È l’eccellenza l’ideologia
portante della più recente stagione lavorativa di Fabio Fazio, inaugurata dal
suo secondo Sanremo (2000), l’elemento uniformante della sua accezione di
intrattenimento televisivo come passerella di personalità di spicco di cui il
presentatore, giocando sulla sottrazione apparente di sé, si fa interlocutore
privilegiato e veicolo di diffusione. Una caratteristica che attraversa Che tempo che fa, nei suoi successivi
aggiustamenti, per arrivare a Vieni via
con me e, col trapianto su la7, giungere a Quello che (non) ho. Il pubblico, nel tempo, si fa progressivamente
più lontano, passando da una partecipazione calibrata (le foto, i suggerimenti,
ecc.) al ruolo di astante, di silenzioso osservatore della celebrazione in atto
che, temporaneamente, trasforma il teleschermo in proposta culturale.
Quello che (non) ho non rappresenta un’evoluzione effettiva della
fortunatissima precedente trasmissione di Rai3 bensì una sua variazione, con
alcuni cambiamenti sostanziali che non ne inficiano la struttura basilare di “varietà
verbale”, con canzoni e musiche, interventi e balli, coordinato dalla coreografia
degli ospiti e dal contrappunto dimesso di Fazio e interventista di Saviano.
Sono brevi assoli di pura letteratura che si intervallano vicendevolemente,
esempi di eccellenza intellettuale e morale, civile e comica, declinata questa
nelle ricorrenze di Gramellini e di Littizzetto, che separano le brevi
introduzioni di Fazio e i lunghi monologhi di Saviano che conferma la propria
qualità affabulatoria.
L’esibita continuità con la
trasmissione precedente e i rimandi insistiti con Che tempo che fa risuonano come una dimessa ma ferrea accusa al
tradimento della Rai, ancor più cocente per il fatto che l’editore rinuncia e,
anzi, abiura alla propria missione culturale di servizio pubblico per volgari
ragioni di mero interesse privato e di convenienza politica, ormai peraltro
clamorosamente datata.
Il senso di déjà-vu richiama quindi volutamente il precedente televisivo,
offrendo comunque una certa varietà di cambiamenti, innanzitutto scenografici.
All’hortus conclusus del piccolo luogo
teatrale e del canonico studio televisivo si sostituisce lo spazio quasi
sconfinato nella prospettiva delle OGR di Torino, residuo industriale di un’era
estinta, luogo di operai senza più lavorazione, cattedrale nel deserto dell’evoluzione
dell’occupazione che si tramuta in officina della celebrazione della cultura,
per destinazione permanente (è luogo di esposizioni) e temporanea. Il fondale
riamane leggibile sullo sfondo, reso astratto dalla ripetitività e dalla
prospettiva stessa. Il palco si rialza di pochi centimetri in mezzo al nulla,
interrompendolo con una tenda a telo su cui si proiettano fotografie e immagini
cinematografiche per allontanarsi da quello studio sulla teatralità in
televisione che ormai Che tempo che fa
sta diventando. Mentre continuano a susseguirsi ospiti illustri, gli elementi
di ricorrenza si concentrano in interventi puntuali e ripetuti, affidati a
poche voci (Elisa, i due coautori, gli esuli comici e giornalistici di Rai3) e
al ribadirsi, scaramantico e ritmico, del brano omonimo. E rispetto alla
volatilità poetica del fraseggio di Paolo Conte, la cadenza rock e il catalogo
ordinato dei versi di De André indicano la strada della sintesi che
sostituisce, nella scelta del tema comune agli interventi, la lista alla
parola. Aprendosi scenograficamente nella prospettiva, il soggetto della
trasmissione si concentra in un unico elemento, in una parola che funga da
motore per un breve discorso il cui insieme celebra l’importanza della parola che
diventa discorso, di un monologo che, espresso in pubblico, si faccia prologo
di un dialogo.
L’apparenza antitelevisiva
dell’argomento puramente verbale si riscatta con l’alternanza dei generi,
simile alla narrazione seriale a linee narrative intrecciate, riprese e
abbandonate a distanza, che solo in fine generano un senso all’interno di una
complessità architettonica inizialmente sfuggente. E di grande importanza è
anche la regia grafica di Duccio Forzano, colorista che costruisce concrete
astrazioni, pavimenti illuminati , pareti mobili, giochi di luci e di colori
che accentuano il fascino di un’opera che aspira ad essere, in ogni suo
elemento, d’autore. A scapito, a volte, della leggerezza che permeava il
sodalizio con Baglioni, di una levità che non rinunciava all’intelligenza
sfidando l’arguzia nella complicità con lo spettatore. Le più recenti
trasmissioni di Fazio si offrono ormai con distanza, sono una lectio magistralis costellata di interventi
eccellenti che incarna, nel dettaglio e nell’insieme, l’essenza della ruolo
dell’intellettuale come guida culturale e morale della società,
esemplificazione dell’evoluzione coerente della televisione pubblica d’antan come intrattenimento alto e utile.
Senza il clamoroso esito del 2010, in cui pesava la
sorpresa della costruzione e la diffusione su un’emittente storica, Quello che (non) ho conferma il talento
dei suoi conduttori e l’ambizione della rete a farsi succursale di Rai3,
ambendo ad un primato di qualità che sembra contraddire ogni istanza nota di
televisione privata, non solo in Italia, così come si è andata affermandosi sin
dagli esordi e che, dopotutto, sembra possibile.
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