Primo
tomo di una trilogia progettata e realizzata da Steven Spielberg e da
Peter Jackson con la tecnica della motion capture e in 3D nativo, il
film inaugurale inizia già come prosecuzione delle numerose
avventure di Tintin, reporter di discreto successo e notorietà,
condensate in una sigla di testa che accentua la terza dimensione, pur
nella linearità e nello schematismo dei disegni. Il passaggio
dalla carta al cinema e alla profondità aggiunta è
già tutto in quella grafica epurata dei titoli iniziali, fatta
di linee e di silhouette, in moto perpetuo su base musicale con
continui passaggi di asse e gioco sulle apparenze.
E la capacità narrativa di Spielberg prosegue nella prima scena,
costruita cinematograficamente per indizi e sineddoche, che introduce
l’ambientazione e la mobilità della macchina da presa,
presenta personaggi già noti con la consueta maestria ironica e,
infine, avvia la stessa narrazione, ormai in medias res per gli stessi
titoli. Perché è già evidente che la trilogia
stessa non è che una concatenazione di avventure,
arbitrariamente suddivise in capitoli che frazionano
un’unità narrativa e visiva instancabilmente continuativa.
È infatti la stessa modalità di ripresa, con
l’avvalersi della combinazione di movimenti catturati e di
accentuazione della tridimensionalità, a fare del film un
imperterrito continuum di azione che la semplice ripresa dal vivo non
avrebbe premesso. Ne risulta la visione funambolica e incessante di un
moto perpetuo, di un arabesco di movimenti di macchina e di personaggi,
in cui ogni fantasia si traduce in realtà simulata. Così
nemmeno il film termina con i titoli di coda, ma avvia immediatamente
il suo seguito con una fittizia soluzione di continuità dovuta
alla distribuzione scaglionata dei tre film.
Ma è il suo stesso virtuosismo tecnico, mirabile per il realismo
di sfondi e per credibilità dell’animazione, a rendere
eccessivo l’insieme, a ricercare con affanno la sorpresa e la
meraviglia come unica forma di comunicazione. E questo stupore indotto
finisce per stancare, per distrarre dalla qualità stessa della
tecnologia, così evidente nel primo piano, per sacrificare il
film, rovinarne la componente puramente cinematografica diventata
accessoria.
Il rocambolesco assunto a norma soffoca il racconto, la tecnologia
tradotta in medium completo e onnicomprensivo assuefa pur volendo
strabiliare, annullandosi a vicenda. Tutto funziona nel film, ma
arranca e si perde per superfetazione e per eccesso, si dilata oltre
l’inverosimile di circostanza per diventare un luna park di
svariate attrazioni, tutte troppo ravvicinate. E la pellicola diventa
un parco a tema nato per stupire e garantire la riconoscibilità
del marchio, non dell’artigiano che lo realizza e che infatti
cambierà al prossimo giro.
Dopo quel mirabile inizio, il film, sebbene tra i migliori sfruttamenti
del 3D, non rimane all’altezza della qualità complessiva
di Avatar e del suo universo avvincente e avviluppante. Il fumetto
prende vita ma la perde precocemente relegando lo spettatore al ruolo
passivo di fruitore infantile, frastornato e rapito nella coazione a
seguire quelle acrobazie della tecnica cercandovi un appiglio di
resistenza e di attrito che continuamente gli sfugge nella
lussureggiante combinazione dei numeri da circo.
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