La
prima cosa che viene in mente pensando al movimento cinematografico della
Nouvelle Vague è la libertà. Una libertà variamente declinata che si diffonde
su ogni versante della comunicazione cinematografica, dalla sintassi alle
tematiche, dalla costruzione narrativa agli aspetti produttivi. Fu un periodo
felice, euforico per il cinema francese e divenne il nucleo radiante di un
anticonformismo che, nel passare degli anni, contaminò le altre cinematografie,
europee e non, mentre il nocciolo originario andava progressivamente
spegnendosi. Perché, se in Francia la Nouvelle Vague sbocciò, con prodromi più
o meno attribuibili al movimento, nel 1959, con il successo contemporaneo dei Quattrocento colpi e dei primi due film di Chabrol, e
deve considerarsi tutto sommato conclusa al massimo verso il 1965, la sua
influenza emigrò a partire dagli Anni Sessanta, contagiando, a varie ondate,
Italia, Polonia, Cecoslovacchia, Stati Uniti, Brasile…,essa si trovò in
perfetta sintonia con un'istanza di generale e generazionale rinnovamento che,
anche in questi paesi, andò facendosi largo nello stesso periodo e, in alcuni
casi (il Free Cinema ad esempio), fu addirittura
precedente alla fioritura francese. Perché i mezzi tecnici del cinema erano
cambiati e si erano alleggeriti (poca luce e piccola troupe di amici bastavano
per girare), perché il regista non aveva bisogno di attenersi ad un testo
drammaturgicamente strutturato secondo dati canoni per fare un film e perché i
produttori, visti alcuni promettenti primi risultati, erano pronti a
scommettere su altri giovani, i quali, a loro volta, osavano trovare i mezzi
per finanziare autonomamente i propri lavori. L'importanza della Nouvelle Vague
francese fu certo alimentata e potenziata dall'autorevole viatico dei «Cahiers du Cinéma»; il prestigio internazionale della
rivista fece assumere ai suoi ex-collaboratori (Truffaut, Chabrol, Godard,
Rivette, Rohmer, per citare i più noti) un ruolo preminente all'interno di un
movimento ben più ampio e troppo spesso offuscò gli altri registi coevi o le
cinematografie parallele.
I
ragazzi della Nouvelle Vague non erano approdati casualmente al cinema. Dietro
all'emergere del movimento vi era, innanzitutto, la complicità carbonara di chi
in silenzio confessava l'indicibile passione per una forma di espressione fino
a quel momento considerata mero e stolto divertimento. Il cinema non era arte,
non era niente. Eppure l'amore di questi giovani doveva avere una ragion
d'essere, una dignità nascosta. La "politique des
auteurs" (definita sulla pagine dei «Cahiers» nel periodo in cui
questi autori erano ancora critici) si sviluppò per dare rilievo e
rispettabilità al cinema, elevarlo a forma d'espressione artistica andando a
ricercarne le argomentazioni proprio in quell'industria americana dello
spettacolo che più pareva lontana dall'alimentare e permettere la sopravvivenza
di una qualsivoglia ambizione d'arte. Per i "giovani turchi"
esistevano degli "scrittori di cinema", autori che usavano
consapevolmente il mezzo cinematografico per comunicare con lo spettatore
attraverso una precisa sintassi cinematografica, la soggettiva e peculiare
scelta di tutti gli elementi che andavano a comporsi sullo schermo in
successioni ordinate di inquadrature le quali, nel loro insieme, delineavano
una realtà artefatta, condizionata e significante. Venne a definirsi proprio
con gli autori della futura Nouvelle Vague una certa moderna teoria del cinema,
un metodo di analisi dei film, soprattutto una maieutica dello spettatore che
lo rendesse attento alla propria funzione fruitrice. E se un singolo film
poteva così essere analizzato, l'insieme della carriera di regista riusciva
allora, forse, a dire qualcosa di più su quella persona, le scelte estetiche e
drammaturgiche diventavano un indice dei suoi pensieri: doveva esistere una
coerenza interna nella successione delle pellicole, simile a quella che
coordinava la scansione delle inquadrature in un film, dei fulcri d'interesse,
una logica coesione, dei temi portanti. Hitchcock più degli altri rappresentava
ai loro occhi un perfetto esempio di "autore", con temi talmente
ricorrenti da diventare ossessivi, legati a pulsioni profonde e al limite della
psicanalisi, espressi con uno stile visivamente splendido e immediatamente
riconoscibile cui sottendeva, a dispetto della materia trattata, un'evidente
razionalità concettuale, una stilizzazione che permetteva di imbrigliare il
materiale realistico (attori, scenografie, tematiche…), lo sottometteva a
personali codici espressivi e lo plasmava ai desideri del regista. Ogni film di
Hitchcock, infatti, era ed è una limpida lezione di cinema.
I
critici della Nouvelle Vague adoravano il cinema, appassionatamente, passando
giornate intere alla Cinémathèque a vedere film di tutto il mondo e di ogni
epoca, disquisendone infine nel tempo rimasto libero. Questo rappresentò il
loro apprendistato, la loro università, la cui conclusione non poteva che
essere il passaggio alla realizzazione, la stesura di una tesi in forma di
film. Forti del loro studio dei film precedenti, i registi di quel periodo
fecero un cinema che fu coerentemente e coscientemente "post-moderno"
(un concetto poi sviluppato da Godard per tutta la carriera), in cui le
citazioni non erano semplici plagi di altrui precedenti film ma diventavano
l'esplicito rimando a determinate modalità espressive, un omaggio ad un regista
in un calcolato gioco di assonanze di cui si rendeva edotto (e connivente) lo
spettatore. Il riferimento al passato era parte integrante del nuovo cinema, il
passaggio obbligato della sua emancipazione. Bisognava trovare, missando quelli
degli altri, uno stile personale, un modo originale di fare cinema e di
accordarlo ai propri desideri, alle personali aspirazioni e sensibilità.
L'impeto
rivoluzionario portò inizialmente la Nouvelle Vague ad eccessi di
intransigenza, a giudicare sommariamente alcuni colleghi: era la libertà di
scegliersi dei padri putativi all'interno della generazione precedente
prediligendo quelli che potevano prestarsi come modelli comportamentali di
riferimento, in cui cioè fosse rintracciabile almeno la scintilla di quella
autonomia che caratterizzava la loro stessa attività. Tra tutti i registi che
li avevano preceduti, i neofiti parigini volevano fare una cernita, eleggere quelli
all'interno della cui opera fosse possibile sintetizzare un percorso unitario,
una coerenza d'intenti che permettesse infine di rendere rintracciabile una
filologia delle intenzioni e, forse soprattutto, una certa modalità nel
realizzarle: la necessità dell'indipendenza. Ci furono favoritismi, lapidari
giudizi, condanne faziose, un gran dispendio di passionalità (assieme ad una
serie di ritrattazioni a posteriori). E ancora la libertà, appunto, di poter
scegliere, di non voler accettare il cinema come semplice mestiere.
Eppure
la gerarchia dell'industria cinematografica francese di allora ancora
pretendeva che, per diventare registi, si dovesse passare per le forzate tappe
dell'apprendistato, acquisire la necessaria esperienza tramite il passaggio
graduale da secondo a primo assistente per poi, dopo anni di gavetta, meritarsi
la patente di cineasta. Ma com'era possibile pensare che una passione si
potesse considerare un mestiere, che si potesse insegnare a fare cinema, che ci
fosse un modo giusto e uno sbagliato di farlo, e che fosse necessario un
attestato per dichiararsi mestieranti provetti, registi diplomati e non potersi
considerare, autonomamente, autori? Non era possibile. Pertanto era necessario
bruciare le tappe, fare a meno del sistema, inventarsi modalità di produzione
nuove (l'autoproduzione in forma organizzata nasce in quegli anni, e pressoché
ogni regista della Nouvelle Vague fonderà la propria casa di produzione per
garantirsi un margine di autonomia), svegliare l'industria, esigere e guadagnarsi
l'indipendenza. I giovani registi non avevano l'avallo dell'autorità
cinematografica del tempo, ma poco importava questo riconoscimento di
ufficialità se, in compenso, agendo a modo loro, potevano invece perfettamente
riconoscersi nei propri film. Clandestini a bordo, in pochi anni quegli
esordienti degli Anni Cinquanta e Sessanta dirottarono la cinematografia
francese e diffusero l'idea che fosse concepibile giungere prima del tempo
allora considerato debito nella cabina di regia e che, dopotutto, questo
sarebbe stato un vantaggio e avrebbe contribuito allo svecchiamento del cinema
francese.
L'euforia
dell'approdo alla realizzazione, la possibilità di poter finalmente operare
direttamente su quella "materia di cui sono fatti i sogni" dava a
quei registi in erba la libertà di arrogarsi il diritto di stravolgere le
regole, fare di testa propria, usare il jump-cut, il ralenti, il fermo
immagine, ogni possibilità espressiva del mezzo cinematografico. I codici, una
volta individuati e definiti, potevano essere stravolti, spinti avanti, oltre
la classicità, al di là della consuetudine alla ricerca di sfumature inedite,
di espressività nuove. La narrazione non doveva più sentirsi obbligata a
procedere organicamente, architettonicamente ma poteva permettersi anche la
paratassi della giustapposizione affinché il senso scaturisse a posteriori dal
film nel suo insieme. Si poteva, insomma, fare la rivoluzione, liberarsi
dell'ingombro del passato e guardare avanti con maggiore e migliore libertà.
Si
parlava a quel tempo di "caméra-stylo",
dell'utilizzo della cinepresa come penna per prendere appunti, per stilare un
diario. E' vero che molti dei film Nouvelle Vague hanno valore (anche) come
ritratto del loro tempo, che alcuni sono forse talmente disarticolati da somigliare
ad una matassa di annotazioni piuttosto che ad un ordito narrativo
coerentemente tessuto. Ma il termine di Astruc deve forse intendersi in senso
più lato. Non si tratta del solo semplice uso della prima persona singolare,
del parlare di sé in una sorta di impeto narcisistico che trovi espressione in
un esasperato autobiografismo ma, per il regista, di aderire completamente al
film, di fare dell'opera lo specchio sfaccettato della propria personalità, il
riflesso stilistico oltre che contenutistico di sé. Non è quindi strettamente
necessario che l'autore della sceneggiatura sia il regista stesso ma che il
film non si ponga in palese disaccordo con inclinazioni, interessi o passioni
personali, che esprima anche le evidenti antipatie del regista. Questi deve
potersi riconoscere in un'opera, così come un lettore si riconosce in un libro
o si identifica con un personaggio, e a sua volta lo spettatore (o il critico)
può rintracciare nell'opera la mano, lo stile, le tematiche di chi firma il
film. Poiché però assai spesso nelle pellicole della Nouvelle Vague il regista
diventa anche lo redattore della sceneggiatura, in una fuorviante sommatoria di
ruoli distinti, si è forse venuto a generare uno strapotere dell'Autore che, in
breve tempo, ha avuto come conseguenza il soffocamento del cinema medio, ha
tarpato le ali ai professionisti del cinema, a quei cineasti poco inclini
all'espressione personale e più interessati alla mera resa tecnica delle
riprese. Eppure non vi è una radicale antitesi tra il mestierante e l'autore,
come in fondo già dimostrava la "politique des auteurs".
La
Nouvelle Vague portò alla "personalizzazione" del cinema perché il
film era una cosa privata, l'espressione personale del regista. Per quei
giovani agli esordi il cinema si doveva fare e discutere con amici
"fraterni", era l'elemento centrale di una "famiglia" in
cui si aveva la libertà di scegliersi i padri e preferire quelli
"adottivi": il cinema più classico e stantio era definito
spregiativamente "cinéma de papa", ortodosso ad una classicità
impersonale e soffocante nei tempi o nelle modalità di realizzazione, era
inattuale, vecchio, passato. Bisognava, in sintesi, abiurare la propria
famiglia d'origine. Non è quindi forse un caso che il film che più di ogni
altro si identifica con quel movimento sia i Quattrocento colpi di Truffaut, a
sua volta considerato dal largo pubblico il regista più emblematico del
periodo: è la storia di un ragazzo che rifiuta la propria famiglia e anela alla
libertà, evade dalle costrizioni istituzionali (il "riformatorio")
per essere un po' meno infelice, un po' più in accordo con se stesso, a costo
di fare tabula rasa di tutto e di ritrovarsi senza niente e nessuno. Anche
l'altro film paradigmatico della Nouvelle Vague, quell'A
bout de souffle di Godard che imprime al movimento una forza
formalmente prorompente, parla, in fin dei conti, della stessa cosa: è il
racconto di una fuga e il tentativo di raggiungere la libertà, in questo caso
non solo dalla famiglia ma anche, più in generale, dalla società, anche da quella
cinematografica: entrambi questi esordi sono il racconto di una velleità di
emancipazione. Godard, inoltre, introduce in questo contesto una già palese
volontà antiborghese che, nel suo film, si articola a vari livelli: nella trama
(l'amour fou e impossibile di un banditello provinciale per un'americana in
trasferta parigina), nello stile, nel montaggio soprattutto.
In
un contesto preciso quale il cinema di genere (il noir), il regista inserisce
evidenti contaminazioni dall'archetipo americano, riduce i personaggi e le
situazioni a cliché bidimensionali (mentre Truffaut era stato molto attento al
dettaglio realistico delle psicologie) e gestisce la narrazione con modalità
del tutto anticonformiste, sorprendenti, che acuiscono l'ironia beffarda dell'operazione.
Fu un colpo di stato geniale nei confronti del racconto cinematografico
classico giunse ad un perfetto mimetismo tra forma e contenuto. Anche il
complesso dell'opera di Chabrol (sino agli ultimi
film di oggi) esprime una vivace e viscerale critica sociale antiborghese,
evidenziando nella famiglia il nucleo fondante della costituzione sociale della
borghesia. Ma lo sguardo sardonico di Chabrol, figlio di un benestante
farmacista, non contempla mai dall'esterno la sua classe d'appartenenza, non ne
addita le miserie con saccente distanza ma ne denuda i codici e gli artifici
per dimostrare come da quella comoda prigione (mentale e comportamentale) sia,
alla fine, impossibile scappare.
Si
è imputato alla Nouvelle Vague di essere nata rivoluzionaria e morta borghese.
Ma l'andamento parabolico è tipico di tutti i movimenti
"anticonformisti". C'è sempre, inevitabile, il "ritorno
all'ordine", la trasformazione dell'irrequieto ribelle in figliol prodigo,
per ragioni variamente opportunistiche o semplicemente anagrafiche. E del
resto, quando le libertà impresse al sistema diventarono cosa comune, la
Nouvelle Vague stessa divenne la norma e i «Cahiers» la sua codifica. Ma rimane
di quel periodo, oltre alle singole pellicole, all'ampliamento del vocabolario
filmico (e critico), alla sintonia con le altre cinematografie (o all'influsso,
più o meno diretto, su di esse) l'insegnamento che un cinema diverso è sempre
possibile, che la libertà va trovata ed espressa ovunque, e che ricercarla non
è poi così inverosimile.
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