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Star Trek - Into Darkness di JJ Abrams |
Stabilito
l’assioma di innovazione con il primo capitolo della più recente declinazione (o
reboot) di Star Trek, per il successivo film Abrams opta per una diretta
prosecuzione, con vari riferimenti all’episodio inaugurale, i cui eventi
vengono variamente rievocati e i personaggi riproposti, secondo una logica di
continuità tipica della serialità televisiva. Il salto nel tempo della puntata pilota
aveva scaraventato i protagonisti noti nell’universo del possibile, slegando le
vicende dalla stretta osservanza della tradizione, stratificata nei decenni
dalle varie serie e stagioni del franchising
di Roddenberry, e liberando gli sceneggiatori da qualsiasi ortodossia per
lasciare ogni allusione rivestita dall’elegante orpello dell’omaggio e della
citazione. Ma è proprio alla memoria storica, interpretata senza costrizioni,
che si rifà Into Darkness,
amalgamandovi il contenuto del film precedente per inserire più precisamente il
film e il filone all’interno della consuetudine, pur mantenendo ogni licenza di
tradimento sì da stabilire i termini del nuovo canone. Ed
è sotto la cortina fumogena (come esplicitamente ammette il film) di una falsa
identità (John Harrison, interpretato con la consueta verve sardonica di Sherlock
da Benedict Cumberbatch) che si nasconde il vero antagonista, Khan, il
super-uomo geneticamente modificato tre secoli prima, durante le guerre
eugenetiche che hanno devastato la Terra, come si è precisato nelle serie
regolari. E nella trama della sua pellicola Abrams cela quella de L’ira di Khan, il secondo film della
declinazione cinematografica classica, con cui presenta paralleli e simmetrie
più che evidenti. Non solo vi appare il medesimo nemico, proveniente dalla
serie originale, ma vi muore (temporaneamente) uno dei protagonisti, irradiato
per salvare la nave in avaria e ripristinarne i motori, con l’amico che lo
osserva morire al di là di un vetro. Il personaggio di Carol Marcus, con alte
qualifiche scientifiche, è presente nei due film dove suscita l’interesse
personale di Kirk (in quanto passata o, probabilmente, futura compagna). E
nelle due pellicole corpi (defunti o criogenizzati) vengono disposti in loculi
volanti. Non
mancano, ovviamente altri riferimenti sparsi, la citazione della “Prima direttiva”,
ovvero il dogma di non interferenza con civiltà dallo sviluppo tecnologico
inferiore (introdotta però nella continuità soltanto a partire da The Next Generation), così come la
presenza dei Triboli, animaletti pelosi presentati nella serie classica in un
episodio poi rivisitato (con modalità di interazione di nuovi attori
all’interno del filmato originale) in Deep
Space Nine, o come diverse altre allusioni diffuse. Nello studio
dell’Ammiraglio Marcus una sequenza di modellini delle astronavi umane, dai razzi
a stadi successivi sino all’odierna “Enterprise”, dà consistenza fisica alla
sigla di Enterprise che vedeva i vari
passi dell’uomo nello spazio concludersi con il varo dell’omonimo vascello. Lo
stesso Peter Weller aveva partecipato alla serie prequel come terrorista xenofobo intento a cacciare ogni presenza
aliena dalla Terra, mentre ora incarna un Ammiraglio della pacifica Federazione
dei Pianeti pronto a scatenare una guerra interspecie per sconfiggere,
anticipandoli, i bellicosi Klingon. Questi, infatti, si muovono dalle frontiere
del loro spazio occupando un pianeta alla volta per ampliare il proprio impero.
Kahn, infine, vuole riunirsi ai suoi uomini, ugualmente modificati, per
terminare e vincere la guerra contro la razza umana che li aveva prodotti e
sfruttati come soldati implacabili. Razzismo,
genocidio e bellicismo sono gli argomenti di base della trama di Into Darkness, tutti provenienti da
aspirazioni assolutistiche (passate o presenti) che nascondono velleità di
critica politica (o, perlomeno, di polemica) all’interno di una confezione
d’azione perfettamente funzionante nella sua aspirazione da blockbuster. Il timore di un’azione
devastante in risposta ad un intervento militare preventivo si manifesta,
infine, nella devastazione di San Francisco operata attraverso un velivolo
lanciato contro i palazzi della città a mietere vittime e grattacieli, con una
citazione, amplificata dalla spettacolarità e dall’ambientazione futuristica, dell’attacco
alle Torri Gemelle che risuona della traumatizzata inquietudine che pervade
l’immaginario americano dal 2001 in poi e che si riverbera in molte espressioni
cinematografiche e seriali. Il
costante riutilizzo di appigli provenienti dalla mitologia storica delle serie,
recuperati e miscelati al nuovo filone, offre una metafora applicata della
metodologia del reboot, ovvero una
lettura meta-narrativa del recupero sensato di una sedimentazione progressiva a
cui dare nuova linfa romanzesca e aggiornamento stilistico. Si tratta del
principio di variazione sul tema, base della logica del racconto ad episodi,
evoluto nella serialità televisiva matura che costruisce su premesse date
racconti successivi che si rinnovano senza mai (nel migliore dei casi) negare
il passato che, così, diventa memoria arricchita dal presente della narrazione.
Ancora una volta il film termina con la sigla della serie classica, a cui ridà
l’avvio. Se in Star Trek – il futuro ha inizio, si citava il
viaggio impavido verso luoghi mai prima visitati dall’uomo, adesso si fa
riferimento all’altra parte dell’introduzione originale, con il progetto di
un’esplorazione quinquennale nello spazio profondo che apre i prossimi capitoli
ad avventure spaziali in sfere volutamente extraterrestri e vero preludio alla
declinazione più classica della serie. Lo iato tra le due pellicole era stato
riempito da alcuni volumi di fumetti che, con la modalità tipica della
narrazione seriale espansa, si inseriva nell’universo di riferimento creato dal
film per svilupparvi altre storie e condurre i protagonisti alle vicende di Into Darkness, come probabilmente albi
analoghi riempiranno la pausa d’attesa del prossimo film. Se
nella scena dell’assalto al Comando della Federazione sembra rinvenire un’eco
dell’attacco ai capi mandamento mafiosi riuniti all’incipit del Padrino: parte III, Abrams non si nega
allusioni più o meno adombrate a Spielberg, nell’inseguimento iniziale svolto
per tono (ironico) e ritmo (sfrenato) alla maniera di Indiana Jones, con tanto di sovrimpressione a ricalco, non della
montagna della Paramount ma delle forme dell’astronave. Ma è soprattutto
all’amata saga di Guerre Stellari a
cui si allude spesso, poiché la navicella usata da Kirk per l’incursione nello
spazio Klingon è modellata sul Millennium Falcon e la copertura pensata per
entrare in territorio nemico è di spacciarsi per contrabbandieri, porprio come
Han Solo; mentre le forme dei siluri fotonici rievocano invece il muso dei
caccia di Star Wars e
l’anti-Enterprise “Vengeance” è nera come il planetoide artificiale al comando
di Darth Veder (e Marcus è, alla stregua di Annakin Skywalker, un padre
degenere). Al termine della post-produzione è arrivata ad Abrams la proposta di
dirigere il prossimo capitolo della nuova trilogia di Guerre Stellari. Una sola persona (un singolo autore) si troverà
così al comando delle due più famose saghe stellari dell’immaginario
contemporaneo, con inaudite convergenze tra opposte space opera: l’esplorazione illuministica dello spazio pensata da
Roddenberry e il misticheggiante feudalesimo spaziale modellato sul fantasy arturiano creato da George
Lucas, con, ancora una volta, la necessità della fedeltà e della libertà
d’interpretazione. La
regia naturalmente dinamica di Abrams, con momenti di pura esaltazione ritmica
(come nell’antefatto che, come sempre in Abrams, fa partire il film in medias res), scene movimentate e uno
sfondo credibile, si avvale dell’ironia nell’uso delle fonti e nell’amalgama
con i privati riferimenti ad un universo personale riconoscibile per i fedeli
appassionati. Il rovinoso dirottamento della “Vengeance” cancella la prigione
di Alcatraz, così come l’omonima serie prodotta dalla Bad Robot era stata elisa
dai palinsesti tv; Amanda Foreman, habituée
delle serie del regista, fa capolino in plancia come nel primo capitolo. La
concatenazione di azioni e reazioni che costruiscono le tappe della trama ha
motivazioni di vendetta tipiche di Abrams perché già alla base di Mission: Impossible III e del primo Star Trek e sono tali da rendere
renoirianamente comprensibili i comportamenti ostili e aggressivi dei
personaggi. Nello stile poliedrico di Abrams, a suo agio nei campo-controcampo
dei dialoghi come nelle scene di massa, aiutato da una stereoscopia funzionale,
non invadente ma percepibile anche nelle sequenze statiche, prevale la
costruzione attorno ai personaggi. Punti focali di ogni film o delle
realizzazioni seriali, i personaggi sono il cardine realistico di qualsiasi
divagazione narrativa, che diventa, automaticamente, plausibile e credibile per
il suo saldo radicamento in psicologie condivisibili; inoltre la prevalenza del
personaggio e delle sue dinamiche rimanda ad un fondamentale umanesimo che non
si discosta troppo dall’utopia kennediana, pacifista e progressista, di Gene
Roddenberry in cui l’esplorazione dell’universo e dei suoi limiti si colorava
di ottimismo nella certezza di un futuro migliore. |
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