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di antonio fabbri

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Excursus veneziano: cronaca parziale di una Mostra.

(1994)


 

       Zigzagando tra le pellicole presentate alla "51. Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia" (1-12 settembre 1994) e passate sugli schermi italiani, oppure in attesa o senza alcuna speranza di programmazione.

 

       Lamerica di Gianni Amelio (in concorso: osella d'oro per la regia; premio Pasinetti per il miglior film; menzione speciale del Consiglio Internazionale del cinema; Prix Ocic; Premio Cicae) è un'opera ambigua. Già esternamente, esso sembra la facile riproposta della formula felice de Il ladro di bambini, con in più il notevole supporto finanziario messo a disposizione dai Cecchi Gori, dove la scelta dell'Albania propone un tema scottante e di indubbia attualità, capace di condurre il film tra le fila di un vago "neoneorealismo" in voga, ma con l'aggiunta del sigillo autoriale impresso da Amelio (e il trailer incoraggia una lettura di questo tipo). Ma una pura operazione speculativa del genere è invece contraddetta dal film, che pur partendo da queste basi, arriva a ben altro.

       Soprattutto, Lamerica non è un film realistico. Lo sfondo è indubbiamente tale, e se l'uso di comparse vere tra gli attori professionisti porta a ripensare agli stilemi del vero neorealismo postbellico, Amelio utilizza questo prezioso materiale per sfondare la realtà circostante e, in fondo, nemmeno raccontare l'Albania: utilizza il cinemascope (formato del tutto anomalo per il cinema italiano), ciò che automaticamente dà un taglio epico ed 'americano' alle inquadrature; sfrutta le immense capacità di Luca Bigazzi per fotografare il paesaggio concreto trascinandolo ai limiti dell'irreale e del fantastico; racconta una storia che dai presupposti precisi della cronaca contemporanea, diventa a poco a poco un viaggio nel tempo e nella storia d'Italia, sebbene si svolga tutto entro lo spazio dell'Albania di adesso, ricollegando il passato fascista al presente affarista tramite il personaggio del vecchio soldato e la sua confusione che lo ha bloccato ai 20 anni e alla urgente necessità di un rientro in patria; impone imprevedibili svolte alla trama, dislocando la centralità del personaggio di Lo Verso (eco di Placido all'inizio, risucchiato dagli eventi in seguito) e provocando un continuo rinvigorimento della suspense narrativa, poiché la situazione affrontata -e la storia narrata- è continuamente cangiante e dirotta in modo imprevedibile lo sbocco conclusivo; infine, Amelio denuncia la natura di finzione del proprio lavoro, per evitare che esso possa esser letto come vampiresco sfruttamento della presente situazione albanese di cui comunque offre un onesto affresco.

       In Philadelphia, un successo della passata stagione cinematografica, film volutamente didascalico al fine informare con gli atout della fiction il grosso pubblico americano sul pericolo della discriminazione da Aids, Hanks viene affiancato, per almeno due volte, in cima e in coda al film, da veri malati, in modo tale da onestamente ribadire la finzione della malattia e la sua funzionalità alla narrazione; l'utilizzo di un vero malato terminale, oltre che produttivamente rischioso, sarebbe stato moralmente discutibile, e soprattutto si sarebbe risolto, dal punto di vista strettamente cinematografico, in un documentario sulla morte in atto, annullando, assorbendoli, qualsiasi significato o messaggio ulteriore.

       Allo stesso modo, Amelio, sullo sfondo dell'Albania, retrodatata al 1991, impianta un corpo estraneo e del tutto 'italiano', che racconta anche -ma in parte- l'ex paese comunista, ma senza pretendersi esaustivo o inappellabile. E a questo fine, egli sfrutta con intensità e frequenza l'artificio dello sguardo in macchina, capace di rivelare la convenzione cinematografica e metterla in crisi: quando guarda il paesaggio albanese, Amelio evita di proporre soggettive dei personaggi, preferendo mostrare l'azione di guardare assieme alla verità di ciò che vedono, senza il ricorso all'artificiosità di un montaggio classico di campi e controcampi, ma con un palese effetto di straniamento. La pellicola si conclude inoltre su una serie di eloquenti e silenziosi primi piani di profughi albanesi in rotta verso l'effimero ed inesistente 'miracolo italiano' oltre l'Adriatico propagandato dalla tv, in un'appendice apparentemente superflua alla narrazione. Questa successione di volti si trova però al termine di una progressiva trasformazione della natura stessa dei due personaggi protagonisti protratta per tutto l'arco del film, durante il quale, non solo Lo Verso, perdendo la speranza di un differente rimpatrio, smarrisce la parola e infine l'identità, ma anche, con insistenza sempre più evidente, è ribadita la somiglianza del giovane con il suo compagno di viaggio, fino alla loro definitiva identificazione. Entrambi allora, non solo fisicamente, confluiscono nella folla albanese sul battello, dove si confondono del tutto nel generale anonimato, e dove la loro storia finisce.

       La conclusione de Lamerica, in quei volti enigmatici e smagriti, propone l'inizio di un altro film da farsi, un vero film sull'Albania, il cui punto di partenza necessariamente è la fine de 'Lamerica' e di ogni altra illusione (anche registica), e che può essere affrontato solo dopo una catartica perdita di sé, analoga a quella vissuta dai due personaggi, che sola può preludere ad una onesta visione e successiva narrazione: Amelio esplicitamente la suggerisce, senza mai debilitare l'intensità emozionale del suo film, non cimentandosi però personalmente nell'impresa perché, come ha dichiarato, egli non ha voluto fare un film sull'Albania, ma "un film fortissimamente autobiografico" su suo padre, partito in guerra in Albania durante il fascismo, lasciando, come il vecchio, un piccolo figlio a casa, e sull'emigrazione, di cui le navi straripanti poveri sono significativo e raccapricciante emblema. 

       A sorpresa vince importanti premi Il toro di Carlo Mazzacurati (in concorso: leone d'argento ex-aequo; coppa Volpi per miglior attore non protagonista a Citran). Molto ben fatto, il film è svolto con grande e sensibile efficacia, e tende a privilegiare le sfumature senza perdersi in digressioni estranee al racconto o in sbavature volutamente poetiche. In ogni sua parte il film racconta, spesso suggerendo, molto evocando, senza mai esagerare, con un'ottima direzione degli attori.

       E' un road movie che si ricollega ironicamente all'origine western del genere (con il topos dei mandriani obbligati al trasbordo di un animale), ma che non è la storia di un'amicizia virile, che non ritrae una semplicistica fuga dai problemi e dalle responsabilità, e non vuole inserirsi nel filone dell'impegno civile o di denuncia, né tanto meno in quello espressamente realistico (ci sono molte velate notazioni 'fantastiche'), e soltanto sfiora i generi noti ed i relativi luoghi comuni per poi definirsi una propria peculiare identità.

       E sono interessanti alcuni punti di contatto con Lamerica, già sin dal tema del raggiungimento di un sogno inafferrabile (il denaro ed il benessere che fughi gli stenti), ma di cui sono vittime due italiani. La trama avanza a tappe, procedendo parallela al viaggio che qui ha un fine preciso (la vendita del preziosissimo toro rubato), e si avventura nella terra bruciata dei paesi dell'est, lambendo la guerra jugoslava e la confusa decadenza post comunista.

       Il personaggio di Abatantuono si modifica e incattivisce lungo la strada, con lo smarrirsi delle illusioni, e si guarda intorno istupidito ed impotente come Lo Verso nel film di Amelio. Egli perde via via ogni rispetto per l'animale che si trascina appresso, guardandolo sempre più come un bene da piazzare nel migliore e più proficuo dei modi. Più alieno dalle modifiche è il Loris di Citran, affezionato al toro non in quanto pura fonte di lucro, rispettoso della natura e dei suoi ritmi, meno astuto e più concreto, e tale da formare con il compagno una coppia di clown tristi ed antitetici. I due personaggi sembrano la versione meno spregiudicata e molto più improvvisata dei due loschi trafficanti interpretati da Lo Verso e Placido in Lamerica, ma intimamente più umani e sofferti: ad Amelio non interessa approfondire le loro ragioni poiché funzionali solo ad avviare ben altra storia; Mazzacurati preferisce un tono smorzato ed intimo, l'elegia rispetto all'epica, e l'assoluta attinenza agli elementi di partenza, raccontando davvero le peripezie di un mite toro da riproduzione diventato inopinatamente simbolo di un fulgido sogno di facile e sbrigativa ricchezza presto svanito a contatto con il vero mondo esterno. Ma in entrambi i film, quello che si racconta è l'inadeguatezza italiana agli sconvolgimenti europei, l'indifferenza colpevole (nessuno dei personaggi conosce la storia recente), se non proprio una forma di interessata complicità, in Mazzacurati evidente forse più sullo sfondo dei meschini traffici internazionali che nell'essenza dei protagonisti (come sempre nel suo cinema), agiti dagli eventi. 

        Con Da qualche parte in città (Panorama italiano), il milanese Michele Sordillo, dimostra di aver benissimo appreso la lezione di Soldini in L'aria serena dell'ovest, da cui mutua il protagonista (Ivano Marescotti) riservandogli una parte affatto analoga, l'ambientazione (una Milano metropolitana, ma lontana dai luoghi canonici palesemente riconoscibili), la collocazione sociale della coppia protagonista (in crisi), in cui le antiche aspirazioni artistiche di lei sono represse ed il lavoro del marito noiosamente ripetitivo e senza gratificazione, ma soprattutto lo stile (e data la qualità del film di Soldini, si tratta di un pregio): l'uso sistematico di una rigorosa presa diretta e un'ottima direzione d'attori; il prevalere dell'imponenza invadente dei silenzi sui dialoghi e la preferenza a suggerire moti interiori più che enunciarli a parole, raffrenando così l'espressione esplicita di sentimenti e malesseri che i personaggi stessi comunque non affrontano; non risolvendo completamente la sceneggiatura ma lasciandovi varchi attraverso i quali l'irresolutezza della vita vera possa penetrare. Ma al film manca lo spessore metafisico della fotografia di Bigazzi che poteva silenziosamente trascendere l'esiguità interiore dei protagonisti.

       L'Albania torna marginalmente in causa nel film a vago simbolo dell'impossibilità effettiva di redenzione dal benessere e dall'alienazione del mondo occidentale. La comunicazione latita tra i due coniugi, e quella timidamente intrapresa con l'albanese naufraga nella diffidenza e nei sospetti di frode e furto, nelle generiche incomprensioni, sino allo scoppio della violenza e la colluttazione tra il povero ed il suo benefattore, ponendo fine ad una convivenza impossibile che male celava la certezza di superiorità (sociale nonché civile) dei due italiani. Ed ironicamente, proprio da un pestaggio da parte di due giovani, Marescotti aveva all'inizio salvato l'albanese, per in seguito offrirgli la sua disponibilità a trovargli un lavoro (dirige un'agenzia di collocamento) e prestargli un piccolo monolocale sfitto di proprietà della moglie, in un conato di altruismo (ma aveva rifiutato di cercare lavoro ad un amico, morto poi suicida) che è l'epifania di sotterranei ed insormontabili rigurgiti egoistici. Il profugo albanese nota con triste ironia che l'Albania, da paese ospite dei soldati italiani in guerra, è adesso costretta a chiedere a sua volta rifugio ad un'Italia avente nel frattempo raggiunto l'agiatezza economica: e l'atteggiamento dei coniugi italiani conferma che, se in 50 anni la storia si é rovesciata, l'albanese appare sempre un sospetto invasore.

       Egli diventa, nelle mani di due personaggi mossi da un impeto di pietà e generosità a cui non sembrano (più?) avvezzi, il capro espiatorio delle loro tensioni e frustrazioni, le quali fugacemente emergono ad un livello di timida coscienza per essere presto appianate, senza essere radicalmente risolte: la presenza dell'albanese riaccompagna i personaggi verso l'anelato riordino delle loro vite borghesi ed il conseguente riequilibrio del rapporto matrimoniale, tamponando ed anestetizzando le ferite rimaste comunque aperte, così rifuggendo dall'inevitabile conflitto. 

       Presente e passato instaurano un ponte ed una comunicazione in Dichiarazioni d'amore di Pupi Avati, dialogando idealmente e letteralmente nel contesto del film, che passa con poetica disinvoltura dall'oggi al 1948 in cui si svolge in massima parte la storia. Tra l'ieri e l'oggi dei personaggi si viene a definire un rapporto reale ed immaginato, attraverso i ricordi in flash-back di un adolescente di allora, adesso adulto, e immagini della recente vita di una donna, basate sulla memoria e in parte ricostruite dalla lettura di un trafiletto di cronaca, che è fonte di tutto il percorso mnemonico costituente il film.

       La donna è destinata a morire con modalità che solo in fine scopriremo, mentre il suo destino è già in incipit preannunciato: ciò fa sì che il film risulti tutto circondato da una cappa funesta, riverberata all'interno non solo dall'eco della guerra (nei ricordi traumatici di un professore, nel ritorno ad una fabbrica distrutta visitata più volte in solitario dal protagonista da piccolo, nella morte del fidanzato della zia, oppure nell'altra morte di una più vecchia zia), ma anche dal complessivo ripristino di un mondo del tutto trascorso e solo una volta vitale, dall'affiorare di rimpianti che non possono trovare soluzione o medicina, in un triste tentativo di riesumazione di vita e ricordi passati fatto per riprendere una comunicazione interrotta e fors'anche del tutto dimenticata, se non fosse artificialmente spronata da quel breve resoconto di cronaca nera locale (esattamente come in Stand By Me di Rob Reiner; la struttura generale del film sembra inoltre tornare a Una gita in campagna dello stesso Avati, in cui la morte è motrice della memoria). La vita sembra ulteriormente svanire con la sofferta e inaccettata menopausa della donna, sintomo del definitivo trapasso della giovinezza e -letteralmente per lei- preludio alla morte che incombe. Nel suo rifiuto del presente, la ragazza di allora si rifugia nel ricordo dei vecchi amanti con cui si sorprende a dialogare e che continuano a viverle attorno giovani come un tempo. Così, il passato con le sue immagini e suoni entra nel presente, mischiandosi ad esso in un amalgama convulso e ingannatore, mentre anche il bambino da adulto cerca tracce della donna nella memoria, per condurre con lei un ipotetico ed impossibile dialogo.

       Eppure il film coinvolge lo spettatore con insolita leggerezza, e dimentica la morte che lo abbraccia per intero, grazie alla vivacità infantile del protagonista, forse minata nella felicità e spensieratezza dal dubbio e dal contrasto dei sentimenti, creando non pochi spazi di riso e sorrisi. Esso rintraccia i ricordi di un Quarantotto vissuto nel microcosmo di un palazzo di Bologna che tutto pare riassumere e racchiudere, in una quasi bozzettistica rappresentazione di personaggi tipici e situazioni comiche con battute buffe, articolando il racconto in episodi sostanzialmente separati, come ripescati senz'ordine nè gerarchie nella memoria, procedendo per blocchetti di annotazioni non compiute che spesso indugiano in dettagli minori, destinati a suggerire più che a raccontare compiutamente: come già in Radio Days di Woody Allen, tutto è poi accompagnato e tenuto insieme da molta musica di repertorio che invade la colonna sonora allo stesso modo in cui aveva, in quell'immediato dopoguerra, occupato il precedente silenzio forzato delle strade cittadine, ciò che Avati tiene a sottolineare.

       E' impossibile non pensare ad Amarcord, per la costruzione prevalentemente mnemonica e l'ambientazione principalmente scolastica, sebbene priva di quell'aura di fiaba grottesca che l'estro fabulatorio di Fellini sapeva forgiare (ed inserita nell'ancor più grottesca assurdità del regime), con un minore spostamento nel fantastico e l'attinenza ad una cifra più realistica, ma in cui i salti temporali appaiono più vistosamente suggestivi e sorprendenti, poiché il passaggio spesso subitaneo dal presente al passato non è sempre legato ad una cesura di montaggio, e rientra nel tentativo di ricreare un unicum nel fluire di pensieri ricordi e sentimenti, in cui gli elementi più buffi o apparentemente ludici rivelano una filigrana tragica e triste, convogliando tutti i personaggi in una danza macabra il cui senso ultimo è misteriosamente nascosto nello sguardo vacuo e divertito del folle comandante di Delle Piane, e dove i ricordi sono insieme antidoto e alimento della morte, segnalando il tempo trascorso e l'impossibilità di riafferrarlo nell'inutilità complessiva della sola passiva evocazione che invece pare rivitalizzarlo. 

       In Before the Rain (in concorso: leone d'oro ex-aequo; premio Pasinetti per miglior attore a Rade Serbedzija; Premio Fipresci ex-aequo; Premio Kodak opera prima; Premio Cinemavvenire 1994; Segnalazione "Cinema for Unicef"), nell'esordio cinematografico dopo una florida carriera di autore di clip musicali e spot promozionali, il macedone Manchevski torna alla sua terra, ma memore dello stile della passata esperienza audiovisiva. L'impostazione delle inquadrature è infatti consueta, ed inedita è soprattutto la struttura, volutamente artificiosa, e l'abilità nel riuso della sinteticità degli spot, oltre all'impegno e all'interesse per una terra altrimenti tralasciata dal cinema.

       Dalla pratica pubblicitaria, Manchevski riprende la sveltezza nel delineare le situazioni ed i personaggi (rischiando però lo stereotipo), l'insistenza su una fotografia bella ed intimamente emozionante, la diffidenza nei confronti delle parole, e la rapidità del montaggio, tendenti a delineare atmosfere e far percepire sensazioni, più che raccontarle espressamente, ricercando una sintetica fluidità che raggiunga con svelta chiarezza il proprio obiettivo. Non gli serve né interessa dilungarsi su dettagli o puntualizzazioni: la stessa complessa ed esplosiva situazione macedone è data per nota, e lo spettatore, al pari dei personaggi, deve entrarvi a posteriori, quando ormai essa si è autonomamente (ma forse non irrimediabilmente) composta: antefatti e conseguenze si percepiscono soltanto, perché si cura esclusivamente del blocco unitario del presente.

       E le correlazioni cronologicamente illogiche tra gli episodi del film, illuminano prologhi ed epiloghi altrimenti assenti, che a loro volta danno senso a ciò che è stato mostrato, riproponendo a livello di struttura il disagio e la confusione in cui si trovano implicati i personaggi: un giovane monaco silenzioso per voto ed improvvisamente innamorato di una profuga omicida; un fotografo di successo (suo cugino) che abbandona la carriera e l'amante londinese per tornare in Macedonia; la sua compagna, incinta, che decide di lasciare il marito: tutti si trovano di fronte a scelte decisive, e tutti diversamente affrontano la medesima violenza della morte, ciecamente imposta dalle ferree leggi del caso e dell'odio etnico, e contro le quali, nolenti o meno, si trovano costretti a reagire.

       Before the Rain è infatti un trittico in cui un evidente paradosso temporale rompe la scontata consequenzialità degli eventi, ribadita da una frase ricorrente nei tre episodi sulla illusorietà della circolarità del tempo ("il tempo non muore mai: il cerchio non è rotondo") e dal riecheggiare della medesima canzone alla radio, affermando implicitamente la possibilità di una reazione attiva, in quanto risultato di una volontaria ribellione. E la ribellione alla consuetudine imposta o autonomamente in precedenza scelta, è il tema ricorrente nei tre episodi ("Parole", "Facce", "Fotografie"), tra loro intricatamente correlati ma dalla successione contraddittoria, e rappresenta l'unico scampo alla tragedia collettiva, benché il costo possa essere il sacrificio personale, cercando di rompere un cerchio apparentemente ineluttabile sul quale si conclude il film, riprendendo in conclusione l'avvio del primo episodio. 

       Il rapporto con un passato volutamente dimenticato, si ritrova nell'esordio del neozelandese Lee Tamahori Once Were Warriors (Finestra sulle immagini), che indaga il sottoproletariato maori inurbato riuscendo a fondere l'attenzione e l'impegno di Ken Loach ad uno stile prossimo a quello di Spike Lee, con accensioni cromatiche forti, un montaggio ritmico, l'invadenza di una colonna sonora rock, in una storia -come sempre più o meno apertamente nel lavoro del cineasta nero di New York- di colpevole perdita delle proprie radici culturali che rasenta la perdita della propria dignità personale, infine ritrovata assieme alla rivalutazione dell'imprescindibile retaggio ancestrale, prima soffocato da un tentativo doloroso e fallimentare di occidentalizzazione.

       La rudezza realistica delle immagini coabita con il tratteggio 'cartoonistico' di alcuni personaggi minori (potenziato dall'uso quasi costante del grandangolare) che tinge di ironica assurdità l'aberrante universo metropolitano degradato ed estremamente violento che circonda i protagonisti, ma paradossalmente senza inficiare la sincerità dell'assunto o la credibilità della vicenda, al cui centro presenta una donna maltrattata da un marito da cui fatica a staccarsi e del quale è suo malgrado ancora innamorata. La (forse troppo emblematica) presa di coscienza dell'imbarbarimento dovuto all'inurbamento, scaturisce dall'inarrestabile disgregazione della famiglia, per imposizione burocratica, per necessità di fuga, per incompatibilità insormontabile con l'ambiente. Siamo a volte vicini ai temi di Ladybird, Ladybird (la povertà, la cieca violenza dell'uomo sbagliato, l'ottusità delle istituzioni governative nella tutela dei minori), o ai toni più apparentemente leggeri di Piovono pietre, al materiale tipico di Ken Loach, ma riletto con un occhio cinematografico attento nel comunicare un simile intento 'documentaristico' innegabilmente impegnato e al contempo desideroso di trovarsi uno stile evidente, iperrealistico e non sotteso (abituale invece nel regista inglese per potenziare il contenuto dei suoi film), più chiaramente violento ed aggressivo, o ironico ai limiti del grottesco, trasferendo anche nella forma l'anelito ad una 'modernità' alla quale i protagonisti non conoscono o non sanno trovare alternative: forse in modo troppo didascalico la vicenda si risolve nel recupero della più profonda e vera identità maori, ma la credibilità degli interpreti e della vicenda, e la partecipazione mai cinica del regista coinvolgono molto efficacemente lo spettatore. 

       Di ambientazione carceraria è il lungometraggio di Alkinos Tsimilidos, Everynigth... Everynight (Finestra sulle immagini), che ritrae una decisiva rivolta contro la repressione del regime carcerario vigente in Australia, molto insistendo sull'efferata violenza delle guardie, a cui il protagonista risponde con un insensato rifiuto, con una folle astrazione, "dando le dimissioni" ed alienandosi volontariamente, opponendo a tutto un caparbio "no". Il percorso cristologico del personaggio, che 'rinasce' con questa nuova consapevolezza e riesce a diffonderla tra i suoi compagni (fino al necessario sacrificio, ma non suo, che farà iniziare le indagini delle autorità), richiama alla memoria Scorsese, il quale predilige figure cristiche o simbologie religiose e non disdegna insistere sulla scioccante evidenza della violenza: bianco e nero e ralenty rimandano a Toro scatenato, il corpo tatuato del personaggio centrale (sulla cui schiena spicca una croce) rievoca il personaggio centrale di Cape Fear, simile anche nella caparbia volontà di vendetta.

       Il film, con certa rozzezza, doviziosamente illustra le brutalità subite dai carcerati ma rinuncia ad una veritiera progressione psicologica e a sfumarne le graduali trasformazioni, spezzando la narrazione in blocchi spaziati da dissolvenze in nero e bruscamente contrastanti con il precedente, tanto da accomunare carcerieri e spettatori nella sorpresa della repentina mutazione del protagonista che ritrova subitamente l'aggressività della parola e la volontà, dopo la passiva sopportazione dell'arbitrio del manganello e il conseguente annichilimento di ogni ipotesi di reazione. C'è però il rifiuto di idealizzare eccessivamente i prigionieri cercando una cifra stilistica veritiera (poiché di storia vera si tratta) che si accompagna ad una certa staticità della macchina da presa (in spalla solo nelle scene più brutali e movimentate), sebbene gli spazi vengano dilatati e deformati dall'uso costante del grandangolare: le didascalie finali raccontano il seguito delle loro vite e delle azioni criminali compiute, frenando ogni possibilità di astrazione, limitandosi ad una concreta denuncia che espressamente obblighi lo spettatore, urtandolo, ad una reazione. 

       Fin troppo amore per il cinema altrui traspare in Somebody to Love di Alexandre Rockwell, autore del buffo In the Soup e attore per Moretti in Caro Diario, che mette in fila luoghi comuni e citazioni da registi e film famosi, attraverso espliciti riferimenti (il finale modellato su Le notti di Cabiria che prelude alla stucchevole dedica "To Federico and Giulietta"), l'utilizzo di attori feticcio (Harvey Keitel, Anthony Quinn), comparsate d'autore (i cameo di Sam Fuller o Quentin Tarantino) e di evidenti riprese stilistiche (le dissolvenze incrociate in sequenza tipicamente scorsesiane), il tutto con un tono complessivo da commedia amara, cosparsa di buone intenzioni sociali ed impegnate (l'ambientazione losangelina del sottoproletariato 'latino' in quanto denuncia della vera origine messicana della città), per dimostrare, forse all'Industria cinematografica degli Studios o forse a sè stesso, la propria capacità di far cinema, barcamenandosi tra stili e toni disparati, abile nel dirigere attori o concepire scene interessanti, e sufficientemente colto da citare il buon cinema americano ed europeo. Ma l'originalità, ricercata con esasperazione all'interno di una precisa tradizione cinematografica orgogliosamente indipendente, non traspare, affogata tra omaggi e imprestiti. Emerge evidente invece il narcisismo, che gli fa piazzare il manifesto di In the Soup in un bar, o la volontà stessa di appropriarsi del cinema dei beniamini (Cassavetes, Scorsese, Fellini per citare i più vistosi) per proporne una summa moderna, che vaga indecisa tra la commedia grottesca e la tragedia d'amore, il film di gangster e il dramma sociale, l'assurdo e l'iperrealismo, parlando della perdita di ogni ambizione e della sofferenza della delusione, tra taxi-dancer e malavitosi, attorucoli mancati e immigrati disoccupati, con la pretesa di miscelare sempre i generi, utilizzare stereotipi o trovate bizzarre e buffe di sceneggiatura per produrre poesia (pesantemente segnalata nei suoi momenti topici dalla musica 'aliena' di Enya, che a più riprese impone allo spettatore di leggere come necessariamente poetiche molte sequenze), cercando di rimanere vicino al cinema (Hollywood) per poterne parlare direttamente e lamentarsi del suo degrado, come nel precedente film. 

       Bulletts Over Bradway é il nuovo film di Woody Allen, nel quale il regista newyorkese, con un diverso stile, riprende la tematica già alla base di Ombre e nebbia, ribaltandone la tesi, concludendo -senza esito né sintesi del dilemma- un ideale dittico: nel dissidio tra la vita e l'arte, nel precedente film prevaleva l'arte, rifugio e unica scappatoia (fantastica, oltre lo specchio) da un'esistenza inquieta e frustrante, bene rappresentata dai toni esplicitamente espressionistici di un bianco e nero letteralmente giocato sulle ombre e il loro fluttuante ondeggiare nella nebbia; nella sua nuova prova, Allen fa invece prevalere la vita e la sua comica imprevedibilità sull'arte: ma il tono è decisamente buffo, e se i temi seri ci sono, tale è il brio nel presentarli o, meglio, suggerirli, da non  rendere necessario un vero approfondimento, perché il film solo li sfiora e la preoccupazione del regista sembra altrove, facendoli rimanere, sebbene perennemente evocati, come un elegante ed esibito sfondo intellettuale, sopra il quale evolvono personaggi stereotipati in cerca di una consistenza psicologica effettiva.

       Come in Ombre e nebbia, o in Misterioso omicidio a Manhattan, il film si risolve nel puro e divertito gioco formale che situazioni e personaggi offrono ad Allen, attraverso cliché ed omaggi. Qui il referente diretto é Billy Wilder, soprattutto con A qualcuno piace caldo (ambientazione gangsteristica e tono farsesco), ma anche Sunset Boulevard (la diva decaduta in cerca di una nuova ribalta, amante del giovane autore), ciò che fa di Allen, come sempre, un ottimo plagiario zeppo di abilità nel cucinare nuovi divertenti dialoghi su situazioni in prestito.

       La strana originalità del film risiede soprattutto nella scelta formale di teatralità totale: non solo tutto è talmente esasperato da apparire falso, ma falsa è anche la fotografia di Di Palma, gialla e rossa e dall'illuminazione prevalentemente frontale, e lo stile di ripresa, privo di primi piani, con l'assoluta preminenza di campi medi ed il  sistematico ricorso alla profondità di campo, grazie alla quale i molti attori, spesso contemporaneamente in scena, sono diretti coreograficamente insieme, mentre la macchina da presa, privilegiandoli a turno, tralascia temporaneamente gli altri fuori campo. Nel disagio per il taglio di montaggio che il film trasuda, la macchina da presa si trova così a scandagliare con vaste panoramiche lo spazio che le si presenta innanzi (a volte la soccorre lo zoom) e nel tempo reale del piano sequenza, ad immagine della condizione dello spettatore in sala a teatro; ed è questo totale, forse ingombrante, mimetismo con la scena ad occupare il film, il quale rimane sempre ad una tale distanza dai personaggi da impedire qualsiasi partecipazione emotiva, a dispetto della ineccepibile bravura degli interpreti: lo spettatore si riconferma spettatore potenziato al quadrato, di una finzione teatralmente amplificata, mentre un tentativo di messa in scena teatrale effettivamente occupa il set del film. L'abile formalismo di Allen riempie ed esaurisce tutto il cinema a disposizione di quest'elegante opera buffa. 

       Di simile impianto teatrale è il dibattito amoroso tra Mme de Staël e Benjamin Constant in Du fond du coeur di Jacques Doillon (Eventi speciali), che appare di sorprendente attualità in un film ambientato a cavallo tra il Diciottesimo e Diciannovesimo secolo, ed anomalo per un autore decisamente a suo agio in abiti e dialoghi contemporanei, spesso con bambini o adolescenti protagonisti. Sorprende non tanto il linguaggio, già ben poco settecentesco, quanto soprattutto le tematiche, realmente riprese dalla corrispondenza dei due, sulla coppia e la reciproca libertà, sulla educazione dei figli, il matrimonio ed il divorzio, l'inevitabilità del tradimento e la fedeltà ai sentimenti, l'incomprensibilità della passione d'amore e il tentativo deludente di razionalizzarla, la convivenza difficile tra amore inossidabile e un rapporto inevitabilmente intermittente: non sembrano personaggi datati, ed il film stesso, per la sua impostazione apparentemente teatrale, in cui è palese una diffidenza per i tagli di montaggio che Doillon pare condividere con Allen, contribuisce ad ulteriormente attualizzare, estraendola dal fluire temporale, la vicenda sentimentale dei protagonisti.

       Pur occupandosi di una relazione durata diciotto anni, il film non mostra l'invecchiare dei corpi ma solo il mutare o perdurare dei sentimenti: il tempo è raccontato e detto, come lo stesso rapporto amoroso, analizzato e sezionato con scrupolo intellettuale in una serie di confronti a due in interni domestici in cui gli attori sono accompagnati da mobili carrelli laterali insistenti sui volti, e da una quasi totale assenza di commento musicale (come sempre in Doillon e in genere nel cinema francese) il quale interviene soltanto negli stacchi in nero che sezionano con ellissi temporali la continuità del rapporto. Versione condensata di un montaggio più ampio di sei ore, il film nasce come produzione televisiva per sperimentare le possibilità di riprendere in alta definizione e poi, eventualmente, oltre lo sfruttamento televisivo, di trasferire il girato su pellicola per una distribuzione cinematografica, con qualità analoghe e risparmio nell'uso della sola elettronica: ma un film come questo, di soli precisi dialoghi, comporta un livello di attenzione difficilmente raggiungibile nell'attitudine alla distrazione che accompagna la fruizione sul piccolo schermo. 

       Love and Human Remains di Denys Arcand (Notti veneziane) è la fedele trasposizione del un testo teatrale omonimo di Brad Fraser sull'angoscia urbana ed esistenziale derivante dalla impossibilità di concepire o afferrare il senso o l'esistenza stessa dell'amore. In bilico fra cinismo esasperato inasprito dall'umorismo e la tragedia, il film ritrae un mondo di entrate ed uscite, brevi incontri, appuntamenti mancati oppure deludenti, di scelte inappellabili e sbagliate dove non circola molta speranza, e tra suicidio, omicidio o Aids si digradano le differenti sfumature della morte. I diversi personaggi, protagonisti di nuclei narrativi separati ed intersecantesi, si rincorrono tramite il telefono o la segreteria, il mondo parla loro con la televisione, ma quasi non vi è tra gli uni e gli altri effettiva comunicazione.

       La presenza di un serial killer tra i personaggi principali diventa manifestazione tangibile di una minaccia oscura e imminente, ed introduce all'interno di una commedia di costumi (il genere preferito da Arcand) l'ingrediente del thriller che scurisce ulteriormente i toni in una sorta di "Canadian Phycho", parafrasando il titolo di un libro di Bret Easton Ellis (e Bret è il nome del maniaco omicida), in cui tutti sono belli e persi, dannati per autonoma scelta o condannati da altri. Unico fulcro di speranza è la formazione di un anomalo nucleo familiare fondato sulla volontà d'amore, e che porta a concludere il film su un filo tenue di ottimismo con la precaria dichiarazione "I love you", subito annullata dall'annuncio di un'altra morte a breve scadenza.

       Ma il tono complessivo è leggero, sebbene il film offra un ampio campionario di minacce mortali, come leggera é la mano di Arcand nel raccontare un ennesimo declino del mondo occidentale. Prevale l'umorismo triste, che ravviva a fuoco lento il disagio esistenziale generale, non permettendogli così di esplodere completamente, in un mélo sadomaso sull'indecisione amorosa aspirante ad un romanticismo che sente inadeguato e soltanto lenitivo, non radicalmente curativo ma irrinunciabile in modo assoluto e disperato. Rispetto ad un Almodovar, on cui condivide l'ambientazione gay e la tematica di fondo tipiche della prima produzione, il film manca forse degli sprazzi stilistici consueti per il regista spagnolo, conservando però una simile propensione per l'assurdo ed il grottesco. 

       Violenza e morte, desiderio omicida e di espiazione sono la base di Natural Born Killers di Oliver Stone (in concorso: Premio speciale della giuria; premio Pasinetti per la migliore attrice a Juliette Lewis), il quale, con esibita spregiudicatezza, sfrutta tutti i possibili trucchi, ottici o digitali, e sotterfugi cinematografici a disposizione dalle origini a oggi, dalla sovraimpressione al morphing, per cercare di dare un'approssimativa idea della psicologia dei due personaggi e mostrare, in immagini e suoni, il fluire convulso e confuso dei loro pensieri (a confronto con la realtà delle loro azioni in un dualismo insistito), le ingenuità aberranti e la crudeltà evidente, riscattata solo da una innocenza apparentemente irremovibile: da questo punto di vista, il film mostra molti elementi in comune con Cuore selvaggio, simile road-movie con due protagonisti in fuga per le strade di un'America disastrata. Ma nel film di Lynch, i due personaggi erano perseguitati dalla malvagità e mantenevano intatta la loro innocente genuinità, mentre nell'opera di Stone, essi non vedono altra manifestazione di vita che la violenza, efferata e gratuita. Esiste nelle loro confuse menti un vago progetto di emancipazione e riscatto tramite la violenza ed il delitto alieno dal senso di colpa, del tutto assente dai due infanti cresciuti di Lynch, che li rende dei veri criminali, a cui nulla toglie il difficile retaggio di giovinezze dolenti e, come in ogni film americano vagamente intriso di psicologismi, fonte di ogni trauma o comportamento deviato.

       Ed è interessante il gioco di Stone nel cercare di ricreare il puzzle dei loro pensieri attraverso la commistione di linguaggi disparati, senza il timore di ibridarli in una sintesi rapidissima ed efficace che scardina le tradizionali coordinate cinematografiche in uno zapping parossistico, accaparrandosi così una totale libertà di invenzione stilistica, sfruttando un montaggio quasi subliminale (e pertanto non più 'narrativo' in senso stretto), l'uso di differenti colonne sonore, di rapidi passaggi dal bianco e nero al colore, dal video alla pellicola, inserendo brani di cinema preesistenti o canzoni in funzione esplicativa, ripescando lo stile della sit-com per raccontare l'infanzia della ragazza.

       La televisione, importante nella formazione del distorto immaginario di cui i due personaggi sono vittima, si rivela progressivamente il fulcro vero del film, inizialmente tramite un montaggio in parallelo delle loro gesta e la ricostruzione che troupe televisive ne fanno per trasmissioni sui più feroci criminali; in seguito, quando, dopo l'arresto, il set cinematografico diventa quello di una vera trasmissione televisiva e le due linee narrative si riuniscono, l'interesse di Stone si riduce ad imputare banalmente di tutto, ed in modo genericamente confuso, la televisione ed i media in generale, come istigatori di modelli di vita acriticamente e sibillinamente imposti, sin quasi a riabilitare i due poveri protagonisti.

       Questa facile e fin troppo sommaria denuncia del regista, che nella seconda metà del film, tra poliziotti assatanati, aspiranti assassini, carcerieri selvaggi, telecronisti spregiudicati e folli, cerca di dipingere, sfruttando appieno il grottesco ed una recitazione esageratamente sopra le righe, un mondo esterno ben peggiore dell'universo intimo dei due maniaci omicidi, fa infine rapidamente perdere qualsiasi interesse al film, in una frenesia di dimostrazione assoluta e perentoria che è tipica di Stone. La tesi dell'invadenza totalitaria dell'influenza dei media, e tra questi della preponderanza della televisione, è peraltro un ulteriore punto di contatto con Cuore selvaggio, dove però essa traspariva in filigrana senza emergere con la volgare preminenza della demonizzazione di Stone, il quale finisce vittima di una ripetitività, evidenza ed invadenza tipicamente televisive. E di Natural Born Killers, oltre a molte scene girate con la consueta efficacia che quasi mai trapassa nella pura bellezza, rimane solo il travolgente iniziale effetto 'otto volante' che risucchia e stordisce lo spettatore, ma che prelude ad una complessiva delusione, a cui contribuisce anche la saturazione per l'eccessiva ripetizione dei medesimi espedienti. 

       Anche in Forrest Gump di Robert Zemeckis (Notti veneziane) la mitologia recente ed in prevalenza diffusa dai media (e, tra questi, principalmente dalla televisione) viene evocata, ma con un personaggio che attraversa tutti i luoghi comuni americani, illeso nella propria astratta e confusa innocenza. Egli non vive intimamente ciò che lo circonda, ma da tutto si lascia trascinare indifferente, come una piuma dal vento (è l'immagine che apre e chiude il film, e lo riassume), in tutta semplicità. A volte il personaggio pare rievocare il Chance Giardiniere di Oltre il giardino di Ashby, soprattutto quando attraversa correndo gli Stati Uniti diventando egli stesso un mito ed un riferimento per molti, ma a sua insaputa e senza calcolo alcuno, per caso, semplicemente, ed ogni sua azione sembra illuminata da un senso superiore ed estraneo ai più proprio perchè intimamente priva di significato: ma Forrest non è un novello messia, e non camminerà in fine sulle acque. Egli percorre gli sconvolgimenti ed i più importanti eventi americani recenti senza mai fermarsi a pensare, senza assorbirli o viverli intensamente, ma scivolandoci sopra leggero, a differenza di Jenny, l'amore della sua vita, la quale vive invece in piena sintonia con il mondo esterno che incide con violenza su di lei. Jenny rappresenta con evidenza il contraltare realistico di Forrest, a cui toccano le tappe di una via crucis esistenziale e sofferta, una dolorosa presa di coscienza da cui l'amico d'infanzia è esonerato: dalla loro sintesi potrà alla fine nascere un nuovo Forrest -jr- migliore.

       Questa trama permette a Zemeckis di riuscire in un film totalmente in sintonia con la sua produzione precedente, per la prima volta a confronto con un prodotto realmente hollywoodiano, per lunghezza (140 minuti) e vastità di narrazione (30 anni di vita americana: in altre parole, il regista accetta il luogo comune complessivo del kolossal sociale, con tanto di ridondanza musicale, eccessi di dolly, bella e toccante fotografia, etc.), attraversando tutta la nota mitologia collettiva americana, da Elvis al Vietnam, dalla droga all'utopia pacifista, dall'affermazione personale al successo economico, riproponendo la tipica sovrimpressione di realtà e fantasia che lo caratterizza. La cifra stilistica peculiare di Zemeckis (qui evidente sia nel complesso che nel dettaglio della narrazione) è infatti la ripetizione variata, fonte di comicità ed ironia: a questo fine, egli mischia felicemente, attraverso accurate sofisticazioni tecnologiche, Forrest ed il mondo, fisicamente inserendo l'immagine (di sintesi) del personaggio tra le riconoscibili icone del suo tempo, entro uno spazio virtuale con cui il personaggio possa interagire. Ciò ovviamente prelude all'utilizzo intensivo di molti luoghi comuni, ripresi ed echeggiati dal cinema, dalla televisione, o da ogni altro mezzo di cominicazione di massa, tutti inseriti nel topos complessivo incarnato da Forrest, che rappresenta con sorridente acritica serenità, l'american dream nell'american way of life.

       E sebbene il film sia inondato da effetti speciali perfettamente invisibili e miranti alla 'verosimiglianza', gli anni che trascorrono poco invece si incidono sul volto di Tom Hanks, lasciato sostanzialmente inalterato: gli anni pesano altrove, non su di lui che li percorre e basta, anche ad essi indifferente, avanzando per la sua strada letteralmente di corsa , ma senza accumulare stress nè preoccupazioni, dotato solo di buone gambe con le quali scappare e correre altrove, e riuscendo sempre in ciò che gli viene suggerito o ordinato perchè del tutto privo di asfissianti ambizioni o della semplice capacità di mettere in discussione le direttive ricevute: egli raggiunge benessere economico e popolarità partendo dal nulla, ma soprattutto a nulla mirando, minando così l'essenza stessa del mito americano dell'uomo che si costruisce con la sola forza della volontà. Inserendo un personaggio stolto entro un paesaggio umano di non esemplare brillantezza o eccezionalità, Zemeckis riesce forse in una satira sociale che rivela un anticonformismo più sottile ed efficace di quello affannosamente cercato dal personaggio di Jenny. 

       Lo straripante secondo episodio delle avventure spionistiche di Harrison Ford, alias Jack Ryan, un burocrate suo malgrado sulle orme di James Bond, è, come consuetudine per Phillip Noyce, un high-tech thriller, dove le nuove tecnologie occupano uno spazio vistosamente predominante. La trama di Clear and Present Danger (Notti veneziane) infatti fatica a tenere insieme i diversi centri narrativi, che occupano letteralmente tutta la superficie del globo, ed il regista si affanna a cercare di condensarli tutti in modo comprensibilie e vagamente realistico in una pellicola comunque di 141 minuti, in cui Harrison Ford trova difficoltà a ricavarsi uno spazio degno del suo rango di protagonista incontestabile.

       L'azione principale si svolge a Washington, dove Ryan cerca di sdipanare un losco intreccio innescato nell'ufficio accanto dal suo stesso collega, su diretta disposizione del Presidente degli Stati Uniti, e mirante a distruggere tutto il cartello dei signori della droga in America Latina attraverso l'uso di un piccolo esercito superaddestrato in incognito e teleguidato tramite un intermediario (Willem Dafoe). A complicare ulteriormente le carte, interviene una spia al soldo dei colombiani che sfrutta la confusione della guerriglia voluta dal governo statunitense per accaparrarsi il monopolio del commercio degli stupefacenti a danno degli stessi magnati della polvere bianca. Il complesso é tenuto insieme solo dal montaggio parallelo ed alternato che descrivono uno spazio ed un tempo virtuali, in cui il cinema quasi non riesce a condensare il racconto, insinuando la sua incapacità a inseguire ed esplicare narrativamente, se non con estremo sacrificio o artificio, il progresso tecnologico, il quale invece rende possibile la funzionale immediatezza della comunicazione e permette alla trama di avanzare.

       Computer, telefonini, duelli telematici, contatti radio, ponti telefonici, missili balistici, voli intercontinentali, dirette televisive, impianti di pedinamento acustico e simili altri congegni intervengono ad unificare un'azione dissipata nella contemporaneità, dando forse un'idea realistica del moderno spionaggio eminentemente elettronico (in Giochi di potere, opus primo della serie interpretato da Ford, la scena più intensa ed interessante vedeva Ryan assistere impotente e silente sugli schermi dei computer ad un'azione di guerra condotta nel deserto africano e semplicemente teleguidata in tutta sicurezza ed anonimato da Washington), ma in un film in cui il regista, costretto a raccontare così tanto, si limita a suggerire spazi autoriali non ulteriormente approfonditi: la continuità sul tema della sorveglianza a distanza, in un voyerismo dilatato a comprendere tutto il mondo, una esibita (problematica?) ambiguità ideologica, la citazione da Caccia ad Ottobre Rosso (primo film, a firma di John McTiernan, del personaggio di Ryan, col volto però di Alec Baldwin) con l'esibizione della convenzione della lingua inglese fatta parlare anche dai non anglofoni ma dopo un breve pezzo in originale; assonanze di scene suggerite con la successione al montaggio che le carica di reciproco significato; la somiglianza tra Ryan e la spia colombiana che sfocerà nel classico faccia a faccia finale, però diversamente risolto con l'esecuzione del cattivo da parte di Defoe (Ford tiene a sottolineare che il suo personaggio non imbraccia mai un'arma, per non sporcarsi le mani con la violenza che il film comunque contiene), mano armata degli americani: del resto è tipica del film una delega dell' 'azione', poichè le avventure coinvolgono sostanzialmente i coprotagonisti secondari.

       Il film, che si vorrebbe versione corretta e moderna del genere spionistico classico, cerca una forte credibilità nelle avventure e nel personaggio di Jack Ryan, che non è né vuole essere un supereroe, e subordina la trama e il macchinario tecnologico in dotazione ad una generica attendibilità. Ed il senso ultimo del film sta nella denuncia delle insidie politiche di Washington ("Watch your back, Jack", gli viene consigliato nel momento della trasferta nella cittadella del potere), di cui l'azione non è che conseguenza e dimostrazione, un'appendice chiarificatrice: Clear and Present Danger è un film che si vuole 'politico' -sebbene la sua accusa sia quanto mai generica-, ed in questo senso è un film di spionaggio, e a tratti un film d'avventura,  ad immagine del suo protagonista, uomo d'intelletto più che d'azione, meglio a suo agio ad una scrivania e dietro ad un computer che in prima linea. 

       Del tutto felice di trovarsi nei panni di un novello James Bond e di prendere in prima persona direttamente parte all'azione è invece Arnold Schwarzenegger, il cui film gioca a citare ed espropriare di idee e convenzioni la saga della spia inglese, accavallando riferimenti e imprestiti nel primo quarto d'ora, con un susseguirsi di strizzate d'occhio. True Lies di James Cameron (Notti veneziane) offre un adattamento americano della famosa spia al servizio di Sua Maestà diverso da quello di Jack Ryan perchè propone una sintesi tra un film di spionaggio ed azione classico (con tanto di armentario tecnologico fantascientifico a disposizione, bella antagonista femminile, banda di fanatici terroristi atomici, inseguimenti in jet supersonici) senza mai cercare una presunta credibilità, ma, al contrario calcando pesantemente il pedale dell'ironia, puntando direttamente nel pieno degli stilemi e dei cliché della serie, ossequiosamente rispettati; questi sono in più ibridati dall'interno con una vicenda da commedia degli equivoci di ambientazione domestica (ricavata da La totale di Claude Zidi). Pertanto il superagente si maschera, per motivi di sicurezza, da uomo medio, si imborghesisce, diventa marito fedele e noioso venditore di computer, mentre la moglie sogna avventure e diversivi alla monotonia domestica. Il film risulta vistosamente tripartito, con due porzioni d'azione e la sezione centrale dedicata ai problemi coniugali, ma che prelude al necessario coinvolgimento della moglie nell' 'avventura' e permette alla commedia di intrufolarsi negli interstizi della spy-story per ulteriormente movimentarla, il tutto coprendo però circa due ore e venti. Nell'ultima parte del film, compagna d'armi e di vita, a tutto vantaggio del ménage familiare, diventa proprio la moglie, con un'inedita variante della Bond-girl, e ciò implicitamente ribadisce la necessità dell'affermazione del valore della famiglia nel cinema statunitense, anche in quello potenzialmente "trasgressivo" come il filone spionistico: pure Giochi di Potere vedeva affiancate al protagonista la moglie e la figlia, coinvolte loro malgrado nelle avventure del pater familias e costrette a difendersi, con molta efficacia (questo aspetto "familiare' è invece tralasciato da Clear and Present Danger, già in difficoltà con il solo andamento della storia, relegando la sempre presente Ann Archer ad un ruolo decisamente marginale).
      
True Lies si risolve nella volontà di superare, condensandoli insieme, i precedenti film di Bond, a completo vantaggio della esibita e voluta spettacolarità (è il primo film della nuova casa di produzione di effetti speciali di Cameron, e l'invisibilità dei trucchi rende il film un colossale catalogo per eventuali ulteriori acquirenti), la copertura comica permettendo inoltre di disinnescare il pericolo dell'efferatezza e della violenza gratuita.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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