Film
difficile e denso di materiale, Syriana tenta di costruire un ritratto
poliedrico del mondo contemporaneo, in cui la mondializzazione diventa la
differenza di prospettiva su un medesimo argomento. Strutturato come
un’indagine giornalistica, il fulcro del film si sposta di continuo, alternando
luoghi e protagonisti diversi in sottotrame afferenti e tutte originate, a
vario titolo e grado, si costruisce un prisma le cui diverse sfaccettature si
illuminano reciprocamente in un più definito senso partendo da quella che
potrebbe essere soltanto una notizia marginale sulla pagina finanziaria di
qualsiasi giornale, ovvero l’acquisizione di una società da parte di un’altra.
Ma
un unico elemento, costante ed indelebile, raggruppa tutti i personaggi e ogni
situazione: il denaro, ed il suo possesso. Ossia il potere, con ogni sua
declinazione, come l’ambizione, la corruzione, o l’assenza di scrupoli.
L’effetto domino derivante dall’accorpamento societario acquista rilevanza
geopolitica se le compagnie sono importanti multinazionali petrolifere,
americane e cinesi. Come ogni convergenza finanziaria, l’acquisto comporta la
fuoriuscita di molta manodopera, la cui insoddisfazione può essere sfruttata e
incanalata dalle illusioni fondamentalistiche a fini terroristici. Un emiro
illuminato e indipendente dagli Usa deve essere eliminato per non ostacolare
ottime prospettive di arricchimento ed il perpetuare dello sfruttamento della
popolazione. Le indagini interne degli apparati amministrativi americani
possono essere pilotate da avvocati consenzienti per non intercettare fonti di
lauto guadagno all’ombra della legalità. La CIA lavora al solo interesse
economico dell’America, tralasciando qualsiasi impegno antiterroristico per privilegiare
il fluire delle banconote. Avvocati, operatori finanziari, agenti segreti,
emiri, sottoproletari: nessuno si salva nel quadro generale, ognuno è al
contempo nemico e collaboratore, complice e traditore. Ogni personaggio,
inquadrato nel proprio microcosmo privato e professionale, rimane un coacervo
di contraddizioni, di umanità e arroganza, nel contrastante chiaroscuro degli
affetti e degli interessi. Ogni azione sviluppa conseguenze spesso mortali per
altri esseri umani, le cui vite non sono di alcuna importanza e sacrificabili
sull’altare del dollaro, come sono specularmene strumentali le morti dei
kamikaze immolatisi a richiesta per oscuri principi. Anzi, la consapevolezza
dei propri gesti, l’onestà di comportamento diventa un atteggiamento pericoloso,
come per l’agente operativo in Medio Oriente interpretato da George Clooney, i
cui dubbi diventano elemento di potenziale destabilizzazione dell’ordine
generale. E’ un mondo intimamente conservatore, basato sull’ossessione dello
status quo, che vive in un eterno presente nel quale mai si affaccia la
terrificante ipotesi di un cambiamento, di un nuovo e forse migliore
equilibrio. E la democrazia ha definizione variabile, elastica a seconda del
momento e dell’interesse storico, una facciata sfregiata dai colpi di pistola
ma tenuta insieme dal collante del greggio e della carta moneta. La coscienza è
un lusso che l’economia di mercato non si può permettere, perché gli interessi
sono sempre enormemente superiori al valore di un individuo, al monetizzabile costo
della sua vita, vuoto a perdere nel riciclo dei giochi di potere per il
possesso degli ultimi barili di un petrolio in rapido esaurimento.
A dispetto di tanto imponente materiale, dei
numerosi personaggi con un cast di primo piano in cui è difficile individuare
la preminenza di un nome o di un ruolo, di argomenti impegnativi e di momenti
di evidente tensione, il film ha però un andamento antidrammatico. Il regista
si allontana dalla scena nel momento culminante, lasciando spazio al nero dello
stacco o della dissolvenza, non aggredisce lo spettatore con effetti immediati
ma lasciandogli il tempo e la necessità di una rielaborazione, la libertà di
formarsi un’idea attraverso quelle inquadrature mancanti e un’immagine propria
tramite i nessi da tessere tra le diverse trame.
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