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di antonio fabbri

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Shortbus
di John Cameron Mitchell

Due orgasmi plurali incorniciano la narrazione di Shortbus, divergenti per senso e sentimento, egoistico e narcisistico all’inizio, panico e liberatorio nel finale. Il film non lesina particolari anatomici, e la fisicità di amplessi non simulati dettaglia il coinvolgimento diretto degli interpreti in scene senza controfigure, senza i comodi filtri che la finzione cinematografica spesso propone. Il senso del sesso mostrato non ha intenti strettamente voyeuristici, ma questa componente accresce l’esibizione dell’intimità e comporta, volente o nolente, la compartecipazione e il coinvolgimento dello spettatore.
Il film nasce da un lavoro collettivo di un cast plurimo che ha definito le proprie parti con successive improvvisazioni, in una progressiva aderenza al personaggio sulla base delle specifiche inclinazioni personali. L’attività di gruppo è diventata un gioco di ruolo tra interprete e personaggio, dove i limiti tra verità e finzione si sono persi, e infine un film in cui il regista aveva il compito finale del coordinatore e del narratore, in un cortocircuito di riflessi metalinguistici. Perché anche i personaggi interpretano nel film un crudele gioco di mascheramenti, in cui desideri e verità profonde non coincidono con il proprio “ruolo”, generando frustrazione e inappagamento, se non addirittura disperazione. Il percorso di queste disfunzionalità singolari trova nel film modo di aggiustarsi, di liberarsi e, freudianamente, accettarsi, attraverso la messa a nudo di sé (sia fisica che psicologica), la condivisione e l’esibizione, sino a quell’orgasmo catartico, che vorrebbe o dovrebbe espandersi al mondo. Il film descrive un outing multiplo e di gruppo, attraverso il sotterfugio del locale di interazione sessuale, lo “Shortbus” (sorta di “Stonewall” aggiornato ai tempi), luogo di ogni immaginazione e in cui tutte le combinazioni e fantasie diventano possibili.

La macchina da presa scruta l’intimità dei personaggi quanto degli interpreti, ne osserva la distonia tra privato e pubblico, offre la soluzione in un’utopia effimera e personale dal sapore carnevalesco, con tanto di fanfara finale e canzone da cabaret, in un crescendo musicale orgasmico addirittura cosmico. E forse esagera. È però tipico del carnevale il rovesciamento spettacolare delle regole, finalizzato al disvelamento parodico della verità. Lo “Shortbus” è non a caso gestito da un travestito brechtiano, ospite e complice di tutti i clienti, Justin Bond (qui il personaggio annulla l’interprete nell’identità anagrafica). Se il travestito, nell’inadeguatezza apparente degli abiti e gesti al corpo si rivela genuinamente, è esteriormente sincero, per chi non usa maschere evidenti solo il denudamento del sesso porta alla rivelazione di sé, sgombra dal travestimento autoimposto in società, dal travisamento della propria verità.
Ma il malessere diffuso dei personaggi, l’intimità negata sembra avere radici più profonde di semplici dislivelli psico-emotivi. Sia per evocazione diretta che per accenno implicito, Shortbus
Cameron Mitchell impone una confezione da commedia sofisticata, con apertura e passaggi sullo skyline posticcio di New York e accompagnamento vagamente swing, sembra voler dare una versione hardcore delle pellicole romantiche di Nora Ephron (Insonnia d’amore, C’è post@ per te), sollevando il velo di fascino e lasciando la crudezza del sesso che cerca di essere disinibito, e che a volte coincide anche con l’amore, o almeno con quella parente stretta, la sincerità, che allo “Shortbus” ha la sua alcova. Eppure l’eccesso di sesso provoca effetti grandguignoleschi nell’accumulo e sfiora una gratuità esibizionistica che solo la coerenza tra forma e contenuto riesce a contingentare, imponendo però una percezione intellettualistica dell’operazione che finisce col cancellare qualsiasi partecipazione emotiva al film, e che relega lo spettatore al mero ruolo di astante guardone, sconcertato, scandalizzato, disgustato o eccitato a seconda dell’indole, ma sempre ben poco coinvolto. sembra essere un ritratto dell’America dopo l’11 settembre, della città ferita in cui anime perse vagano in cerca di un senso almeno privato. Strani sbalzi di corrente e tremori portano a scrutare il cielo, accentuano l’angoscia esistenziale, le rovine di Ground Zero viste dall’alto sono un cantiere grigio e informe. La ferita non è rimarginata. L’inquietudine si sta trasformando in disperazione, il disagio in alienazione perché ogni sconosciuto è una minaccia latente, il terrore è stato interiorizzato nel timore di quella sincerità che potrebbe rendere vulnerabili. È l’intimità di un’intera città sul bordo di una crisi di nervi a mostrarsi nel film, nuda e graffiata, dolorante.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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