Esempio
di serialità cinematografica, la saga dell’aspirante maghetto, rispetto
ai canoni televisivi, sviluppa puntata dopo puntata l’arco mitologico
avventuroso, tralasciando lo sviluppo psicologico dei personaggi, ogni
film definendosi quasi esclusivamente come una tappa di avvicinamento
alla conclusione e al disvelamento dell’arcano.
I personaggi,
compatibilmente con l’ambientazione favolistica, sono tratteggiati
senza sfumature, con poche variazioni, se non anagrafiche, sul
rispettivo “tema portante”, una caratterizzazione che rimane pressoché
identica da un episodio all’altro. Ciò che importa conoscere in questa
trasposizione magica del sistema scolastico inglese, è la vicenda di
Harry, il suo misterioso passato, le radici del malessere e la
predestinazione che ne ha condannato i genitori. Solo questo aspetto
viene progressivamente messo a fuoco dai film, diversificati dalla
maggiore o minor bravura del regista, ma sostanzialmente impegnati a
dissipare questi misteri più che a caratterizzare i personaggi o a
sviluppare linee narrative trasversali o parallele. E Harry, con
l’avvicinarsi dell’epilogo, lontano altri due film, si fa più centrale,
i compagni d’avventura sempre più marginali, comparse ben note ma
fuggevoli.
Ironicamente, Radcliffe sembra invece attraversare il
film con attonito timore, come se qualcosa dovesse da un momento
all’altro sbucare da una parete per terrorizzarlo, lo sguardo un po’
fisso dietro agli occhialetti tondi, mentre i comprimari paiono
mostrare un maggiore interesse per la recitazione o i personaggi,
benché rimangano penalizzati dall’economia fantasmagorica del progetto.
L’esordio del film, con il balenare degli spiriti nella campagna
inglese, la stilizzazione fotografica nel contesto realistico (la
dominante blu ripresa dal Prigioniero di Azkaban), sembra
promettere una sterzata della saga, benché questa torni poi ai suoi
consueti canoni, distinguendosi dai precedenti solo per una vicinanza
quasi fisica ad Harry, con primissimi piani e dettagli, l’approfondirsi
dell’elemento onirico e l’insinuarsi dell’incubo nella realtà.
Ma
i tormenti passati, incuneati nel presente ad avvertire dell’imminente
minaccia, diventano un attento e pedissequo riepilogo delle puntate
pregresse, rileggono il tessuto cinematografico per farne riemergere la
trama e tirarne le somme in vista di snodi futuri. “Negli episodi
precedenti”, si direbbe in tv, ambiente frequentato assiduamente (e con
buon i risultati: State of Play, Sex Traffic) dal regista
David Yates, già promesso alle redini della prossima puntata. Eppure,
la pomposità degli effetti speciali, una certa meccanicità
dell’impianto, la sbrigativa definizione delle psicologie,
l’assuefazione al pubblico adolescenziale di riferimento, il catalogo
vivente di attori britannici di fama internazionale (tutti elementi
assenti dai lavori televisivi di Yates), limitano l’incisività di una
saga che forse solo con Cuaròn aveva trovato un regista capace di
fondere divertimento con un minimo sindacale di attenzione per il
racconto o per le immagini, ma anche infondere una certa inquietudine
che permaeva la pellicola e permetteva ai personaggi di emergere e di
subentrare ai giocattoli tecnologici o magici onnipresenti e sempre più
ingombranti.
|