Ossessionato dal corpo e dalle sue potenzialità di
trasformazione e di evoluzione, David Cronenberg, da almeno due film e per
tramite di Viggo Mortensen, sembra affascinato dall’esplorazione della violenza
come modalità espressiva di rapporto e comunicazione, un linguaggio di indubbia
e radicale efficacia, sopito o rimosso per convenienza, ma la cui latenza
distruttiva non tarda a riemergere se adeguatamente stimolata.
Sono ancora corpi mutanti l’oggetto d’interesse del
regista canadese ne La promessa
dell’assassino, corpi fisici e sociali soggetti ad amputazioni e
manomissioni, nascita e morte che si esprimono indifferentemente nel sangue di
un parto o dell’efferatezza omicida. Nei corpi si radica la volontà di
evoluzione, di filiazione (maternità o paternità) negata o ambita, i rapporti
parentali cambiano senso e ambito, si ridefiniscono in base alle proprie
esigenze e non alle imposizioni tramandate dalle due istituzioni di
riferimento, la mafia russa e la famiglia familiare. I corpi diventano tessuti
cicatriziali del passato personale, libri aperti dai tatuaggi imposti che, come
un’epica privata, narrano le proprie gesta, le tappe di una via crucis
criminale in ascesa o rimangono marchiati dal rimpianto della maternità, negata
da una relazione precedente, che si reincarna in un’orfana nata da uno stupro.
Pur facendo un adeguato ritratto di tutte le mafie,
con il loro radicamento territoriale nei luoghi di origine, da cui esportano
usanze e gerarchie con l’annesso folklore, e nei luoghi di predazione, dove
impiantano una struttura di potere opprimente e tentacolare, Cronenberg non si
impone alcuna fedeltà naturalistica o cronachistica. Siamo all’interno di
un’astrazione teorica, di un’ipotesi mutazionistica che il microcosmo
dell’immigrazione russa a Londra condensa e rende solo più palese. Il boss si
arrocca dietro alla cortina fumogena di celebrazioni tradizionali da vivere
come rituali (la preparazione del cibo e delle atmosfere patrie) all’interno di
festività collettive (il Natale) ma non vede il mutamento in divenire. Perché è
di trasformazione che Cronenberg comunque parla, dei motori emotivi che muovono
al cambiamento, di intesa amorosa e di ossessione feticistica, dell’illusione
del benessere occidentale che spinge all’emigrazione, delle promesse non
mantenute di emancipazione e progresso, a cui il titolo originale fa
riferimento (Eastern Promises),
presto trasformate in morte e tortura, traffico di corpi e di denaro.
Viggo Mortensen è uno scagnozzo rampante, ma anche
un infiltrato della polizia e un aspirante boss, nonché inconfessabile oggetto
del desiderio del figlio del capofamiglia. La neonata è il simbolo dello
sfruttamento della sua madre biologica. La donna vive in una famiglia
eterogenea, composta da persone con linee di parentela indirette o
indeterminate. Il mafioso, la piccola vittima e l’estranea compongono una nuova
trinità, una famiglia mononucleare atipica e nuova, riunita dal caso e da una
violenza evidente ed implacabile, segnale tangibile di una lotta per la
sopravvivenza che sfocerà in un’evoluzione inevitabile quanto ambigua, preludio
ad una trasformazione dalle conseguenze insospettabili e inedite.
Nulla rimane invariato e tutto necessita di una
ridefinizione, i rapporti mutano, i centri di potere si spostano, i desideri si
rinnovano. Il film tutto è una scena di parto, violenta e sanguinolenta, in cui
sesso e affetto si sono ormai separati e che mostra la nascita terribile di
nuovi corpi mutanti in attesa di prendere forma compiuta, ma già vitali.
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