Variazione sul tema Cruise, in nuovo Jack Reacher mostra una vistosa
continuità e alcune innovazioni del personaggio cinematografico complessivo
dell’attore di Mission: Impossible.
Dal franchise spionistico eredita la
preminenza del protagonista (e produttore) come mattatore quasi unico e la
presenza di molte scene d’azione, mentre la vicenda sembra riflettere il Codice d’onore di Rob Reiner, con
prevalenza della parola e della trama investigativa da courtroom drama senza tribunale. Del JAG Reacher mantiene la
formazione militare, di Hunt l’adeguatezza fisica, di entrambi l’ostinazione,
tipica di ogni personaggio di Cruise. Se le sfrenate fughe o gli inseguimenti
acrobatici a piedi appaiono stranamente limitati, la forma fisica si evidenzia
nei corpo a corpo, nell’esibizione diretta dei muscoli e, soprattutto, nell’introduzione
dell’inedita caratteristica di seduttore seriale, riferita da più di un
dettaglio.
Al di là di una trama complottistica risolta semplicemente
seguendo il flusso dei soldi, il film si caratterizza per una forte precisione
registica (al netto di qualche svista di raccordo), di una cadenza calcolata
nella costruzione dell’impianto scenico e della rinuncia alla frenesia che sembra
tipica della moderna filmografia d’azione. McQuarrie si prende il tempo di
introdurre ambienti e personaggi, opta per un montaggio ordinato ma abbellito da
inquadrature aeree, da dettagli da prospettive inusitate dall’effetto realistico
e straniante (non lontane da quelle di Tony Scott, sebbene prive del suo lustro
fotografico), infine predilige la sineddoche e fa dell’ellisse l’elemento portante
del film. Vicende e figure sono presentate con accenni successivi o con inquadrature
isolate che soltanto in seguito si incarnano in immagini e sequenze per
acquistare senso compiuto, come la lunga introduzione che diventa evocazione di
Jack Reacher sino alla sua epifania dentro il film a trama iniziata. Ma anche
alcune fasi dell’indagine, riassunti del passato con flash-back esplicativi e la rilettura del senso di un’immagine già
vista non fanno che ribadire la chiave di lettura della pars pro toto, già ampiamente sperimentata (e premiata) con la sceneggiatura
de I soliti sospetti e l’implicita citazione
di Kusosawa di una realtà evanescente e fuorviante sino alla sua chiarificatrice
visione d’insieme.
Le scene d’azione sono svolte in modo sintetico,
senza la rapidità quasi subliminale di molti altri film che gonfiano un evento in
un’esplosione di microparticelle di montaggio, con una dinamica ma fredda secchezza
che si distanzia anche dall’approccio “organico” e pseudo-soggettivo della
serie dei Bourne, sempre all’interno soffocante della visione. MacQuarrie
sembra rispettare la posizione esterna dello spettatore, fornendoli gli
elementi necessari alla prosecuzione della narrazione e alla deduzione solo parziale
della soluzione con un costante gioco di allusioni e di chiarimenti, di false e
vere piste opportunamente miscelate con una costante ironia di fondo.
Pur fedele al racconto e vicino al personaggio
principale, il regista si mantiene ironicamente equidistante dalle falle della
trama e del suo sviluppo avviluppando l’insieme di una sana e consapevole sdrammatizzazione.
Questo gli permette di sottolineare gli eccessi di Reacher, volutamente sopra
le righe (come già Hunt in M: I IV), rendere
accettabile la costruzione retrò di
un personaggio acronistico, violento e ossessivo, privo di orpelli tecnologici
e narcisistici alla Bond (vestiti e gadget) ma con la determinazione di un
giustiziere dall’etica discutibile. Se lo stuolo efficaci di comprimari proviene
dalla prassi televisiva seriale (eccezion fatta per la Pike, già ex-bondgirl), i riferimenti
registici aspirano al classicismo cinematografico d’azione di Frankenheimer o
di Cimino e di Friedkin (di cui Duvall si fa emblema), con la cupezza
sotterranea di un pessimismo diffuso che si stempera però nella consapevolezza,
postmoderna, dell’omaggio.
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