Sulla carta, l’ultimo episodio della saga di Rocky sembra
un film fuori tempo massimo, la tipica operazione commerciale priva di
interesse che recupera un personaggio pressoché dimenticato per risollevare le
quotazioni di un attore quasi decaduto, un tentativo di archeologia
cinematografica di stampo meramente mercantile. Eppure, l’epilogo della
esalogia dello “stallone italiano” possiede molti elementi a suo favore.
Stallone, che ha ripreso la regia della serie dopo
Avildsen (autore del primo e del quinto episodio, già apparentemente
conclusivo), non opera nessuna trasformazione del protagonista; anzi, lo
riporta alle origini, a quei bassifondi proletari in cui aveva avuto i natali,
aggiornandone l’età anagrafica e mitigandone le ambizioni. Tutto in Rocky è
anacronistico, il personaggio stesso, la vita già vissuta, il successo ormai
svanito: Adrian è morta e il figlio affettivamente lontano. Gli rimangono i
ricordi, l’assillante cognato e un ristorante dove ripetere e rivivere per
spettatori sempre nuovi le stesse storie, gli aneddoti di una carriera
conclusa. Mesto e malinconico, il film si adegua al personaggio e riflette le
vicende stesse dell’attore, dopo i fulgori degli anni reaganiani e il dimenticatoio
del presente. Il peso del passato, con il suo scorcio di serenità e gloria, è
un fardello asfissiante, un carico eccessivo che infligge, per contrasto, una
dolorosa impotenza. Le voci delle persone che lo riconoscono e salutano un
indistinto sardonico coro, le copertine e i ritagli dei giornali un semplice
addobbo sulle pareti. La sua statua è stata rimossa dalle famose gradinate, la
sua icona è sgranata, il simbolo smesso.
Quasi tutto il film è occupato dal solo protagonista
e dai suoi dolori, dal rancore per l’infelicità attuale, dalla nostalgia della
vitalità antica e l’insana voglia di ritrovare un senso, sanare il dolore,
mitigare la lenta morte e il freddo circostante. Perché siamo di fronte ad un
crepuscolo, un film che si apre e termina al cimitero sulla tomba della moglie,
abitato da uno spettro massiccio di un ex-pugile che ha attaccato i guantoni al
chiodo e indossato i vecchi abiti degli esordi, che vive negli stessi luoghi da
cui ha preso le mosse, tra i fantasmi di una città abbandonata e fatiscente che
non si è aggiornata alla modernità, un protagonista che ripercorre la via
crucis delle celebrazioni funebri dei posti e delle persone che gli sono stati
cari e di cui soltanto il ricordo non si è estinto. E il film, scritto dallo
stesso Stallone, non lesina crudeltà masochistiche, scava a fondo nel ridicolo
e nel confronto dell’inglorioso presente con i defunti splendori. La
recitazione ironicamente stonata e scontrosa di Stallone, il suo stesso corpo
si adattano adeguatamente al tono dimesso dell’intero film, ad una lotta
interiore contro la vecchiaia e l’infelicità e che si esprimerà e paleserà sul
ring solo perché quello è il terreno noto al personaggio, i pugni sono
l’alfabeto che conosce, il sudore e la sofferenza fisica l’unico stimolo a superarsi.
Un gioco del destino lo vede di nuovo protagonista, in uno
scontro simulato con Mason Dixon, il campione del mondo. In un film del tutto
alieno dal parossismo digitale della produzione americana coeva, solo nella
simulazione al computer di uno scontro impossibile trova spazio l’input
iniziale della trama, in una scommessa impresentabile che rasenta il ridicolo.
È la finzione funzionale alla narrazione, al ripristino dei meccanismi della
serie la cui valenza virtuale imprime al film e alla vicenda del protagonista
una virata di improbabile e altrimenti improponibile vitalità.
Solo così Rocky Balboa torna ad essere un
episodio della saga nota, l’allenamento viene sintetizzato in crescendo secondo
gli schemi abituali, il ring conquista infine il proscenio. Il vero film
termina però con lo scontro, inverosimile e risibile, tra il campione in
carica, ormai demotivato, e il vecchio pugile, in pensione ma mosso dalla
volontà di vivere e soffrire per superare il dolore ormai interiore. Sul
quadrato e tra le corde la sintassi cinematografica lascia spazio alla
volgarità televisiva e la pellicola riversa i suoi toni scuri e nostalgici
nell’impersonale luccichio tecnologico di Las Vegas, il film diventa la
telecronaca di un incontro impossibile.
Ma anche durante il duello fisico, Stallone
predilige un punto di vista soggettivo, evita la magniloquenza spettacolare di Rocky
III o la retorica anabolizzata di Rocky IV. Squarci
allucinati di ricordi e immagini dal passato cinematografico si frappongono ai
pugni, mentre il bianco e nero irrompe sullo schermo, interrotto dal rosso del
sangue o dal giallo delle decorazioni, la stilizzazione si fa allucinazione, il
presente della telecronaca sportiva diventa un vocio ridondante, assordante,
confuso, estraneo. Rocky rivive rivedendo la vita trascorsa, e solo in quella
trova la forza per far riemergere l’orgoglio e la dignità con cui accomiatarsi
degnamente dal pubblico, l’energia per un colpo di coda finale. Non c’è un
progetto futuro, non una carriera da difendere, né il tentativo comunque vano
di rivitalizzare stentatamente i giorni di gloria. Ma solo la necessità di
seppellire definitivamente il passato e riscoprire una latenza di felicità,
eclissarsi con un bagliore senza spegnersi lentamente per contingenze imposte
in un ultimo atto da consegnare con decoro. E un film che trova la forza
sorprendente di commuovere.
|