Continuando la ricerca e la
proposta dell’eccellenza in televisione, la conduzione di Fabio Fazio del
recente Festival di Sanremo ha
allineato la rassegna canora agli standard del conduttore di Che tempo che fa costruendo un Festival
d’autore in ogni senso e in tutte le sue parti.
Se il concetto di autorialità, in
ogni sua declinazione, può definirsi come scrittura autonoma di un percorso
riconoscibile, la coerenza è il tratto distintivo della versione 2013 di
Sanremo e la riconoscibilità dei singoli percorsi uno dei suoi ingredienti ed
elementi fondanti. I vari concorrenti hanno presentato canzoni del tutto
armoniche con la propria produzione; Littizzetto ha sdrammatizzato col consueto
mordente la ripetitività della struttura, concedendosi letterine impertinenti e
assoli di ironica lucidità femminista; Crozza ha fatto le sue imitazioni così
come Bisio ha, al solito, ammiccato nel proprio monologo; Fazio ha rispettato i
cardini festivalieri pur innovandoli dall’interno con numerosi apporti dalle
precedenti esperienze televisive. Ha ripercorso la storia del Festival andando
alla ricerca degli elementi più rappresentativi (canzoni, cantanti,
presentatori) per riproporli con la mediazione dell’ironia (Anima mia); ha introdotto un moderno
meccanismo da talent per la
partecipazione del pubblico nella scelta tra due brani per ogni interprete, ma
ha anche offerto una carrellata di volti famosi (come nel suo ultimo Sanremo nel 2000) per la presentazione
del pezzo eletto. Il conduttore di Sanremo ha aperto la prima serata con una
brevissima introduzione esplicativa sulla non necessaria distinzione tra
popolare e facile, anzi, sulla difficoltà di essere popolare e ha inserito
intermezzi di varia e spuria natura, anche se in prevalenza musicali (ballo,
musica classica, cinema e fiction, sport, impegno - il duetto silente degli
innamorati- e divertimento - le imitazioni di Marcoré -), alternando “alto” e
“basso” com’è sua consuetudine, e ha terminato con una lista a due voci (Vieni via con me, Quello che (non) ho, Che
tempo che fa del lunedì) con la compagna di palco con cui ha mantenuto il
familiare gioco delle parti tra irriverenza e formalità.
Nella proposta di interludi
legati a temi sociali così come negli “editoriali” comici di “Lucianina” (e in
alcuni testi delle canzoni in gara così come nella scelta degli ospiti esterni
alla gara) si è evidenziata l’idea ricorrente del rispetto dell’individualità,
nelle differenze e nelle conformità, nella scelta personale e della sua
indispensabile accettazione: un tema che attraversa e conferma la nozione di
autorialità, la quale permea e plasma l’intera struttura dello spettacolo
offerto nel 2013 dal Festival della Canzone Italiana.
Fabio Fazio si è poi concesso
momenti di protagonismo con duetti canori e imitazioni (le quali rimandano
direttamente ai suoi esordi o alle esperienza radiofoniche di Black Out) per una porzione di one man show che sta diventando parte
integrante delle sue trasmissioni. La regia di Forzano, riconoscibile, si è
caratterizzata da una maggiore luministica tridimensionalità fatta di
proiezioni di luci e di colori lasciando marginali i caratteristici schermi
mobili, pur presenti ma già ampiamente sfruttati in precedenza (Sanremo 2010
con Clerici, soprattutto). Se la firma di Duccio Forzano ha costituito
un’ulteriore citazione delle altre esibizioni di Fazio, la presenza di un vero
palco all’Ariston ha permesso alle precedenti esperienze di teatralizzazione
della televisione, ovvero di restituzione sullo schermo della pluralità delle
espressioni dell’intrattenimento culturale, di confrontarsi con una vera sala e
con un pubblico non necessariamente complice.
Il 63° Festival di Sanremo è stato un ulteriore capitolo del tentativo del
suo conduttore e autore di costruire uno spettacolo di qualità, di coniugare il
successo degli ascolti con la ricchezza dei contenuti e di fare, in sintesi,
servizio pubblico, intrattenere senza far abdicare l’intelligenza, costruire un
varietà canonico seppure innovativo che possa rivolgersi anche ai
telespettatori che avevano abbandonato il piccolo schermo per noia o
disinteresse. E ha cercato, come ha affermato entrando sul palco con una
dichiarazione d’intenti che l’Auditel ha poi confermato, di coniugare popolare
e culturale, di coinvolgere il più gran numero di spettatori nella fedeltà al
prodotto così come alle proprie intenzioni. Perché non si è trattato di rivoluzione,
lettura propugnata da critici faziosi, ma di una proposta di evoluzione della
televisione attraverso il suo capitolo più rappresentativo, della trasformazione
dello spettacolo e dell’intrattenimento in tv da fruizione passiva a
partecipazione intelligente (e non necessariamente intellettuale), fonte di
stimolo ed emozione attraverso il divertimento, com’era nella tradizione della
Rai. Anche se ad alcuni questo può parere intrinsecamente eversivo.
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