vorrebbe, poichè entrambi sono morti
con le loro colpe, lui ucciso dalla sua stessa vittima. L'amore gli dà
l'illusione del sollievo e della pace, ma è solo l'immagine fugace di una
felicità impossibile.
Sonia, interpretata con
"sobrietà" dalla Morelli, è lucida e rassegnata, sostenuta dalla fede
che non può invece aiutare Raskolnikof. E' l'unico adulto nella sua famiglia
perchè il padre è sempre ubriaco e la matrigna insegue insensati sogni di
nobiltà e di gloria, rinchiusa nel suo passato sino a gettarsi nel fiume con i
due figli più piccoli. Sonia è la sola a poter affrontare la realtà, a
guardarla con coraggio.
L'altro rappresentante della
lucidità nel testo è Porfirio, il poliziotto che sa bene chi è il colpevole, ma
contro il quale non ha nessuna prova. Vagamente estraneo alla vicenda, egli,
come Fred nella Macchina da scrivere, è interessato alla psicologia,
alla personalità dei criminali più che al loro effettivo arresto (la sindrome
da 'autoaccusa', motivata da certo fatalismo religioso, colpisce anche qui
alcuni personaggi accessori). E' incuriosito dalla inquietante teoria di
Raskolnikof contraddetta dalla sua prevedibilità come criminale, e attende
l'inevitabile confessione che ossessiona incessantemente ogni assassino:
"c'est curieux, mon cher, d'observer comment un homme qui se croit encore
libre est déjà rivé à une chaîne [...]. De pareils gens trâinent
avec eux une prison dont ils ne peuvent pas s'évader. Avez-vous suivi quelque
fois les vols d'un papillon de nuit autour d'une lampe?" (175).
Raskolnikof è del tutto prigioniero del
suo crimine il quale doveva invece essere la suprema affermazione di libertà ed
indifferenza, di superbia ancor più grande per la gratuità: ha ucciso per
obbedire alle sue teorie, per sentirsi
finalmente al di sopra di tutto. La confessione finale, più che catartica
liberazione dalle colpe, è la dimostrazione, l'affermazione urlata a tutti gli
interpreti riuniti ed al pubblico, della sua stupidità, della sua vanità, il
definitivo crollo delle sue illusioni, la grottesca conclusione di una
terrificante consapevolezza per mezzo della quale può, con sollievo, rientrare
nell'odiata folla, tra gli altri.
EPILOGO.
Euridice è
l'ultimo testo di autore o di provenienzaa francese che Visconti mette in
scena. Non per questo cessa l'influenza francese che prosegue sotterranea in
tutte le sue opere, le motiva e le spiega perchè le premesse intuite in Francia
continuano ad essere messe in pratica. Il periodo francese è stato il momento
del risveglio intellettuale, artistico, politico e personale di Visconti,
un'esperienza incancellabile che ha rappresentato la fine di una prolungata
adolescenza ed il raggiungimento di una consapevolezza adulta di se e delle
proprie possibilità (poi via via
affinate dall'esperienza) e finalità espressive. Quello francese è stato un
periodo di formazione e maturazione che ha creato, letteralmente, il successivo
Visconti, tutta la sua attività spettacolare e l'importanza della Francia lo
porta ad iniziare quasi ogni nuovo capitolo della sua attività artistica con un
lavoro di 'estrazione' francese: Ossessione proviene da Renoir e risente
dell'influsso del cinema francese; i Parenti terribili sono un testo
francese, così come lo è il testo della prima polemica messinscena di un
classico, il molto reoniriano Matrimonio di Figaro, seguito dalla prima
regia per la Compagnia Italiana di Prosa, anch'essa francese, con il Crime
et châtiment di Baty (la regia lirica inizia con la Vestale,
musicata da Giacomo Spontini, ma su libretto di Etienne de Jouy). Sono testi in
cui Visconti trova e definisce tutti i motivi fondamentali della sua opera che
in seguito si metteranno sempre meglio a fuoco, gli argomenti prediletti,
stabilisce e dichiara il suo impegno sociale e morale. La dipendenza culturale
(e quasi psicologica) dalla Francia è comunque presto rielaborata in forma
autonoma ma sempre secondo le direttive delineatesi nel soggiorno francese.
Con Euridice cessa il
diretto e più esplicito influsso francese; anche perchè, in qualche modo, il
suo esempio è stato seguito da altri registi che hanno importato e messo in
scena testi di Cocteau, Anouilh, Satre, Camus. Non vi è quindi più l'impellente
necessità di rinnovare il repertorio, e le novità a teatro saranno d'ora in poi
prevalentemente di provenienza statunitense per rivolgersi in seguito sempre
più decisamente verso i classici che, rivestiti da nuove interpretazioni,
ereditano e non smentiscono l'intento innovativo degli esordi.
L'evoluzione personale di
Visconti lo avvicina poi sempre più alla Germania:
la cultura tedesca è stata importante per me, per
quanto io sia più di cultura francese perchè ho vissuto molto in Francia da
giovane. La cultura tedesca [...] è venuta in seguito, direi come una presa di
coscienza più severa, più seria e non nego che possa aver influenzato e che
possa influenzare [...] il mio lavoro.
(176)
Non vi è molto di nuovo in Euridice
rispetto ai temi già emersi altrove. Secondo testo di Anouilh portato in Italia
e sulla scena da Visconti, è una storia di sogni e delusioni che qui si
impernia sull'amore e sulla morte, due successive illusioni che riuniscono
Orfeo ed Euridice in una impossibile ricerca della felicità. La trana ha alcuni
punti in comune con Quai des brumes, nella generale perfidia che
circonda i protagonisti, il loro non impeccabile passato (soprattutto di
Euridice), il tentativo di creare tutto ex
novo. La disperazione circonda i protagonisti della pièce e del film, ed è sempre sul punto di travolgerli perchè vi è
il medesimo senso della vittoria dell'ingiustizia, la stessa certezza del
fallimento, che si traduce in Anouilh nella ripetizione del mito. Simile tra le
due opere è anche il populismo che rende Euridice attrice in una Compagnia
piuttosto dubbia ed Orfeo suonatore ambulante di violino, personaggi ai margini
della società. Vi è del simbolismo nella messinscena che, a detta di Calendoli,
"tutta la pervade e la ingarbuglia" (177) e che si ritrova anche nei
film di quella corrente (e, in effetti, anche in tutti i film di Visconti).
Anche la scenografia sembra uscita, per certa realistica artificiosità e per la
bellezza, da un film del Réalisme Noir: così come la stessa ambientazione nella
stazione ferroviaria che è luogo comune di incontri tra sconosciuti che
sembrano aspettarsi, riuniti dal caso (o dal destino). La scena nell'albergo, piena di ingenua speranza e
preludio alla morte, sembra una citazione letterale del film di Carné, simbolo
nei due casi della impossibilità di sperare: dolci e patetiche parole sono
scambiate, proteggono i protagonisti da un mondo ostile ed orribile
rappresentato dai rispettivi genitori, mostrati nella grottesca e penosa
assurdità del loro egoismo (che diventa vero e proprio sfruttamento nel caso di
Orfeo): l'unica speranza per i due giovani è la potente illusione del
rispettivo amore che è l'epifania improvvisa del 'senso' nel quotidiano
squallore e che, molto più che una fuga, è il necessario salvagente, l'ancora
di salvezza per entrambi. Ma sulla loro storia d'amore pesa la banalità di
tutte le altre ("che faccenda: eccoci nei pasticci tutti e due, di fronte
uno all'altra, con tutto quello che dovrà accadere già dietro di noi"
[178]), la persecuzione da parte del mondo.
Ma la vicinanza con
l'universo di Carné e Prévert è forse più forte nel testo che nello spettacolo
perchè molti aspetti appaiono da Visconti mitigati o cambiati nel senso. Grassi
legge il significato della pièce
nell'affermazione che la morte non solo è l'inevitabile esito della vita, il
destino certo di ogni uomo, ma che questi con essa si libera finalmente anche
dell'insopportabile fardello del'esistenza. E' questo un motivo forse più di
Anouilh che di Visconti (e che in parte giustifica anche l'aspirazione suicida
di Antigone). Non crediamo che Visconti condivida quest'assunto pessimistico,
il senso di ineluttabilità del mito e del destino: nei suoi lavori il
pessimismo non è ontologico, immanente alla realtà come non vi è mai un
superiore fato a guidare gli uomini. Vi è invece sempre spazio per una positiva
azione umana, un intervento autonomo, ed è ciò che giustifica lo sforzo di
Visconti nella sua definizione di un uomo che abbia coscienza del mondo e che
in esso possa liberamente realizzarsi. E' in questo ottimismo latente che
risiede veramente l'influsso esistenzialista, l'esistenzialismo diventando una
filosofia costruttiva e positiva, non mera contemplazione della propria
disperazione. I suoi personaggi sono vinti perchè perseguono vane illusioni che
impediscono loro di agire e pensare al di là di ogni costrizione. Il pessimismo
di Visconti è relativo, a posteriori, ed è solo conseguente al fallimento dei
suoi personaggi e il fine del regista è del tutto 'progressista', tendente cioè
ad un miglioramento, una evoluzione:
egli lavora alla costruzione di un uomo più consapevole e moderno, più
intimamente libero, sperando che i suoi numerosi exempla possano servire.
Il mio pessimismo è soltanto quello
dell'intelligenza [...] mai quello della volontà. Quando l'intelligenza si
serve del pessimismo per scavare fino in fondo la verità della vita, tanto più
la verità a mio avviso si arma di carica ottimistica, rivoluzionaria.
(179)
Nella pièce di Anouilh, il
destino è M. Henry: Visconti vede in lui solo il simbolo della morte e
nient'altro, il destino diventando in realtà esclusivamente la stessa scelta di
Orfeo di morire, ossia di guardare indietro, rievocare il passato. La sua scelta è l'espressione netta del
rifiuto dell'esistenza intesa quale squallida ricerca di una precaria felicità
(ripetendo così pensieri e gesti di Antigone), preferendo le illusioni
dell'immagine di Euridice alle mediocri certezze della vita, "quella
meschinità, quell'assurdo melodramma" (180): Orfeo insegue fino all'ultimo
momento un sogno d'amore già svanito che rende anche il suo sacrificio, come
quello di Antigone, inutile e superfluo. Orfeo va a raggiungere la sua
immaginaria Euridice, l'amore tradito in partenza: muore e la morte gli appare
bella perchè il suo potere lenitivo è amplificato, pubblicizzato quasi da M.
Henry: "non si soffre mai per morire [...] la morte non fa mai male. La
morte è dolce... la vita [...] fa soffrire. Alla morte bisogna affidarsi
francamente, come a un'amica" (181). L'evanescente M. Henry, è
tratteggiato con "riserva sapiente" e sobrietà da Stoppa in
apparizioni che ne fanno un personaggio fantomatico. La sua consapevolezza
degli eventi è totale, così come è abile nel prevedere i pensieri e le intenzioni
degli altri personaggi. Sempre estremamente gentile con Orfeo ed Euridice, li
avverte che "non bisogna credere esageratamente alla felicità", ma la
morte che offre ad Orfeo non è che un palliativo di felicità, non è che
un'illusione ed una fuga, non è nessuna soluzione.
Stoppa, inquietante emissario
e salesman della morte (182), indossa
per tutta la rappresentazione un impermeabile. La sua ambiguità fa pensare al
misterioso inquilino de Le notti bianche che nelle ultime inquadrature è
imbalsamato in un'espressione inalterabile ed indecifrabile, con addosso,
appunto, un impermeabile: non sappiamo bene a cosa realmente preluda questo
finale, se alla felicità o ad un ulteriore tormento per Natalia, ed entrambe le
possibilità sono nascoste nello statico silenzio di Jean Marais. La sola
certezza è che la sua apparizione infrange i sogni di Mario. Ci sono in effetti
parecchi paraleli tra Le notti bianche ed Euridice: Natalia e
Mario sono amanti disperati, soli, immessi in una scenografia realistica nei
particolari ma onirica nell'insieme, ricostruita in studio e figurativamente
piuttosto vicina a quella dei film del Realismo poetico, disegnata da Mario
Chiari (con Mario Garbuglia) che firma anche la scena di Euridice. Vi è
un forte contrasto (Visconti dice di aver utilizzato due diverse pellicole per
sottolinearlo) tra la realtà ed i sogni dei protagonisti, e anche la pièce trasuda una "atmosfera
compatta di trito, consunto ed offensivo verismo" (183) dove stona ed
affoga l'amore di Euridice e di Orfeo. Maria Shell dà al suo personaggio una
tenera ed infantile ingenuità che si rinvigorisce sempre nell'illusione del
ritorno dell'amante e che le dà toni esaltati e commossi; ma neanche
Mastroianni accetta lo squallore del mondo che lo attornia il giorno, andando a
cercare l'avventura nella notte, per le strade buie e semideserte.
Rina Morelli interpreta
Euridice con "trapassi vibranti e drammatici, dai toni rauchi di un
realismo quasi sanguigno, a quelli cantanti di una evasione verso il
sogno" (184). Una recitazione che alterna consapevolezza dell'incubo e
desiderio di fuga, con una variabilità che è sinonimo di una certa sofferta
doppiezza e consapevolezza del personaggio. "Toni troppo scanditi, anche
agressivi con una certa insistenza di valorizzazione di ogni battuta"
(185) accentuano il senso di irrealtà dell'amore tra i due che li porta
apparentemente fuori dal mondo ma dove ripiombano brutalmente per la morte di
lei (e la delusione di lui). D'Amico osserva che De Lullo recita Orfeo con
"un'estrema forse eccessiva sincerità" (186), mostrando così la
fragilità ed ingenuità del personaggio, ingannato da Euridice. Dopo che è
morta, Orfeo vuole capire tutto, scoprire le sue menzogne, e "la
vaghaggiata, irreale Euridice si dilegua per sempre, senza più rimedio agli
occhi di Orfeo il quale, rimasto definitivamente solo [...] non vede altro
scampo che lasciarsi ingiottire a sua volta dal buio dov'è sprofondata
Euridice, e dove egli la ritroverà" (187), intatta, con le sue illusioni,
non rimanendogli diversa alternativa che la realtà: incapace di
accettarla, fugge via con i suoi sogni,
sacrificandosi per non vederli del tutto crollare.
Visconti viene lodato per
l'estrema accuratezza della messinscena, la cura di ogni particolare, il
rifrangersi in ogni dettaglio sulla scena del suo sguardo e del suo pensiero;
"ha giocato d'intelligenza e d'audacia, insistendo [...] sui particolari
dell'agra desolata verità" (188), sottolineando i contorni realistici, i
dettagli dell'incubo nel quale rinchiudere e soffocare il sogno d'amore di
Orfeo ed Euridice.
POST SCRIPTUM.
Dice Vito Pandolfi che
"il contrasto fondamentale dei drammi di Anouilh, i termini dell'errore
che mina l'esistenza, sono dati dall'ambiente familiare in cui si cresce ed in
cui poi, ad onta di qualsiasi ribellione, si è condannati a vivere. Si tenta
sempre di evadere dalla situazione in cui ci ha posto il destino, ma è finito
il tempo dell'avventura e della speranza" (189). E' singolare come queste
parole rievochino fedelmente l'universo viscontiano, come, in effetti, lo spieghino.
Anche per Anouilh, la famiglia è il migliore e più chiaro simbolo del legame
con il passato, che imprigiona l'individuo impedendogli la fuga e la felicità.
In Visconti vi è sempre la possibilità di liberarsi, ma il prezzo è spesso
talmente elevato da renderla praticamente impossibile. "I personaggi di
Anouilh sono oppressi dal ricordo di uno splendore che ora è offuscato, e
nutrono un rancore inestinguibile contro il mondo che li ha sconfitti e che
vorrebbero veder distrutto. Ribelli per purezza o disperati per disgusto, essi
condannano l'esistenza e la società" (190). I personaggi di Visconti non
hanno questa chiarezza eversiva, ma i più lucidi si lasciano spesso trascinare
dall'amarezza e dal vuoto della loro vita, dalla chiara visione della prossima
morte da cui si sentono autorizzati a fare tutto, approfittare degli ultimi
momenti, come Franz Mahler, o Nadia, la prostituta di Rocco e i suoi
fratelli, costretta ad un sadico cinismo dal repentino, vile, ed inutile
sacrificio di Rocco per il fratello. Il percorso dei più ingenui personaggi
viscontiani, fino al momento della
verità, è tutto dentro il passato al quale sono più o meno consapevolmente
legati, e che li sta dolcemente soffocando: di questo si accorgono solo in
fine, quando è spesso troppo tardi per fuggire.
L'attività di Visconti è tutta tesa alla rilettura critica del
passato, ma rivolta al presente, si giustifica appunto attraverso una forte
adesione, un costante riferirsi alla società contemporanea ciò che rende i suoi
film, invariabilmente, 'al presente', direttamente o in forme metaforicamente
attuali: solo così la storia raccontata prende vita e significato. Ma Visconti
sembra ossessionato dal passato, dai legami, i vincoli che esso comporta. Il
suo è un tentativo di evasione in parte fallito perchè il passato ed il mondo
familiare sono per lui pieni di affetti che non vuole affatto cancellare.
Sono nato nel 1906 e il mondo che mi ha
circondato, il mondo artistico, letterario, musicale è quel mondo lì. Non è un
caso che mi ci senta attaccato. [...] Probabilmente ho anche dei ricordi
visivi, figurativi, una specie di memoria involontaria che mi aiuta a
ricostruire l'atmosfera di quell'epoca. Ma d'altra parte, se si vuole
raccontare una certa società bisogna pur raccontarla nel contesto dell'ambiente
in cui quella società viveva [...]. Oggi tutto è diverso [...], mi sembra tutto
meno interessante [...], molto meno stuzzicante, così grigio.
(191)
Eppure è la sua stessa attività ad allontanarlo dalla famiglia, la sua
scelta di artista che evidenzia lo stato di avanzata decomposizione del suo
ambiente, del mondo a cui è intimamente e consapevolmente legato.
Su
"L'Unità" del 12 maggio 1946, dichiarando pubblicamente la sua
intenzione di votare a favore del P.C.I., Visconti scrive:
a questa lotta [del P.C.I. per l'affermazione di
forze più giuste ed umanitarie], credo di collaborare per quello che è il mio
ambito, col mio lavoro e così intendo continuare nel futuro. Con questo non si
pensi che io creda in un'arte di propaganda, in senso stretto, che enunci
cioè e volgarizzi dogmi politici. Al
contrario, ritengo che ogni forma d'arte debba essere liberamente sincera, e il
suo più alto scopo sia di chiarire la posizione e i sentimenti dell'uomo in
mezzo agli altri, di rafforzare la loro solidarietà attraverso la conoscenza
delle loro passioni. [...] Sento anzi vivo il lievito del comunismo a spingere
l'artista verso la realtà, a cogliere la vita più vera e conoscere ed esaltare
le sofferenze dell'uomo. [...] Questo per me è l'arte: messaggio di vita agli
uomini, ed è in una società di uomini liberi che essa troverà la garanzia di un
fecondo fiorire.
(192)
E' una dichiarazione di intenti politici che diventa automaticamente
dichiarazione di intenti artistici, tanto i due termini sono per Visconti collegati.
Arte e politica si rafforzano a vicenda e acquistano senso nell'equilibrio del
reciproco rapporto. Anche dopo la trombosi Visconti afferma che chi fa
spettacolo deve "captare queste cose" cioè gli abusi della politica,
le storture della società. Bisogna "denunciarle, con esempi estremi, con racconti carichi di
dramma" (193), perché l'arte sia veramente utile.
L'interesse di Visconti è
anche artistico perché la politica da sola diventerebbe volgare ed insulsa
propaganda. Nel 1964 egli, in un'intervista per "Le Nouvel
observateur", dichiara addirittura:
la politica resta per me una cosa di secondaria
importanza. E' l'arte che conta: Far meglio nell'ambito dell'arte, oggi di
ieri.
(194)
E' l'arte, lo spettacolo la sua forma di espressione e la validità dei
contenuti non può prescindere dalla qualità della forma con cui vengono
espressi. Solo una chiara, precisa e coerente ricerca artistica può esprimere
pienamente reali contenuti politici i quali non sono imposti dogmaticamente
allo spettatore ma che lo invitano a certe conclusioni, soprattutto a porsi
delle domande. Nei suoi lavori, Visconti lascia totale libertà di scelta allo
spettatore, al quale propone validi esempi umani che possono comunque essere
trasportati nel presente: il personaggio viscontiano "inizia il difficile
cammino verso la ricerca della verità, una verità profondamente diversa da
quella in cui [...] credeva, [...] una verità penosa" (195), ciò che
dovrebbe invitare lo spettatore ad un analogo percorso autocritico.
Il rapporto tra arte e
politica si è andato forse allentando con il passare degli anni, mentre si
approfondisce il distacco dalla realtà. Un allontanamento dovuto all'età e che
egli si concede per dedicarsi a temi a lui più vicini e perché, in tutto il
lavoro precedente, ha dimostrato il suo impegno.
Io ho ormai pienamente sviluppato un mio discorso
più legato alla realtà immediata.
(196)
Del resto, anche negli ultimi lavori i suoi protagonisti cercano la verità
e non cambia la loro essenza e il complessivo appello alla libertà e lucidità
rimane sostanzialmente inalterato.
In un'intervista, del 1972:
sono stato giovane anch'io, e ho fatto La terra
trema, Ossessione, Rocco e i suoi fratelli. Adesso sono
troppo vecchio per affrontare i problemi di una realtà che non conosco appieno:
sono nell'età in cui gli impiegati sono già in pensione, lavoro ancora ma
soltanto perché mi diverte e mi è necessario. A noi [vecchi registi] sia
concesso di fare un altro cinema, non certo un cinema evasivo, ma quello che
sentiamo più consono a noi: è una libertà che ci siamo conquistata, credo.
(197)
L'età e l'intransigenza lo fanno sentire sempre più lontano dai giovani,
non gli fanno vedere in nessuno un degno continuatore dei suoi sforzi tanto che
finisce per esclamare che "i giovani non ci sono" perché "manca
loro uno stimolo", non sono più motivati. Egli sente che non ci sarà un
vero ricambio generazionale, ma un cambiamento, che non può leggere
positivamente e che lo relega nel passato, lo vincola sempre più ad esso.
Visconti condanna severamente i movimenti studenteschi perché contraddicono
quanto lui ha sempre affermato. Gli studenti volgono le spalle al passato
condannandolo in blocco, riazzerando tutti i concetti ed i valori, facendo tabula rasa, gettando così le basi del
loro fallimento. La necessità di ripartire da zero non solo rende difficile il
lavoro di ricostruzione ma impedisce di vedere gli errori passati e di capirli:
nell'ottica viscontiana non vi può essere alcun futuro senza il passato, e il
vero lavoro deve essere allora di ristrutturazione, soprattutto non di completa
demolizione che distrugge anche i punti fermi, i valori insostituibili che
fanno parte del passato. Nella visione di Visconti, i giovani vogliono un
civile imbarbarimento, ripetono aggravati gli stessi errori dei suoi
personaggi: solo dal passato e dalla sua completa comprensione si può partire
per la costruzione del futuro.
Visconti si è sempre sentito
vecchio, estraneo in qualche modo al mondo che lo circondava. Aristocratico per
nascita e comunista per scelta, egli lavorava alla distruzione della sua stessa
classe sociale, della sua identità culturale e la sua cultura gli serviva
proprio per meglio vedere il manifestarsi dei primi cenni di quest'agonia.
L'avvento sicuro del proletariato, che
si prospetta nella visione comunista, gli permetteva di contemplare la
decadenza ed il fallimento di tutto il suo mondo mettendolo esattamente nella
posizione del Principe di Salina, non potendo però nascondere il suo tradimento
-che è motivo ricorrente nell'opera viscontiana- nemmeno dietro la parvenza di un inevitabile opportunismo, come
fa il principe. Questa situazione dà forse un comune aspetto lugubre a tutti i
suoi spettacoli che ritraggono individui e società al tramonto, vicini alla
morte. Non vi è autocompiacimento nella tristezza, ma solo lucidità, quella
stessa che fa emergere nei suoi personaggi dei quali critica la cecità: egli è
lucido, sa bene qual è la sua condizione, vede l'inevitabilità della
trasformazione: la sua opera diventa quasi una grande danza macabra, un
balletto di condannati da lui guidato. Visconti non giustifica i suoi
personaggi, ma li capisce da vicino:
mi sembra evidente che quando si vuole raccontare
qualcosa a qualcuno non si può farlo che attraverso se stessi. Come
testimoniano Flaubert e il suo "Mme. Bovary c'est moi"
(198)
Ciò che conferma che vi è 'del Visconti' in ogni suo personaggio, ma con
un'identificazione solo parziale poichè vi è sempre uno scarto, un'indipendenza
che permette al regista una visione critica e consapevole.
La sofferenza, il senso del tradimento, il
ricorrere dell'incesto, la stessa predilezione per il melodramma tragico hanno
allora una spiegazione anche psicologica, sono radicati nella stessa
consapevolezza di Visconti di essere al termine di un'epoca e di farne parte.
Egli porta con crudeltà i suoi personaggi verso una simile presa di coscienza,
ed è proprio nella imprescindibile e imperterrita razionalità che si situa la
stessa sofferenza del regista. Forse vi è in lui anche il dubbio che la
trasformazione che si prospetta non sia del tutto positiva, non porti ad un
futuro realmente migliore: è il dubbio che aleggia nelle ultime inquadrature di
Rocco e i suoi fratelli e contraddice la fede di Ciro, la sua sicurezza,
rende triste, grigio ed ambiguo il finale:
come i suoi fratelli, anch'egli
è forse un illuso.
Visconti è stato accusato di
essere un decadente, ma il decadentismo dei suoi spettacoli deriva dai
personaggi e dalla situazione in cui si trovano.
Il decadentismo è una cosa molto pregievole. E' stato
un movimento artistico estremamente importante. Se oggi noi cerchiamo di
immergerci nuovamente in quel tipo d'atmosfera, lo facciamo perchè vogliamo
dimostrare l'evoluzione della società anche attraverso i cataclismi che l'hanno
sconvolta e che hanno portato alla decadenza di una grande epoca. Mi pare che
nel far questo ci sia [...] impegno politico
(199)
Tutti i suoi personaggi ripercorrono ossessivamente quel progressivo
avvicinamento alla verità che Visconti aveva sperimentato in Francia (il senso
del vecchio affiora anche in questa ripetizione cui sono costretti i
personaggi, dà loro l'aspetto di 'déjà vu'). Il suo intento è sempre stato
'progressista', sin da Cinema antropomorfico in cui si dichiara
interessato al cinema perché permette al regista di esprimersi "purchè non
sia corrotto da una decadentistica visione del mondo" (200), sterile e
meramente contemplativa. Con i suoi personaggi, Visconti cerca di stimolare ad
una completa consapevolezza mirando al superamento dei condizionamenti. Il suo
intento si identifica con quello di Sartre, perchè "il primo passo
dell'esistenzialismo è di mettere ogni uomo in possesso di ciò che egli è, e di
far cadere su di lui la responsabilità totale della propria esistenza"
(201), fargli capire a chiare lettere quanto sia libero ed il prezzo di questa
libertà, la responsabilità che essa comporta. Nell'incertezza dell'esistenza di
Dio (da Sartre negata, ma da Visconti almeno sperata), è preciso dovere
dell'uomo di prendere su di se, consapevolmente, la responsabilità del mondo,
ciò che è possibile solo se ogni uomo, indipendentemente, è responsabile della
sua vita, padrone indubbio di ogni suo momento deciso in perfetta autonomia:
"l'uomo è condannato ad essere libero. Condannato perchè non si è creato
da se stesso, e tuttavia libero, perchè una volta gettato nel mondo è
responsabile di tutto ciò che fa" (202). Vi sono due modi per raccontare:
vi è un modo estetico e compiaciuto che io non
esito a definire asociale, anzi antisociale, V'è un modo invece, che esamina le
condizioni della sconfitta [...] e che tanto più si arricchisce di speranza e
di energia quando più fa emergere dalla rappresentazione artistica il volto
reale dell'ostacolo, e il rovescio luminoso di una diversa prospettiva.
(203)
Visconti sceglie il secondo, ma la scelta stessa dei temi e dei testi, che
risponde ad un'istanza polemica e dialettica con la realtà, denuncia anche il
suo personale interesse, le sue preferenze. Esse sono state sottoposte ad una
ferrea e rigida disciplina razionale che lo ha allontanato dalle naturali
inclinazioni del suo carattere portandolo anzi, attraverso i suoi personaggi, a
criticarle aspramente, a metterne in luce la debolezza e la stupidità, perchè
"l'esistenzialista non crede alla potenza della passione. Non penserà mai
che una bella passione è un torrente che conduce fatalmente l'uomo a certi atti
ed è di conseguenza una scusa. Pensa che l'uomo è responsabile della sua
passione" (204) così come lo pensa anche Visconti, benchè egli creda al
potere devastatore delle passioni dalle quali però non si autorizza ad essere
sopraffatto, non potendo rinunciare ad un potente filtro razionale. Parlando di
Morte a Venezia, Visconti afferma che il tema del film é: "l'arte,
la vita, la morte, che sono inscindibili" (205): esse sono presenti anche
nel lavoro di Visconti che tende a rendere evidente, a palesare la morte o
l'apparenza della vita in ogni umana cosa, riuscendo così a coniugare i tre
termini in modo nuovo e non decadente.
Mi ha sempre attratto il tema del dissidio che può
intercorrere tra un artista con le sue aspirazioni estetiche e la vita, tra il
suo essere apparentemente sopra la storia ed il suo partecipare alla condizione
storica borghese.
(206)
Alle illusioni di Ascenbach, Visconti contrappone le sue sofferte ma
necessarie disillusioni, perchè ormai l'arte non può permettersi di essere
separata dalla realtà, di non essere coscientemente implicata nella
"condizione storica borghese" in quanto la sua funzione è quella di
interpretarla e non di reinventarla ed abbellirla. Solo così nell'artista arte
e vita possono di nuovo identificarsi, entrambe vincolate con rapporto di
reciproco supporto, da un preciso e ferreo impegno morale nei confronti della
realtà, e la vita può trovare il suo completamento e la sua sincera espressione
nell'arte. "Morte a Venezia non è una storia sentimentale, ma di
distruzione. E' la ricerca della perfezione da parte dell'artista; il suo
significato simbolico è che si può arrivare alla bellezza solo attraverso la
morte" (207): vi è quindi l'affermazione dell'inesistenza dell'arte,
almeno nella concezione di Ascenbach, la cui prepotente ed amata perfezione non
esiste e il musicista è vittima solo di un ridicolo innamoramento, di
un'illusione.
Da vecchio è anche
l'atteggiamento di Visconti nei confronti dei suoi personaggi per i quali, come
in Renoir, cade l'aprioristica chiave di lettura (moralistica, romantica o
ideologica) per lasciar spazio alla tolleranza, alla lucidità. Egli li lascia
totalmente liberi di realizzarsi e sbagliare, seguendo fedelmente il procedere
dei loro errori; li guarda andare al macero, avviarsi alla morte con lo sguardo
saggio di colui che sa dove arriveranno ma che non interviene a deviare il loro
tragitto. Perché sarebbe un inaccettabile arbitrio e contravverrebbe al suo
intento di realismo antropologico, il suo impegno morale ed umano di artista.
L'imparzialità della visione lo pone automaticamente fuori dell'agone, lo
strania dal contesto e lo mette nella posizione di Fred ne La macchina da
scrivere, che indaga sui componenti della famiglia dell'amico con un
ingarbugliato miscuglio di partecipazione e lontananza, cinico interesse
intellettuale e sincera affinità (208).
Visconti sente di non far parte del futuro: egli si
limita ad indicarne la via, mostrare il cammino che vede con estrema chiarezza
senza percorrerlo egli stesso perché troppo legato al passato. Egli non può che
sostare nel crepuscolo, nel presente che è il luogo di tutti i futuri
possibili, dove si può agire e smodificarsi per riuscire conformi al proprio
"progetto". Il presente diventa così il punto di rottura della
continuità perché il passato vi viene rimesso in discussione, un mutato punto
di vista ne permette un diverso giudizio. Ma se il passato non è che un ricordo
da rileggere e riciclare ed il futuro un'idea ancora da verificare, Visconti è
condannato al presente aspirando per inclinazione personale al passato e per
razionale scelta al suo superamento perchè "l'uomo si getta verso un
avvenire, [é] colui che è cosciente di proiettarsi nell'avvenire" (209).
Il presente è per Visconti una imprecisa e dolorosa zona di confine dove
l'unica irrinunciabile certezza è l'impossibilità del ritorno del passato.
NOTE
1. G.
RONDOLINO, Visconti,
Torino, UTET, 1981, p. 45.
2. Ivi, p. 63.
3. L. SCHIFANO, Visconti, Les feux de la passion,
Paris, Flammarion, 1987, p. 156. Horst afferma, parlando di Visconti:
"pour moi l'homosexualité était tout le contraire d'un problème, mais pour
lui [Visconti] il n'en allait pas de même. Je le rendis plus sûr de lui, justement
parce que je n'aurais pu moins le tourmenter que je ne le faisais à ce
sujet" (Ivi, p. 154). Jean Marais: "en 1937, à l'époque où je l'ai
connu, l'homosexualité ne lui [a Visconti] posait aucun problème; il ne
l'affichait pas, c'est tout" (Ivi, p. 156).
4. G.
RONDOLINO, Visconti,
cit., p. 46.
5. Ivi, pp. 55-6.
6. Intervento di F. Truffaut in A. BAZIN, Jean Renoir,
Paris, Editions Gérard Lebovici, 1989, p. 199.
7. AA.VV.,
Leggere Visconti, a cura di G. Callegari e N. Lodato, Pavia, Amministrazione
Provinciale di Pavia, 1976, p. 100.
8. A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 73.
9. L.
VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema,
Catalogo critico a cura di A. Ferrero, Ufficio Cinema del Comune
di Modena, Modena, 1977, p. 34.
10. A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 74.
11. Ivi,
p. 146.
12. L.
VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema,
cit., p. 34.
13. AA.VV.,
Leggere Visconti, p. 70. E' forse interessante mettere direttamente a
confronto, per quanto ci è possibile, la direzione dell'attore in Renoir e in
Visconti. Nel caso di Renoir, ciò è facilitato dal disporre della trascrizione
di un cortometraggio, intitolato, appunto, La direction d'acteurs par Jean
Renoir, girato nel 1968 da Gisèle Braunberger e trascritto in AA.VV., "L'Avant-scène cinéma", n.
251/252, 1/15 luglio 1980, pp. 115-120. Nel filmato, Jean Renoir applica il suo
metodo alla recitazione di un monologo tratto da un romanzo, interpretato dalla
stessa regista. In un primo tempo, Renoir spiega e descrive la
scena, raccontando l'antefatto: "chère Emily, chère Gisèle (il rit), ce
qu'il faut que nous trouvions c'est le mystérieux mariage entre vous et l'Emily
qui est dans ces lignes [Ivi, p. 116]. Egli sostiene che la riuscita di un film
dipende in massima parte dalla distribuzione, dalla capacità dell'attore di
scoprire il personaggio, e solo allora "on a un grand film, parce que les
personnages sont des personnages, qui ne correspondent à aucun autre personnage
connu, ce sont des personnages originaux, ce sont vraiment des créations"
[Ibidem]. Per ottenere questo, egli ricorre ad una prima lettura inespressiva
del testo, in cui "on s'interdit absolument toute autre expression, on lit
[...] les mots et puis alors ça pénètre, ça pénètre tout doucement"
[Ibidem]. Questa lettura permette di liberare il contenuto dal
flusso di immagini e stereotipi che subito si presentano e costringono inconsapevolmente l'interpretazione a
percorrere strade già battute. Solo dopo si può passare a "donner de l'expression":
Renoir evidenzia il contenuto emotivo delle parole (attento anche a seguire
suggerimenti coerenti da parte dell'attrice). Una
volta impossessatasi del contenuto verbale ed emotivo delle sue battute, Gisèle
deve cercarne l'"expression personnelle" assolutamente originale:
"mais surtout tachez de bien oublier tout ce que vous avez vu à propos de scènes de ce genre [...]. Faut que ce soit
vous, pas d'autres" [Ivi, p. 119]. Renoir 'aggiusta' le proposte
dell'attrice con indicazioni e correzioni, sino a farla arrivare alla sua
personale immagine del personaggio e della scena: è lui a guidare la ricerca in
comune. Successivamente, l'attrice, sul set, ritrova il personaggio per infine
adattarlo all'ambiente. Visconti lavora in modo simile con gli attori, con un
approfondito studio preliminare del testo assieme agli attori ai quali chiede
di "spogliarsi completamente della loro individualità, di entrare nei
personaggi. [Gli attori] si indirizzano, si guidano, si aiutano, si consigliano
e [...] non si dà inizio alla parte
spettacolare, scenica della regia" finché essi non sono perfettamente
maturi nei loro personaggi. (L. VISCONTI, Esperienze di un regista sul
palcoscenico e nello studio, in Giovanni CALENDOLI, Cinema e teatro,
Edizioni dell'Ateneo, Roma, 1957,.p 351). Visconti, nei confronti delle battute
di una sceneggiatura cinematografica, lavora tra il suggerimento e la
suggestione: "suggerisco agli attori gli argomenti ed essi provano ad
esprimerli a modo loro [...] la sceneggiatura serve come base, è l'ossatura del
film. E occorre averla sempre presente. Ma nè l'azione nè il dialogo definitivi
si possono predisporre. Nel film realista i personaggi non possono dire le cose
che in un certo modo: bisogna trovarlo. Del resto penso che l'autore del film sia
uno solo: il regista" (AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 45). A teatro, è necessario invece
attenersi alle battute del testo in cui le battute "si presentano in una
forma che è compiuta, intoccabile. Bisogna darne la realizzazione spettacolare
sul palcoscenico, cercando naturalmente di avere il massimo rispetto per un
testo che abbiamo scelto noi stessi e che quindi, indubitabilmente,
amiamo" (L. VISCONTI, Esperienze di un regista sul palcoscenico e nello
studio, in Giovanni CALENDOLI, Cinema e teatro, cit., p. 349).
"L'attore dev'essere sicuro del suo testo, di tutte le sfumature del suo
testo, non sicuro solamente di saperlo a memoria, che è la cosa meno
importante... anzi, se l'attore mi viene a una prova a tavolino avendo già la
parte nell'orecchio, allora son guai, perché io raccomando che non studino la
parte a memoria: la parte deve attaccarsi all'attore con queste lunghe sedute
che si fanno [...] l'attore che studia la parte come la si studiava
nell'Ottocento e la studia a memoria a macchinetta [...] è pieno di difetti e
non glieli leva più nessuno. Perché la studia a modo suo (L. VISCONTI, Il
mio teatro, a cura di Caterina d'Amico de Carvalho e Renzo Renzi, Bologna,
Cappelli, 1979, vol. I, p. 88).
14. A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 138. La Règle
è la perfetta espressione dell'ideale stilistico renoiriano che tende al
"drame gai", (Ivi, p. 67) in bilico tra dramma e commedia: qui la
lontananza da Visconti è molto forte, poiché l'italiano si trova molto più a
suo agio nella tragedia: ovviamente l'identità tra due registi non può essere totale.
15. AA.VV.,
Leggere Visconti, cit., p. 115.
16. A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 66.
17. L.
VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema,
cit., p. 33.
18 A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 153.
19. G.
RONDOLNO, Visconti, cit., 46.
20. AA.VV.,
Leggere Visconti, cit., p. 106.
21. Ivi,
100.
22. L.
VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema,
cit., p. 34.
23. AA.VV.,
Leggere Visconti, cit., p. 106.
24. Ivi,
p. 104.
25. Ivi,
p. 105.
26. Toni
è il film nel quale molti critici hanno ravvisato segnali premonitori del
neorealismo italiano, che trova successivamente in Ossessione il suo
primo risultato concreto. Il film francese si basa su un fatto di cronaca
girato con attori non professionisti in esterni reali, nei luoghi stessi dove
era avvenuto, affidandosi alla espressività di marcate inflessioni regionali o
dialettali colte in presa diretta. Sono tutti elementi che si ritroveranno nel
primo film di Visconti e, esasperati, soprattutto ne La terra trema.
27. La
scena che meglio sembra 'citata' in Ossessione, è quella dell'albergho, al
mattino: i due amanti parlano del loro futuro, mentre lui si pettina davanti
allo specchio e lei è ancora a letto. E' una scena castissima che non ha nulla
a vedere con la forte sensualità del corrispettivo in Ossessione: nel
film francese i vestiti risultano ordinatamente ripiegati sulla sedia ai piedi
del letto, mentre la Calamai solo 'dopo' trova modo di levarsi il vestito. Vi è
poi la buffa analogia del cane, che accompagna Gino, inquadrato solo di piedi,
all'interno dell'osteria di Giovanna: un cane molto simile a quello che si
affianca a Gabin in Quai des brumes, bianco pezzato, solo un po' più sfatto quello italiano.
28. G.
RONDOLINO, Storia del cinema, Torino, UTET, 1988², p. 327.
29. AA.VV.,
Leggere Visconti, cit., p. 75.
30. Ivi,
p. 104.
31. Ivi,
p. 103.
32. L.
VISCONTI, Esperienze di un regista sul palcoscenico e nello studio, in
Giovanni CALENDOLI, Cinema e teatro, cit., p. 350.
33. L.
VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema,
cit., p. 34.
34. AA.VV.,
Leggere Visconti, cit., p. 142.
35. André
Bazin, citato in Filippo M. De Sanctis, Alcuni significati di Bellissima, in AA.VV, L'opera di
Luchino Visconti, Atti del convegno di studi di Fiesole, 27-29 giugno 1966,
a cura di Marco Sperenzi,
Firenze, A. Linari, 1969, p. 296.
36. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 32.
37. "Astraendo
con violenza dagli schemi precedenti, da ogni ricordo di metodo e di scuola, si
cerchi di portare l'attore a parlare finalmente una sua lingua istintiva. Si
intende che questa fatica non sarà sterile, solo se questa lingua esiste sia
pure involuta e nascosta sotto cento veli: se esiste cioè un vero <<temperamento>>"
(L. VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema,
cit. , p. 35).
38. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 32.
39. G.
GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio),
in AA. VV., Visconti: il teatro, Catalogo della mostra a cura di
Caterina D'Amico de Carvalho, Reggio Emilia, Edizioni del Teatro Municipale di Reggio Emilia, 1977, p. 36.
40. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 36.
41. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, Torino, ERI, 1953, p. 13.
42. AA.VV.,
Leggere Visconti, cit., p. 93.
43. L.
VISCONTI, Cadaveri, in AA.VV., Visconti:
il cinema, cit., p. 32.
44. AA.VV.,
Leggere Visconti, cit., p. 70.
45. "Le
ragioni de La terra trema riguardavano anche, in fondo, questa
perplessità che aumentava in me di giorno in giorno, vedendo che il movimento
[neorealistico] tralignava, perdeva il suo prestigio. Donde, a un certo punto,
il bisogno di ritornare veramente alle origini, alla verità pura, senza alcun
inganno. Senza montaggio prestabilito, senza veri attori" (Ivi, p. 101).
46. L.
VISCONTI, Tradizione e invenzione, in AA.VV., Visconti: il cinema, cit., p. 31.
47. Ibidem.
48. "Nella
Terra trema, Visconti 'teatralizzava' una materia doppiamente
realistica; nel senso normale della parola, poiché si trattava di un vero
villaggio e della vita autentica dei suoi autentici abitanti, e anche nella sua
accezione ristretta e 'miserabilistica'. Niente di meno bello e meno nobile, di
meno spettacolare di questa povera comunità di pescatori. Non intendo
naturalmente l'epiteto 'teatrale' in un senso peggiorativo, al contrario cerco
di definire la nobiltà e la straordinaria dignità che la regia di Visconti
faceva apparire in quella realtà. Quei pescatori non erano vestiti di cenci. Ne
erano drappeggiati, come principi di una tragedia. Non che Visconti cercasse di
deformare o soltanto di interpretare il loro comportamento; ne rivelava
l'immanente dignità" (André Bazin, citato in Filippo M. De Sanctis,
Alcuni significati di Bellissima,
in AA.VV, L'opera di Luchino Visconti, cit., pp. 294-5).
49. V.
MARINUCCI, Luchino Visconti più che regista: autore di spettacoli,
"Il Dramma", n. 84, I maggio 1949.
50. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 104.
51. Ivi,
p. 63.
52. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p.
59.
53. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 68.
54. Ibidem.
55. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p.
55.
56. La
varietà di temi, pur nella ricorrenza quasi ossessiva di alcuni elementi, è
comunque tipicamente viscontiana: "i temi sono tanti, bisogna affrontarli
tutti, i temi. Io non ho un tema solo [...]. Preferisco pigliare temi diversi
per arrivare alle stesse conclusioni, dire le stesse cose" (L. VISCONTI,
Alla ricerca di Tadzio, R.A.I., Italia, 1970. Trascrizione personale).
57. Nel
1948, parallelamente alla realizzazione de La terra trema, Visconti
dichiara: "nel cinema questo termine [il neorealismo] è servito a definire
le idee che ispirano la recente "scuola italiana". Ha raccolto
[uomini, artisti] che credevano che la poesia nascesse dalla realtà. Era un
punto di partenza. Mi sembra che cominci a diventare un'assurda etichetta.
[...] A teatro ho spinto il neorealismo lontano quanto era possibile, [...]
l'ho fatto quando ho voluto servirmi degli oggetti e dei ricordi della realtà
che si erano allontanati dal quadro della nostra fantasia" (AA. VV., Leggere
Visconti, cit., p. 28). Ciò che interessa Visconti è lo spettacolo senza
limitazioni o etichette: "non realismo o neorealismo, ma fantasia, libertà
totale dello spettacolo" (Ibidem) e del regista nel metterlo in scena per
poter ritrovare l'essenza del testo in conformità alla propria interpretazione,
a teatro come al cinema. Il Realismo Poetico francese non ha mai ritratto
fedelmente la realtà, ma ne ha sempre fornito una più o meno valida
rielaborazione, sempre e comunque personale. Renoir ha tentato di togliere
alcuni artifici per avvicinarsi di più all'essenza realistica, ricercando un
approccio meno mediato ma sempre personale e caratterizzato da una prospettiva
critica. "Ce qu'on nomme couramment <<réalisme>>
n'a pas tant de sens absolu et clair qu'il ne désigne plutôt un mouvement, une
tendance vers le rendu fidèle de la réalité. En quoi aussi l'apologie du
<<réalisme>> ne signifie au fond strictement rien car il est mille
façons d'aller vers le réel et ce
mouvement n'a de prix qu'en raison de ce qu'il crèe c'est-à-dire du supplément
d'abstraction qui en découle [...] il n'y a d'intérêt à mieux rendre le réel
que pour lui faire signifier davantage" (A. BAZIN, Jean Renoir,
cit., p. 78): queste parole, dedotte da Bazin dal lavoro di Renoir, si
applicano magnificamente a Visconti che del realismo -non del neorealismo- ha
fatto la sua bandiera, poichè egli tende alla fedele (quindi realistica)
restituzione del mondo del protagonista, anche se onirico, allucinato o
deformato: "il cinema è tutto, purchè sia verità" (AA. VV., Leggere
Visconti, cit., p. 117), così come il teatro. Ogni
mezzo espressivo è pertanto lecito, se sincero, ma: "non si può e non si
deve uscire dalla realtà. Io sono contro le evasioni" (AA.VV., Visconti:
il cinema, cit., p. 46).
58. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 48.
59. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 100.
60. Ivi,
p. 88.
61. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 43. "Si tratta in sostanza della
storia di una donna, o meglio di una crisi: una madre che ha dovuto rinunciare
a certe segrete aspirazioni piccolo borghesi, tenta di realizzarle attraverso
la figlia" (Ibidem).
62. La
struttura binaria del film è messa in evidenza in Filippo M. De Sanctis,
Alcuni significati di Bellissima,
in AA.VV, L'opera di Luchino Visconti, cit.
63. Ivi,
p. 289.
64. Sembra che proprio in questo
film, contrariamente alle sue abitudini, Visconti abbia concesso spazi notevoli
di improvvisazione alla sua attrice per la sua bravura ed intelligenza.
"La Magnani ha una recitazione piena d'istinto popolare, che non ha niente
a che fare con il teatro di mestiere. Sa mettersi al livello degli altri, e in
certo modo sa portare gli altri al suo. Io ho puntato essenzialmente su questo
particolare e straordinario aspetto della sua personalità" (AA.VV., Visconti:
il cinema, cit., p. 43).
65. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 100.
66. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 58.
67. AA. VV., "L'Avant-scène Cinéma", n. 251/252,
1/15 luglio 1980, p. 161.
68. G.
RONDOLINO, Visconti,
cit., p. 274. "Meno di un paio di anni dopo [la prima riduzione
viscontiana], il testo fu tradotto in film da Jean Renoir, col titolo Le
Carrosse d'or, sia pure con una sceneggiatura diversa, con Anna Magnani
come protagonista, un'attrice alla quale presumibilmente pensava anche Visconti
per il personaggio della Perichole" (Ibidem).
69. F. TRUFFAUT in A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p.
260.
70. AA. VV., "L'Avant-scène Cinéma", cit., p. 146.
71. ibidem.
72. A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 228.
73. Ibidem.
74. M.
VERDONE, Omogeneità e coerenza dell'opera di Visconti nel teatro e nel
cinema, in AA.VV., L'opera di Luchino Visconti, cit., p. 251.
75. E'
sorprendente vedere quante convergenze (quindi affinità) vi siano tra Renoir e Visconti anche solo ad un
sommario spoglio e confronto di alcuni dei loro progetti abortiti, prescindendo
da ipotesi di un vero e proprio scambio di soggetti o idee. Ovviamente figura
tra i progetti di Renoir (ma non è datato) l'adattamento de Il postino suona
sempre due volte che realizzerà Visconti (preceduto in Francia da Pierre
Chenal con Le dernier tournant): a quanto sembra, Renoir ci pensava sin
dal 1936. Tra gli altri adattamenti figurano progetti da Anoulih (Roméo et
Jeannette) e da Cocteau (Anna la bonne), due autori importanti per
il Visconti teatrale. Del 1951 risulta il progetto de L'étranger di
Camus, interprete Gérard Philippe. All'attore Visconti aveva pensato verso il
1949 per Cronache di poveri amanti, mentre realizzerà romanzo di Camus
1967 con Marcello Mastroianni. Infine, Louis Jouvet, attore con Renoir ne Les
Bas-fonds (secondo alcuni, Visconti pare abbia collaborato al film come
assistente ma non vi sono notizie precise al riguardo), sembra sia stato
contattato da Visconti attorno al 1945 per una riduzione cinematografica dell'Otello
di Shakespeare.
76. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 78.
77. G.
GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio),
in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 37.
78. In
Ossessione vi è soltanto il sogno, il tentativo fallimentare di
costruire una famiglia nuova per Giovanna che rifiuta -e sopprime- il vecchio
marito -la famiglia sbagliata- e concreta manifestazione di un passato da cancellare.
E forse vi è nella donna l'intenzione di sfruttare Gino proprio per liberarsi
del fardello di un marito ormai inutile: vi è forse in lei del calcolo -quindi
una certa lucidità- soffocato in seguito dalla passione. Con Gino vi è il
confuso bisogno di sedentarietà in un personaggio sino a quel momento girovago
e senza legami. Ma la loro famiglia, rappresentata da quel figlio annunciato
che muore con la donna, non diventerà mai realtà.
79. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 90.
80. Yvonne
dà una ridefinizione dell'incesto come conseguenza della prolongata intimità
tra i due coniugi, ritenendo invece perfettamente comprensibile e normale il
suo rapporto con Michel: "[...] après vingt ans de mariage l'amour change
de forme. Il existe une parenté entre époux qui rendrait certaines
choses très gênantes, très indécentes, presque impossibles" ( J. COCTEAU, Les parents terribles,
Paris, Gallimard, Collection Folio, 1972, p. 28).
81. Ivi,
p. 179.
82. Ivi,
p. 9.
83. Ivi,
p. 26.
84. Ivi,
p. 9.
85. Ivi, p. 11.
86. Cocteau vuole scrivere "une suite de scènes
-véritables petits actes- où les âmes et les péripéties soient, chaque minute,
à l'extrémité d'elles-mêmes" (Ivi, p. 12). Ancora, nella ricerca del tipo
di testo da scrivere, Cocteau scopre che "il fallait écrire une pièce
moderne et nue, ne donner aux artiste et au public aucune chance de reprendre
haleine" (Ibidem). Cocteau, nella sua messinscena del testo, mantiene
l'interpretazione "sopra toni d'una esasperazione tra indiavolata e
meccanica, sicchè il pubblico non sapeva mai bene se dovesse decidersi a
rabbrividire oppure a sorridere" (S. D'AMICO, Cronache del teatro,
Bari, Laterza, 1963, p. 588). La scelta totalmente realistica e 'credibile' di
Visconti risponde ad esigenze diverse: solo un potente coinvolgimento avrebbe
reso la forza del testo e fatto emergere la sua valenza polemica. Non poteva
quindi permettersi di accentuare l'aspetto ludico e parodico del testo, la sua
artificiosità ironica attraverso il ricorso al grottesco perché avrebbe
funzionato da distrazione straniante che avrebbe annullato l'impatto emotivo:
era proprio il suo ossessivo ed eccessivo realismo sul palcoscenico a fare
della sua messinscena una novità nel panorama teatrale italiano. "Alla
lettura il dramma appare di toni estremamente ambigui. [...] suona estremamente
falso, equivoco, pieno di sospetti: non per nulla lo stesso autore avverte,
nelle battute dette dai suoi personaggi: <<questo è mèlo>>,
<<questo è Labiche>> (Ibidem), mentre Visconti tende a renderlo
assolutamente accettabile e il pubblico è "preso ai lacci della favola
ch'è tutta fitta e non gli dà quartiere, preparata e giustificata particolare
per particolare con minuzia meticolosa" (Ivi, p. 589).
87. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 115.
88. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 72.
89. In
Solange sembrerebbero quindi sovrapporsi i personaggi di Maddalena e di Yvonne,
madre-amante del figlio o di una sua figura speculare. Non a caso Solange dice
a Massimo che potrebbe essere sua madre, e aggiunge: "je te garde, je te
soigne, je te protège, je t'aime" (J. COCTEAU, La machine à écrire,
in Théatre, vol. II, Paris,
Gallimard, 1976, p. 150), sottolineando il suo atteggiamento materno. Avendo
per amante Massimo, il figlio Claudio si troverà in una situazione normale
(diversa da quella di Michel nei Parenti terribili) tanto che a lei
"trouvera naturel qu'il tombe amoureux" (Ivi, p. 158), battuta in cui
fa capolino il pericolo di Yvonne.
90. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 48.
91. Ibidem.
92. Il
giovane viene da Fred definito, a causa delle conseguenze della permanenza in
provincia, come sempre "sombre, nerveux, secret, menteur, comédien,
faible, têtu, adorable" (J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théâtre,
cit., 129).
93. Ivi,
p. 162.
94. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 48.
95. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 54.
96. J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théatre,
cit., p. 104.
97. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 51.
98. G.
GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio),
in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 44.
99. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 48.
100. J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théatre,
cit., p. 205.
101 In
entrambi i testi siamo di fronte ad uno scombussolamento dei generi canonici,
perchè La machine à écrire si muove tra commedia, farsa, tragedia e
dramma, introspezione psicologica mista a rivendicazioni sociali e morali su di
un palinsesto poliziesco, il tutto trattato con distaccata ironia alternata a
serietà d'intenti. Continua anche in questo testo la difficile ricerca di una
adeguata espressione teatrale, che torna sui suoi passi, sulle tracce di forme
vecchie che diventano un ritorno al boulevard: "boulevard veut dire gros
public. Et c'est au gros public que le théâtre s'adresse [...] Le
problème du théâtre consiste [...] à créer un malentendu: ne renoncer à aucune
de nos prérogatives, et atteindre cette masse mystérieuse [che è il grande
pubblico]".(J. COCTEAU, La machine à écrire, in Théâtre,
cit., p. 103). Allora il testo stesso diventa una falsificazione, un
inseguimento di se e del pubblico
perché il segreto del teatro è barare, creare artificialmente le condizioni di
un malinteso, e la Machine è un grosso malinteso che confonde tutte le
piste per essere solo teatro e spettacolo.
102. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 81.
103. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 150.
104. Ibidem.
105. Ivi, p. 107.
106. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 77.
107. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 53.
108. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 46.
109. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 54.
110. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 59.
111. ANOUILH Jean, Antigone, Paris, La Table Ronde,
1988, p. 82.
112. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 60.
113. Ivi,
p. 59. Il testo antico emerge sporadicamente nelle parole di Antigone, e
"quando l'Antigone di Anouilh ne pronuncia alcune poche di Sofocle [...],
è come se si fosse aperto per un attimo tutto un immenso sfondo luminoso, a
ridarci, con un confronto tremendo, il senso del pamphlet in cui, dall'antica tragedia, siamo andati a
precipitare" (Ivi, p. 60). Della tragedia originale, il testo francese
sembra un ridicolo bignami che getta luce ancor più dubbia sulla moderna
Antigone.
114. Antigone
è vicina a Ludwig, come lui bisognosa d'assoluto che rifiuta la vita come le è
stata definita, ma che si muore inutilmente inseguendo immagini assurde e
lontane, vane illusioni del tutto simili ai sogno del re di Baviera. In
Elisabetta risuonano parole ("prince sans histoire") e significati,
inviti alla prudenza e alla rassegnazione che sono anche di Creonte, ma che non
vengono ascoltate dai protagonisti, accecati dal loro (pur comprensibile)
sogno. Parlando della guerra, Ludwig sottolinea che i suoi alleti come i suoi
nemici sono tutti suoi parenti, suoi cugini: "noi facciamo tutto in
famiglia, facciamo le guerre e i matrimoni. Facciano i figli. Siamo incestuosi
e fratricidi, senza sapere perchè" (L. VISCONTI, Ludwig, Mega Film-Cinétel-Dieter
Gaissler Filmproduktion-Divina Film, Italia-Francia-Repubblica Federale
Tedesca, 1973. Trascrizione personale). La stirpe dei re d'Europa è dannata,
come quella di Edipo: è una grande famiglia dissoluta all'interno della quale
tutto è fatto, che non ammette fughe, legata ad imprescindibili, soffocanti
ripetizioni che non autorizzano a vivere liberamente. Il lamento di Ludwig fa
eco a quello di Elisabetta che consiglia prudentemente al cugino di dimenticare
i sogni di ruolo per attenersi al suo ruolo di re, già scritto e delimitato:
"i regnanti come noi non hanno storia: servono di parata. Ci dimenticano
presto, a meno che non ci diano un minimo d'importanza assassinandoci"
(Ivi). Vittime della propria condizione, della propria identità, della famiglia
e delle sua ancestrali tradizioni, eleganti pupazzi che non possono pretendere
di vivere.
115. J.
ANOUILH, Antigone, cit., p. 115.
116. Ivi,
p. 11.
117. "Pour moi", è
l'unica motivazione del suo comportamento che è capace di dare a Creonte. Forse
vi è anche il bisogno di riscattare in modo plateale il suo aspetto
insignificante di ragazza brutterella, piccola, taciturna e magrolina, dimessa
e senza altre ambizioni.
118. J.
ANOUILH, Antigone, cit., p. 123.
119. G.
GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio),
in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 47.
120. J-P. SARTRE, Huis clos, Paris, Gallimard,
Collection Folio, 1972, p. 92.
121. Ivi,
p. 40.
122. Ivi,
p. 41.
123. Ivi,
p. 91.
124. Ivi,
p. 47.
125. Ivi,
p. 88.
126. Ivi,
p. 89.
127. J-P.,
L'esistenzialismo è un umanesimo, a cura di Franco Fergnani, Mursia,
1985, p. 51.
128. "Io
sono ateo, ma ciò non significa che non mi ponga dei problemi morali, anzi. Me
li pongo con la piena consapevolezza di ciò che comporta perchè non delego alla
divinità la decisione di ciò che è giusto o errato: me ne assumo
consapevolmente la responsabilità. Se colpe ho, non si riscattano col
pentimento [...] o con punizioni. Io sono un uomo libero, la terra è la mia
sola patria perché non ci vivo provvisoriamente: la mia storia comincia e
finisce qui. Io non ho un inferno da temere né un cielo in cui sperare. [...]
E' una soluzione che affronta la verità dell'esistenza e non cerca rifugio
nella fede, in un Dio confezionato dalla nostra fantasia e che in un'altra vita
assegna il premio o le pene" (L. VISCONTI, L'Innocente, Rizzoli
Film-Les Films Jacques Leitienne-Société Imp. Exp. Ci.-Francoriz Production,
Italia-Francia, 1976. Trascrizione personale).
129. L.
VISCONTI, La caduta degli dei, Praesidens
Film-Pegaso-Italnoleggio-Eichberg Film, Svizzera-Italia-Repubblica Federale
Tedesca, 1969. Trascrizione personale.
130. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 62.
131. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 59.
132. Ivi,
p. 60.
133. Ivi,
p. 62.
134. Ivi,
p. 60.
135. Ivi,
p. 59.
136. Ivi,
p. 62.
137. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 65.
138. Dice
Caterina: "è pieno di contraddizioni, Massimo. E piace proprio per questo.
Sembra tanto forte ed è debole, sembra sincero ed è bugiardo; è pigro e si alza
alle quattro del mattino per portarmi in campagna; è goloso, e si metterebbe
a dieta per otto giorni si gli dicessi
che ingrassa; é bello e non lo sa; è simpatico e non sa servirsene. Vuol
imparare tutto ed ha orrore dei libri. E' violento e sempre mezzo addormentato.
E' la tigre che si crede un gattino. E' un bambino un po' pazzo. Lo adoro"
(M. ACHARD, Adamo, Torino, Società Editrice Torinese, 1946, p. 53)
139. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 60.
140. Ivi,
p. 62.
141. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 65.
142. "Ma
allora noi assistiamo alla fine di un dramma. [...] Del resto, [la sconosciuta]
ha proprio l'aspetto di una creatura da dramma" (M. ACHARD, Adamo,
cit., p. 15).
143. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 60.
144. Ivi,
p. 62.
145. G.
GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio),
in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 61.
146. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 77.
147. Ivi,
p. 80.
148. Ivi,
p. 73.
149. P-A.
Caron de BEAUMARCHAIS, Il matrimonio di Figaro, Torino, Einaudi,
1943, p. 56.
150. Cfr.
S. D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 88-89.
151. P-A. Caron de BEAUMARCHAIS, Il matrimonio di Figaro,
p. 158.
152. Ivi, p. 154-155.
153. A. BAZIN, Jean Renoir, cit., p. 138. Una
crisi di coscienza che proviene da una forte presa di coscienza della società,
come anche in Visconti. Nella Règle, Renoir dà la perfetta espressione
del suo ideale di spettacolo, quel "drame gai" (Ivi, p. 67) in bilico
tra tragedia e commedia che è parte importante del suo stile e della sua
personalità. Al contrario (ma non poteva esserci completa sovrapposizione),
Visconti tende più volentieri al melodramma tragico, maggiormente consono alla
sua personalità.
154. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 80.
155. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 88.
156. G.
GUERRIERI, Luchino Visconti: l'esordio teatrale (dai Parenti al Matrimonio),
in AA. VV., Visconti: il teatro, cit., p. 61.
157. Ibidem.
158. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 82.
159. Ivi,
p. 83.
160. Ivi,
p. 93.
161. ibidem.
162. Ivi, p. 100.
163. Ivi,
p. 86.
164. Ivi,
p. 95.
165. vi, p. 94.
166. G. BATY, Crime et châtiment, in "La petite
illustration", n. 640 (théatre n. 331), 2 settembre 1933, p. 6.
167. L.
VISCONTI, Ludwig, cit.. Trascrizione personale.
168. Da
appunti manoscritti di Visconti sul personaggio, riprodotti in AA.VV., Album
Visconti, a cura di Caterina D'Amico de Carvalho,
Milano, Sonzogno, 1978, p. 96. Vi sono delineati alcuni tratti fondamentali del
carattere del Raskolnikof viscontiano; oltre a quelli suddetti, troviamo:
"critica sociale intellettualistica" e "impulso sotterraneo
egoistico".
169. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 100.
170. Ivi,
pp. 100/102.
171. Ivi,
p. 103.
172. G. BATY, Crime et châtiment, cit., p. 23.
173. Se
Sonia 'era' la sorella, ora si identifica con la madre, le due figure femminili
vicine a Raskolnikof, ma che egli non può infangare con la confessione che invece
fa a Sonia la quale, allora, diventa entrambi i personaggi, la sua intera
famiglia. Rimane ancora, essendo Sonia amante di Raskolnikof, un'aria d'incesto
(con la sorella, con la madre) che è sintomatica dell'attaccamento dell'uomo
alla famiglia e della sua incapacità ad ottenere un'autonomia psicologica.
174. G. BATY, Crime et châtiment, cit., p. 24.
175. Ivi,
p. 27.
176. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 131.
177. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 122.
178. J.
ANOUILH, Euridice, in "Il dramma", n. 50/1, Anno 23 (nuova serie), 15 dicembre 1947, p. 16.
179. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 63.
180. J.
ANOUILH, Euridice, cit., p. 38.
181. Ivi,
p. 22.
182. All'atto
IV, il Padre chiede a Enrico se è "viaggiatore di commercio", ed
Enrico gli risponde: "esatto" ( cfr. Ivi, p. 35).
183. L.
VISCONTI, Il mio teatro, p. 123.
184. Ibidem.
185. Ivi, p. 122.
186. S.
D'AMICO, Palcoscenico del dopoguerra, cit., p. 203.
187. Ivi,
p. 201.
188. Ivi,
p. 202.
189. V.
PANDOLFI, L'esperienza e l'arte di Jean Anouilh, in "Il
dramma", n. 50/1, Anno 23 (nuova serie),
15 dicembre 1947, pp. 11-12.
190. Ivi,
p.12.
191. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 78-9.
192. AA.
VV., Visconti: il teatro, cit., p. 94.
193. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 150.
194. Ivi,
p. 104.
195. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 72.
196. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 138.
197. Ivi,
p. 147.
198. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 80.
199. Ivi,
p. 77.
200. L.
VISCONTI, Cinema antropomorfico, in AA.VV., Visconti: il cinema,
cit., p. 34.
201. J-P.,
L'esistenzialismo è un umanesimo, a cura di Franco Fergnani, Mursia,
1985, p. 52.
202. Ivi,
p. 63.
203. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 63.
204. J-P.,
L'esistenzialismo è un umanesimo, cit., p. 64.
205. AA.
VV., Leggere Visconti, cit., p. 137.
206. Ivi,
p. 138.
207. AA.VV.,
Visconti: il cinema, cit., p. 76.
208. Anche Cocteau dichiara di voler "rester extérieur à
l'oeuvre, de ne défendre aucune cause, et de ne pas prendre parti" (J.
COCTEAU, Les parents terribles, cit., p. 10).
209. J-P.,
L'esistenzialismo è un umanesimo, cit., p. 51.
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