Due orgasmi plurali incorniciano la narrazione di Shortbus,
divergenti per senso e sentimento, egoistico e narcisistico all’inizio, panico
e liberatorio nel finale. Il film non lesina particolari anatomici, e la
fisicità di amplessi non simulati dettaglia il coinvolgimento diretto degli
interpreti in scene senza controfigure, senza i comodi filtri che la finzione
cinematografica spesso propone. Il senso del sesso mostrato non ha intenti
strettamente voyeuristici, ma questa componente accresce l’esibizione
dell’intimità e comporta, volente o nolente, la compartecipazione e il
coinvolgimento dello spettatore.
Il film nasce da un lavoro collettivo di un cast plurimo
che ha definito le proprie parti con successive improvvisazioni, in una
progressiva aderenza al personaggio sulla base delle specifiche inclinazioni
personali. L’attività di gruppo è diventata un gioco di ruolo tra interprete e
personaggio, dove i limiti tra verità e finzione si sono persi, e infine un
film in cui il regista aveva il compito finale del coordinatore e del
narratore, in un cortocircuito di riflessi metalinguistici. Perché anche i
personaggi interpretano nel film un crudele gioco di mascheramenti, in cui
desideri e verità profonde non coincidono con il proprio “ruolo”, generando
frustrazione e inappagamento, se non addirittura disperazione. Il percorso di
queste disfunzionalità singolari trova nel film modo di aggiustarsi, di
liberarsi e, freudianamente, accettarsi, attraverso la messa a nudo di sé (sia
fisica che psicologica), la condivisione e l’esibizione, sino a quell’orgasmo
catartico, che vorrebbe o dovrebbe espandersi al mondo. Il film descrive un
outing multiplo e di gruppo, attraverso il sotterfugio del locale di interazione
sessuale, lo “Shortbus” (sorta di “Stonewall” aggiornato ai tempi), luogo di
ogni immaginazione e in cui tutte le combinazioni e fantasie diventano
possibili.
La macchina da presa scruta l’intimità dei
personaggi quanto degli interpreti, ne osserva la distonia tra privato e
pubblico, offre la soluzione in un’utopia effimera e personale dal sapore
carnevalesco, con tanto di fanfara finale e canzone da cabaret, in un crescendo
musicale orgasmico addirittura cosmico. E forse esagera. È però tipico del
carnevale il rovesciamento spettacolare delle regole, finalizzato al
disvelamento parodico della verità. Lo “Shortbus” è non a caso gestito da un
travestito brechtiano, ospite e complice di tutti i clienti, Justin Bond (qui
il personaggio annulla l’interprete nell’identità anagrafica). Se il
travestito, nell’inadeguatezza apparente degli abiti e gesti al corpo si rivela
genuinamente, è esteriormente sincero, per chi non usa maschere evidenti solo
il denudamento del sesso porta alla rivelazione di sé, sgombra dal travestimento
autoimposto in società, dal travisamento della propria verità.
Ma il malessere diffuso dei personaggi, l’intimità
negata sembra avere radici più profonde di semplici dislivelli psico-emotivi.
Sia per evocazione diretta che per accenno implicito, Shortbus
Cameron Mitchell impone una confezione da commedia
sofisticata, con apertura e passaggi sullo skyline posticcio di New York e
accompagnamento vagamente swing, sembra voler dare una versione hardcore delle
pellicole romantiche di Nora Ephron (Insonnia d’amore, C’è post@ per
te), sollevando il velo di fascino e lasciando la crudezza del sesso che
cerca di essere disinibito, e che a volte coincide anche con l’amore, o almeno
con quella parente stretta, la sincerità, che allo “Shortbus” ha la sua alcova.
Eppure l’eccesso di sesso provoca effetti grandguignoleschi nell’accumulo e
sfiora una gratuità esibizionistica che solo la coerenza tra forma e contenuto
riesce a contingentare, imponendo però una percezione intellettualistica
dell’operazione che finisce col cancellare qualsiasi partecipazione emotiva al
film, e che relega lo spettatore al mero ruolo di astante guardone,
sconcertato, scandalizzato, disgustato o eccitato a seconda dell’indole, ma
sempre ben poco coinvolto. sembra
essere un ritratto dell’America dopo l’11 settembre, della città ferita in cui
anime perse vagano in cerca di un senso almeno privato. Strani sbalzi di
corrente e tremori portano a scrutare il cielo, accentuano l’angoscia
esistenziale, le rovine di Ground Zero viste dall’alto sono un cantiere grigio
e informe. La ferita non è rimarginata. L’inquietudine si sta trasformando in
disperazione, il disagio in alienazione perché ogni sconosciuto è una minaccia
latente, il terrore è stato interiorizzato nel timore di quella sincerità che
potrebbe rendere vulnerabili. È l’intimità di un’intera città sul bordo di una
crisi di nervi a mostrarsi nel film, nuda e graffiata, dolorante.
|