visione critica
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di antonio fabbri

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Quello che (non) ho (2012)

È l’eccellenza l’ideologia portante della più recente stagione lavorativa di Fabio Fazio, inaugurata dal suo secondo Sanremo (2000), l’elemento uniformante della sua accezione di intrattenimento televisivo come passerella di personalità di spicco di cui il presentatore, giocando sulla sottrazione apparente di sé, si fa interlocutore privilegiato e veicolo di diffusione. Una caratteristica che attraversa Che tempo che fa, nei suoi successivi aggiustamenti, per arrivare a Vieni via con me e, col trapianto su la7, giungere a Quello che (non) ho. Il pubblico, nel tempo, si fa progressivamente più lontano, passando da una partecipazione calibrata (le foto, i suggerimenti, ecc.) al ruolo di astante, di silenzioso osservatore della celebrazione in atto che, temporaneamente, trasforma il teleschermo in proposta culturale.
Quello che (non) ho non rappresenta un’evoluzione effettiva della fortunatissima precedente trasmissione di Rai3 bensì una sua variazione, con alcuni cambiamenti sostanziali che non ne inficiano la struttura basilare di “varietà verbale”, con canzoni e musiche, interventi e balli, coordinato dalla coreografia degli ospiti e dal contrappunto dimesso di Fazio e interventista di Saviano. Sono brevi assoli di pura letteratura che si intervallano vicendevolemente, esempi di eccellenza intellettuale e morale, civile e comica, declinata questa nelle ricorrenze di Gramellini e di Littizzetto, che separano le brevi introduzioni di Fazio e i lunghi monologhi di Saviano che conferma la propria qualità affabulatoria.
L’esibita continuità con la trasmissione precedente e i rimandi insistiti con Che tempo che fa risuonano come una dimessa ma ferrea accusa al tradimento della Rai, ancor più cocente per il fatto che l’editore rinuncia e, anzi, abiura alla propria missione culturale di servizio pubblico per volgari ragioni di mero interesse privato e di convenienza politica, ormai peraltro clamorosamente datata.
Il senso di déjà-vu richiama quindi volutamente il precedente televisivo, offrendo comunque una certa varietà di cambiamenti, innanzitutto scenografici. All’hortus conclusus del piccolo luogo teatrale e del canonico studio televisivo si sostituisce lo spazio quasi sconfinato nella prospettiva delle OGR di Torino, residuo industriale di un’era estinta, luogo di operai senza più lavorazione, cattedrale nel deserto dell’evoluzione dell’occupazione che si tramuta in officina della celebrazione della cultura, per destinazione permanente (è luogo di esposizioni) e temporanea. Il fondale riamane leggibile sullo sfondo, reso astratto dalla ripetitività e dalla prospettiva stessa. Il palco si rialza di pochi centimetri in mezzo al nulla, interrompendolo con una tenda a telo su cui si proiettano fotografie e immagini cinematografiche per allontanarsi da quello studio sulla teatralità in televisione che ormai Che tempo che fa sta diventando. Mentre continuano a susseguirsi ospiti illustri, gli elementi di ricorrenza si concentrano in interventi puntuali e ripetuti, affidati a poche voci (Elisa, i due coautori, gli esuli comici e giornalistici di Rai3) e al ribadirsi, scaramantico e ritmico, del brano omonimo. E rispetto alla volatilità poetica del fraseggio di Paolo Conte, la cadenza rock e il catalogo ordinato dei versi di De André indicano la strada della sintesi che sostituisce, nella scelta del tema comune agli interventi, la lista alla parola. Aprendosi scenograficamente nella prospettiva, il soggetto della trasmissione si concentra in un unico elemento, in una parola che funga da motore per un breve discorso il cui insieme celebra l’importanza della parola che diventa discorso, di un monologo che, espresso in pubblico, si faccia prologo di un dialogo.
L’apparenza antitelevisiva dell’argomento puramente verbale si riscatta con l’alternanza dei generi, simile alla narrazione seriale a linee narrative intrecciate, riprese e abbandonate a distanza, che solo in fine generano un senso all’interno di una complessità architettonica inizialmente sfuggente. E di grande importanza è anche la regia grafica di Duccio Forzano, colorista che costruisce concrete astrazioni, pavimenti illuminati , pareti mobili, giochi di luci e di colori che accentuano il fascino di un’opera che aspira ad essere, in ogni suo elemento, d’autore. A scapito, a volte, della leggerezza che permeava il sodalizio con Baglioni, di una levità che non rinunciava all’intelligenza sfidando l’arguzia nella complicità con lo spettatore. Le più recenti trasmissioni di Fazio si offrono ormai con distanza, sono una lectio magistralis costellata di interventi eccellenti che incarna, nel dettaglio e nell’insieme, l’essenza della ruolo dell’intellettuale come guida culturale e morale della società, esemplificazione dell’evoluzione coerente della televisione pubblica d’antan come intrattenimento alto e utile.
Senza il clamoroso esito del 2010, in cui pesava la sorpresa della costruzione e la diffusione su un’emittente storica, Quello che (non) ho conferma il talento dei suoi conduttori e l’ambizione della rete a farsi succursale di Rai3, ambendo ad un primato di qualità che sembra contraddire ogni istanza nota di televisione privata, non solo in Italia, così come si è andata affermandosi sin dagli esordi e che, dopotutto, sembra possibile.

     (tutti i testi sono proprietà di antonio fabbri)
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