L’ultimo
film di Malick si vuole intensamente sinfonia per immagini, non solo sulla vita
ma anche sui suoi sconfinamenti, sull’origine e oltre il termine, coinvolgendo
l’uomo e la relatività di ogni esistenza terrena nel macrocosmo dell’infinito,
tracciando segnali di prossimità tra l’immensamente grande e la piccolezza
dell’umanità.
Cinema
prepotentemente impressionistico, The
Tree of Life è costruito in massima parte da fotografie animate, tableaux vivants che fanno avanzare per
blocchi di silenzio e di densità emozionale la narrazione residua all’interno
della dinamica di contrasti e di concordie celesti, un condensato di sensazioni
e di suggestioni a cui, per una volta, avrebbe giovato la tridimensionalità per
l’esibita volontà - e necessità - di coinvolgimento dello spettatore.
Poca
trama permane nel racconto della vita che si esemplifica per momenti di
emersione di intensità, accompagnati, ove possibile, dal flusso dei pensieri
del protagonista umano o, in sua assenza, guidati dal solo e silente punto di
vista divino. Perché è la vita che anima una corrente incessante di immagini
che, dall’umano, deviano verso l’inimmaginabile, dal Big Bang arrivano all’oltretomba,
si propongono di vedere nascere e finire nel silenzio la pura materia dopo il
breve intervallo della coscienza umana e della sua peculiare possibilità di
trasformare l’universo in parole -e in inquadrature. La sola coscienza,
infatti, contraddistingue la presenza umana nel vasto creato, ma si perde
mentre la materia si ricicla e passa nel tempo sospeso dal suo computo.
La
visone breve ed esitante di un proprio posto nell’universo non permette
all’uomo la serenità dell’impermeabilità ai sentimenti negativi verso i suoi
simili che lo distrae dall’assenza di senso per condurlo nei meandri dei
dissidi di affetti distonici in cui, troppo spesso, la poca vita residua
ristagna. Contrastato e assecondato, l’amore in molteplici incarnazioni
(fraterno, filiale, materno…) impregna il film nella sua parte migliore e più tangibile,
fatta di piccole tracce di realtà domestica, banale quanto sincera, animata da
poche parole e da molti sguardi, agitata dai tanti gesti inutili e affettuosi.
Senza
un fulcro concreto o un reale protagonista, spostato negli anni tra il passato
dell’infanzia e il futuro sospeso nell’incertezza della premorte (sino
all’evidenza del trapasso), il film cancella la filigrana narrativa con
ambiziose superfetazioni. Lo spettatore viene così trascinato all’interno di un
curioso bignami evoluzionista, si smarrisce nella cronistoria della Terra mentre
il pretesto concreto si sfilaccia nella elucubrazione dell’infinito futuro, sin
dopo la trasformazione del Sole in supernova e la restituzione di tutta la
cenere alla polvere stellare.
Lampi
di vita vera squarciano l’ammasso di volute ipertrofiche, di vertigini
iperboliche che colorano il film di infinito e silenziano la bellezza
nell’eloquenza dell’enfasi. Tra pianeti al collasso, soli in espansione, DNA in
evoluzione, animali in movimento riempiono spesso lo schermo e spaziano verso
l’indecifrabile e l’infinito, ricollegano gli affetti minuti alle cosmogonie accertate
che male celano l’anelito di fede, l’immanenza di una prospettiva divina
dolorosamente sfuggente. E le immagini tentano di immortalare l’incommensurabile
anche all’interno di sguardi rapiti, delle pose mistiche del ritratto materno,
dei cieli incorniciati dagli alberi e degli sguardi trafitti da raggi di luce,
mentre intorno si fa presto sera.
Così
come i pochi protagonisti, anche il film si perde, semina gli spettatori
accecandoli con la bellezza, travolgendoli con flussi di parole e di idee,
cercando di dare concretezza alle astrazioni per trasformarle in immagini
destinate, inesorabilmente, all’oblio, metafisico e meta filmico. Nella
continua ricerca della purezza dell’emozione il film, infatti, costruisce e
racconta il suo fallimento, la discontinuità di quel coinvolgimento imperativo
necessario al trascinamento lisergico che la pellicola postula.
Pieno
di bontà o della sua aspirazione, il film di Malick palesa l’inutilità
dell’astio e, infine, della vita stessa che si spegne in scenari più ampi e
imperscrutabili i quali, tortuosamente, rimandano sempre al divino. The Tree of Life si smarrisce per
eccesso di generosità di un Autore che, modestamente, cerca il sublime,
sublimando però soltanto la forma-film nella docu-fiction allegorica con inserti di libera associazione
impressionistica, da cui si esce irretiti o irritati.
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